Montreal, Canada. Uno scrittore (Rafe Spall), ascolta da Piscine Molitor Patel (Irrfan Khan), la sua storia, a partire dalle origini del nome, suggerito da un amico di famiglia, esperto nuotatore, in omaggio alla migliore piscina di Parigi, a suo dire. Nato e cresciuto a Pondicherry, zona francese dell’India, (madre botanica, padre proprietario di un albergo e di uno zoo, un fratello maggiore), il nostro, preso in giro dai compagni di scuola, abbreviò il suo nome in Pi, associandolo al pi greco, mentre apertura mentale e purezza di pensiero lo portarono ad abbracciare lo spirito di tre diverse religioni (Induismo, Cristianesimo, Islam). Ormai adolescente (Suraj Sharma), il tempo di avvertire la magia del primo amore, dovette imbarcarsi con la famiglia, e alcuni animali dello zoo, alla volta del Canada.
Ma la nave affondò in seguito ad un violento fortunale: unici sopravissuti il ragazzo, una zebra, una iena, un orango e una tigre del Bengala, anche se presto sulla scialuppa si ritrovarono Pi e il felino …
Irrfan Khan
Sceneggiato da David Magee adattando l’omonimo romanzo di Yann Martel (in Italia edito da Piemme) e diretto da Ang Lee, Vita di Pi è certo un film spettacolare, con un 3d perfettamente integrato nella narrazione, tanto a livello di poetica che di stilizzazione dell’immagine, ma queste indubbie qualità non devono far dimenticare la profonda spiritualità di cui l’opera è soffusa, offrendo svariati spunti di riflessione, al di là della magia visiva espressa: il complesso rapporto uomo -Dio- natura, l’accettazione non passiva del proprio destino, facendo leva sulla propria interiorità, affidata sino allo stremo all’ispirazione di un entità superiore, per finire con la manifestazione della dualità propria dell’animo umano.Suraj Sharma
Pi, come l’Ulisse dantesco, rappresenta l’uomo mai sazio di conoscenza, ogni esperienza di vita è valida per superare le Colonne d’Ercole dell’Infinito, tanto che l’apparente scontro con Dio diviene un confronto, volto alla sua ricerca in ogni ambito del creato, a partire dalle diverse esternazioni religiose (“la fede è una casa con molte stanze”).Tutto questo è ben reso tanto dall’interpretazione di Sharma che dal fluire morbido, fiabesco, assecondato dalla regia di Lee, capace di raggiungere vette elegiache, pur con qualche momento d’incertezza verso il finale ed un incipit didascalico. A mio avviso, al di là della scena del naufragio, mediata tra senso della tragedia e spettacolarità, o altre sbalorditive come l’arrivo dei pesci volanti e l’apparizione della megattera, sono due in particolare le sequenze degne di restare impresse nella memoria, avvalorate dall’ottima fotografia di Claudio Miranda.
Richard Parker, la tigre
In primo luogo il momento in cui Pi accetta il proprio destino e si affida ad una volontà superiore, con cielo e mare a congiungersi in un immobilismo simbolico e poi la visione notturna, onirica, che sembra accomunare uomo e animale in un unico destino, mentre poi ciascuno dei due riprenderà la propria strada.Infine, a dimostrazione che vi possano essere tante verità quanti siano i bisogni dell’umanità a conferire un significato alle proprie ambasce, la conclusione del racconto, un po’ incerta come su scritto, appare in fondo volutamente sospesa più che ambigua (richiama Rashomon, ’50, Akira Kurosawa), affidata alla nostra interpretazione, a seconda che si sia inclini alla lusinga rappresentata dal binomio fede- speranza o a quella espressa da una razionalità analitica.
Ang Lee
Inutile negare che si possa restare spiazzati dopo la visione, molti saranno ammaliati a livello puramente sensoriale, altri sentiranno vibrare le corde del proprio intimo più profondo o, concludendo, vi potrà pure essere chi resterà indifferente, ma tutto ciò starà a significare solo una cosa, la capacità ancora viva del cinema di suscitare un’emozione diretta e sincera, espressione della sua originaria purezza, grazie anche all’innato equilibrio tra autorialità e senso dello spettacolo proprio di un regista come Lee. Chapeau.