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Fin dal titolo, infatti, si capisce che J. Edgar non è un biopic storico, bensì privato, quasi intimo, con la personalità gigantesca e al tempo stesso minuscola di Hoover a filtrare ogni evento. La metafora di Eastwood è tanto affascinante quanto pericolosa: come il povero Edgar, insicuro, balbuziente, solo, forse consapevole di essere omosessuale, una "gerbera" come gli dice la madre, è riuscito a controllare le sue pulsioni, a "essere forte" come si ripete di continuo, tenendo a freno gli istinti e lottando per il sopravvento della razionalità, così gli Stati Uniti hanno soffocato la propria wilderness, il proprio naturale spirito rivoluzionario, violento o emancipatore, salvo esprimerlo nel cinema, nella celebrazione ambigua della criminalità o della repressione autoritaria operata da Hollywood e dallo stesso Eastwood in diversi momenti della sua carriera.
In questo confusione di valori tra vita privata e gestione pubblica (che riguarda Hoover ma in realtà lo stesso Eastwood) stanno la forza, così come l'ambiguità e la fragilità di J. Edgar. In fondo lo dice anche il John Ford di Alba di gloria, quando - cito a memoria - durante la gara di tiro alla fune mostra il giovane Abramo Lincoln barare spudoratamente e vincere solo dopo aver legato a un carro la propria estremità di corda. Ciò che nel privato è concesso, nel pubblico va rinegoziato: la questione aperta da Hoover riguarda proprio il prezzo di quella negozazione. Quanto, insomma, il potere democratico degli Stati Uniti sia stato in grado di barare al gioco o di lottare contro l'illegalità e la violenza rispettando i propri principi.
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