C’era una volta la ricerca della perfezione. Secoli fa, quando i libri erano gioielli che andavano curati in ogni particolare, tutto era geometrico e proporzionato, volto alla ricerca del bello assoluto, tant’è che la pagina aveva precisi canoni per essere impostata: dalla sezione aurea, quintessenza dell’armonia fin dall’antichità, ai moduli, alla sperimentazione nel rispetto del bilanciamento di ogni elemento, spazio bianco compreso.
In tipografia, con l’uso dei caratteri mobili, anche lo spazio tra le lettere e tra le righe doveva rispondere a proporzioni assolute; tant’è che l’unità di misura non può più essere il millimetro: ecco allora che si usa il punto tipografico, 0,376 mm, che triplica la precisione.
Costruire un testo scritto, in origine, era un sublime gioco di architettura, poesia e arte. Un connubio di discipline diametralmente diverse tra loro, eppure inscindibili e destinate a un intreccio dai mirabili risultati.
Poi sono arrivati il digitale, i primi softwares, e la storia che tutti conosciamo. Dal progresso all’eccesso, chiunque sia in possesso di un programma adeguato può creare qualsiasi tipo di prodotto editoriale, anche senza un’adeguata preparazione. E i risultati si vedono, eccome, se si vedono.
Uno dei millemila esempi. Si commenta da sé.
Giustappunto, uno studente che sceglie Editoria come università si aspetta un corso… di editoria, no? Qualcosa che sappia preparare al mondo del testo scritto, alle case editrici, alla progettazione di un libro e quant’altro.
Dove sto studiando io, le brutte sorprese sono cominciate immediatamente.
Fino a non molto tempo fa, il corso di laurea si suddivideva in tre curricula: quello editoriale, quello giornalistico e quello linguistico. Ora, invece, l’unico piano di studi disponibile è un assurdo ircocervo di materie scombinate, che non c’entrano l’una con l’altra, non portano da nessuna parte e, nel peggiore dei casi, sono farse assurde: basta aggiungere a una qualsivoglia materia inutile la dicitura “per l’editoria”, ed ecco che magicamente il piano di studi acquisisce una dignità formale. Certo, come no. Ho dato qualche esame di questi senza neanche disturbarmi a comprare i libri, seguendo le lezioni solo perché ero già nell’edificio e, dato che non era esattamente il mio periodo migliore, per tenermi occupato con qualcosa. E mi sono visto fioccare i trenta nel libretto, così, solo perché sono in grado di scrivere in italiano. Volete sapere una chicca, tanto per dare un’idea della cultura universitaria odierna? A un esame, un professore disperato ha chiesto agli studenti interrogati di recitare la serie alfabetica. Fossi dannato se uno, uno solo, l’ha saputa dire correttamente. L’alfabeto. A una laurea magistrale.
Sto studiando a Editoria, ma esiste un solo corso realmente definibile tale: è un laboratorio, quindi mi aspettavo di poter finalmente produrre qualcosa di concreto. Ho adorato da subito il professore: non ha esitato a dire che lì non esiste l’approssimazione, a spiegare quanto ho detto nell’incipit di questo post, ad auspicare una generosa scrematura degli studenti frequentanti, a sparare a zero su tutte le schifezze che appestano l’editoria italiana.
Tempo qualche lezione e io ero già lì, stregato dalla sua conoscenza, a chiedergli di poter fare uno stage nel suo studio grafico-editoriale e di poterlo avere come relatore per la tesi. L’unico esame di editoria (alla facoltà di Editoria…), e già dopo poche ore mi si era spalancato davanti tutto un mondo del quale, fino a quel momento, avevo solo vagheggiato l’esistenza.
Ovviamente la risposta è stata un no su tutta la linea. E non per volontà del professore.
C’era una volta un corso, chiamato Laboratorio di Editoria Applicata, che prevedeva la realizzazione di un libro come lavoro di gruppo, dalla progettazione all’impaginazione alla stampa. Difficile, certo, ovvio. Ma uno studente sarebbe uscito da lì con un prodotto editoriale in mano da presentare come portfolio, e sapendolo descrivere in ogni sua parte: che gabbia di impaginazione è stata utilizzata, quale conoscenza di InDesign si è raggiunta, che tipo di carta è stato usato, quale rilegatura… Ottime garanzie professionali.
C’era una volta un gruppo di studentesse che, preoccupate di doversi impegnare per realizzare qualcosa, si coalizzavano per fare una raccolta firme contro il sopra citato corso. È una sciocchezza, no? Classico stile polemico da giornalisti, giusto? Quindi un’università non avrebbe dovuto neanche prenderle in considerazione. Un’università seria, voglio dire.
E a questo punto immaginerete anche come è andata a finire. Quel corso bellissimo non esiste più, è limitato a uno sterile insegnamento costretto a condensare un’infinità di nozioni (che, da sole, darebbero origine a un corso di laurea a sé stante, tanto ci sarebbe da dire) in trentasei ore. Trentasei ore e un esame. Fine. Tutto il resto è Giornalismo e Lingue.
Mi sono ritrovato deluso e invelenito, ma sul piede di guerra: ho lanciato anch’io una raccolta firme per far ripristinare o ampliare quel corso, e con soddisfazione ho scoperto di non essere l’unico a pensarla così. Poi, dato che l’università a quanto pare fa di tutto per ostacolare la cultura e non richiede poi un così grande impegno per gli altri corsi, me ne sono andato all’Antica Tipografia Artistica Arche Scaligere (Museo Conte) a fare l’apprendista, con tanto di approvazione del professore di Laboratorio. Specifico: non come studente, ma come studioso, privatamente. Idem per gli approfondimenti su vari argomenti del corso: l’unico modo è sedersi al bar della mensa (dato che l’università non ritiene nemmeno opportuno dare al docente un suo studio, come agli altri, e anzi preferisce toglierglielo senza preavviso e motivazioni), prendendo appunti sui tovagliolini. Almeno ci sono lo spritz e le patatine, no?
Qualche altro esempio di incompetenza? Ne avrei a bizzeffe.
Da uno dei libri di testo di un programma d’esame: notare lo spazio tra la parola e la virgola e la d eufonica.
Un altro esempio, bello grande, da titolo, tratto da un altro libro di testo.
Una perla proveniente dall’università. Notare l’infelice scelta dei colori, la sillabazione, la spaziatura tra le parole, la punteggiatura, la sintassi e la traduzione.
Questa, dunque, è la formazione data agli studenti che si iscrivono alla facoltà di Editoria che frequento io. Sommaria, grossolana, che come motto potrebbe avere «Se ti interessa l’argomento, arrangiati altrove».
Non c’è poi da stupirsi, se arrivano frotte di libri pessimi, di autori arroganti convinti di essere la rivelazione del millennio, e di gente che neanche sa scrivere la propria lingua madre.
Infine, una doverosa precisazione anche per quanto riguarda il modus operandi di questa università. Questo il decalogo:
1) Sovrapponiamo tutti i corsi di giovedì e venerdì, in modo che nessuno possa frequentarli tutti come da piano di studi.
2) Limitiamo l’attività dei professori che fanno cose difficili e che richiedono più impegno di qualcos’altro.
3) Chiudiamo i bagni del secondo piano, dato che è quello più frequentato.
4) Informatizziamo tutto, iscrizioni agli esami e valutazioni, in modo da essere più sicuri di perdere i dati.
5) Teniamo aperti gli uffici solo negli orari in cui gli studenti sono a lezione.
6) Mettiamo a fare servizio tutorato solo studenti che a malapena sanno quali e quante sono le entrate dell’ateneo, per essere ottimisti.
7) Eliminiamo tutti gli stage di Editoria a favore di quelli di Lingue e, soprattutto, di Giornalismo.
8) Non forniamo agli studenti i softwares e il materiale necessario, in modo che possano lamentarsi ulteriormente del sopra citato corso difficile.
9) Dopo aver mutilato il piano di studi, massacriamolo ulteriormente facendo partire solo alcuni corsi (mi raccomando, Giornalismo e Lingue, non sia mai che si aggiungano materie di Editoria).
10) Mettiamo solo una parte degli orari online, e lasciamo che siano gli studenti a trovare gli altri, girando a caso e perdendo le lezioni introduttive.
Benvenuti all’università.