«La notte prima dell'onda, ricordo che io ed Hélène abbiamo parlato di separarci». L'incipit di Vite che non sono la mia vi porta subito alla consapevolezza del momento in cui qualcosa finisce: vi sentite incapaci di stare ancora con la persona con cui immaginavate la vecchiaia, sapete che allontanarvi è l’unica naturale conseguenza credibile e che la ricerca infinita di un Altrove, la paura di non essere capaci di amare vi perseguiteranno per sempre.
Carrère era in questo stato interiore il 25 dicembre 2004, nello Sri Lanka che l'indomani sarebbe stato per sempre alterato dallo tsunami, all’inizio del racconto autobiografico delle Vite che non sono la mia, edito nel 2011 da Einaudi e di recente ristampa (trad. Maurizia Balmelli). Rivela subito che, nel momento in cui scrive, anni dopo, quello stato d’animo sembra abbia lasciato spazio a una fiducia più ampia, sorprendendosene lui per primo. Inizia a raccontare le terribili vicende accadute ad affetti a lui vicini e, attraverso quelle, di come ne è stato influenzato («E poi, dopo l'onda, ti ho scelta, ci siamo scelti ed è cambiato tutto»): è rimasto dov’era, accanto alla compagna di allora, con la speranza che il fragile tutto duri e con la vita da abitare insieme a chi ci riconosce («Accanto a lei, so dove sono»).
Le vite che non sono la vita di Carrère, ma che sono state così incisive su di lui, vi coinvolgeranno fortemente. Hanno affrontato, per sua stessa ammissione, “ciò che più gli fa paura”: la perdita di un figlio per i genitori durante una catastrofe naturale («Stamattina era viva, si è svegliata, è andata a giocare nel loro letto, li chiamava papà e mamma, rideva, e adesso è morta. Sarà per sempre morta») e la perdita di una mamma per i figli ancora piccoli a causa di una malattia mortale («L'orrore di immaginare un mondo senza di te, di sapere che non vedrai crescere le tue figlie, ma anche l'orrore fisico, che prendeva sempre più spazio»). Carrère ne è diretto testimone e comprende che non può sottrarsi al confronto con chi ha imparato a restare, a resistere, e si sente incaricato a renderne conto, scrivendone.
Riuscireste ad approcciarvi al dolore delle famiglie distrutte da una tragedia che ha fatto migliaia di vittime intorno a voi ma che ha risparmiato per puro caso tutti i vostri cari? («Soltanto il giorno prima erano come noi, noi come loro, ma a loro è accaduto qualcosa che a noi non è accaduto e adesso apparteniamo a due umanità distinte»). Nelle pagine in cui descrive cosa è stato per lui essere al centro delle conseguenze di un maremoto, Carrère gira frastornato tra i superstiti, assistendo all'infinita angoscia che l'incertezza, la speranza, le separazioni definitive portano con sé quando viene modificato per sempre il corso delle esistenze («Ascoltandola penso: questa donna ha perso tutto ma aveva tutto, o perlomeno tutto quello che conta. L'amore, il desiderio che durasse, la volontà di farlo durare e la fiducia: sarebbe durato. Io, che ne ho tante altre, le invidio questa ricchezza»).
La seconda metà del libro vi avvicinerà senza nessun filtro alle vite di chi ha affrontato a lungo patologie terribili, descrivendo con acuta umanità come intendere la trama dei rapporti personali durante la sofferenza («Chiamare Ètienne era come prendere una medicina straordinariamente potente ed efficace, che si tiene in serbo per quando si avrà molto male»), insegnando come tutto il male vissuto faccia divenire più consapevoli di sé (citando, nelle ultime pagine, Céline «Forse è questo che cerchiamo nella vita, nient'altro, il più grande dolore possibile per diventare noi stessi prima di morire»), toccando le vette della vostra sensibilità più profonda.
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