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"vite rinviate", comprimendo esistenze e sicurezze?

Creato il 07 aprile 2014 da Alessandro @AleTrasforini
Il paradigma alla base di qualsiasi iniziativa sul lavoro sembra essere, in termini estremi ed estremamente sintetici, riconducibile ad una sola parola chiave fondamentale: flessibilità.
Grazie alla flessibilità la disoccupazione potrebbe diminuire, grazie alla flessibilità le realtà imprenditoriali potrebbero tornare ad investire in un Paese trasformatosi in una desolata landa di iniziativa, grazie alla flessibilità potrebbero in un medio-lungo termine (ri)tornare a lavorare tutti.
Se la parola flessibilità fosse stata coniugata e meglio tradotta in atti concreti, forse qualcosa di più si sarebbe potuto comprendere nel panorama socio-economico italiano; ad oggi, purtroppo, non sembrano essere queste le sensazioni di una larg(hissim)a parte del popolo italiano.
Il nucleo fondamentale delle (troppe) promesse fatte in questi anni di (contro)riforme troppo velocemente attuate è esponibile attraverso poche ma efficaci righe:
"[...] Il lavoro flessibile produce occupazione: è la promessa miracolosa che ha legittimato il progressivo smantellamento delle tutele del lavoro. La realtà è diversa, molto diversa. [...]"
Fino a che punto è possibile evidenziare, discutere ed analizzare in maniera il più possibile critica ed il meno possibile parziale un argomento così tanto importante e per troppo tempo sottovalutato nel dibattito contemporaneo?
A questa e moltissime altre domande cerca di rispondere il libro "Vite rinviate - Lo scandalo del lavoro precario", scritto dal Professore Emerito Luciano Gallino e pubblicato da Editori Laterza-La Repubblica nell'ambito del progetto multimedial-cartaceo iLibra.
Nonostante molte certezze definite tali in maniera ferrea ed inoppugnabile, infatti, sono molti gli aspetti critici di una tematica così radicalmente importante per la definizione di politiche social-economiche nazionali:
"[...] La flessibilità produce profonde disuguaglianze e ha costi personali e sociali che non si possono sottacere. Costa prospettive di carriera professionale. Costa percorsi formativi iniziati e interrotti. 
Costa rapporti familiari instabili. Costa fatica fisica e nervosa per il continuo riadattamento a un nuovo contesto. Ma ancor di più costa alla persona, per la sensazione rinnovata ogni giorno che la propria esistenza dipenda da altri. Costa la certezza amara che non è possibile guidare la propria vita come si vorrebbe, o come si pensa d'aver diritto di fare. Cosa la comprensione che la libertà è alla prova dei fatti una parola priva di senso. [...]"
Il concetto di una libertà sfuggente ed eccessivamente delimitabile presuppone la necessità di affiancare alla parola precedentemente sovracitata un ulteriore concetto chiave: sicurezza.
La parola sicurezza, potenzialmente richiamante un'infinita serie di differenti concetti, dovrebbe avere l'obiettivo di controbilanciare l'indeterminatezza delle conseguenze derivanti dalla parola flessibilità.
Tale analisi rischia di avere ancora maggiore importanza, se confrontata con un "terreno" abitualmente poco propenso ad assorbire in breve tempo radicali cambiamenti come quello italiano.
In cosa consisterà, in un futuro non lontano, la definizione specifica di "uomo flessibile"?
Sarà davvero solo un uomo disposto incondizionatamente ad adeguarsi a qualsivoglia tipo di cambiamento o finirà per flettersi fino a "rottura" socio-economica-caratteriale-[...]?
I margini di scelta e risposta ad una questione simile sono labili, sottili e complessi da inquadrare e definire: quanto è stretto e debole il confine che separa la flessibilità del lavoro dalla precarietà della vita?
Può la flessibilità estrem(izzat)a avere una pesante serie di costi umani attualmente non considerati e/o non adeguatamente valutati? Quali forme di sicurezza potrebbero potenzialmente essere messe in crisi e/o in cortocircuito da un'eccessiva ed esasperata idea di flessibilità?
Possono esistere altri modelli alternativi con cui costruire tematiche tanto importanti e qualificanti come quelle del lavoro e del cosiddetto welfare state, alla prima tematica enormemente legato?
Cosa ne sarebbe di una società plasmata integralmente e fedelmente rispetto al modello brevemente identificato come 7x24? Le opinioni e le possibilità a questo proposito non si sprecano:
"[...] Lavoro e consumo, cultura e intrattenimento, esercizio sportivo e rapporti con l'amministrazione pubblica: tutto è possibile per tutti 24 ore su 24, 7 giorni su 7. Inoltre [...] ciascuno ha la possibiltà di adattare le proprie condizioni e i tempi di lavoro alle sue esigenze e responsabilità familiari. 
La società 7x24 [...] trova un sostegno insostituibile nelle tecnologie dell'informazione e della comunicazione. [...]"
Quale rapporto intercorre, in una società ambiziosa di definirsi moderna e modernamente concepita, fra società flessibile e lavoro flessibile? L'uno schiaccia l'altra o possono esservi reciproche relazioni di ambivalenza ed utilità?
Un Paese come l'Italia dovrebbe affrontare concretamente e pragmaticamente argomenti come questi, senza perdersi in slide dalla dubbia capacità di sintesi o in argomentazioni dalla (assai) discutibile presa diretta.
Una terra come quella italiana avrebbe il dovere di pesare l'impossibilità di effettuare riforme radicali in poco tempo, avendo preventivamente e doverosamente ragionato e valutato sulla "fertilità" del terreno circostante alla società da cambiare radicalmente.
In uno Stato nel quale gli indici di disoccupazione piangono, la crescita langue, l'inflazione è potenzialmente deflagrabile in una spirale negativa, scarseggiano i fondi per riformare con intervento attivo dello Stato l'economia ed il lavoro, [...] dovrebbe essere opportuno ridiscutere e definire rinnovati metodi di deliberazione e discussione.
Affinchè il percorso passato, presente e futuro non possa trasformarsi, in un domani non lontano, in una sorta di "cronologia dei diritti perduti" od ancora in una specie di "cimitero di infinite buone intenzioni".


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