Vittorio Storaro e Giovanni Berardi
A Settembre il traffico sulla via del lungomare di Sabaudia è assai mitigato, e percorrerla in questo contesto dà un grande senso di pace, di libertà, di armonia, di natura, e il promontorio di Circe, fascinoso, che si staglia all’orizzonte e diventa sempre più vicino, sembra raggiungere proprio l’irresistibile. È facile avere queste sensazioni, queste celesti visioni, quando si va a trovare Vittorio Storaro, uno dei più famosi ed autorevoli direttori della fotografia cinematografica in campo mondiale che, in estate, elegge a sua musa e dimora la quiete e l’urbanistica razionale della città di Sabaudia.
Il lavoro del direttore della fotografia rimane sempre difficile da raccontare, forse a causa delle informazioni che continuano a latitare su questa figura simbolo del cinema. Ed invece non è assolutamente così, nel lavoro del direttore della fotografia, pensiamo, si concentra la massima responsabilità nel campo dell’immagine cinematografica.
Dice Storaro: “Infatti sin dai primi lavori io ho espresso la mia individualità, sia pure in un’opera sicuramente corale come quella cinematografica. Quindi mi sento assolutamente un co-autore dell’opera cinematografica, assolutamente responsabile della sua ideazione fotografica. Ed è per questo che non sono molto d’accordo con la definizione professionale di “direttore della fotografia”. In questa definizione non mi sono mai sentito a mio agio mentre “cinematografo”, quindi “cinematografia di” che significa colui che scrive con la luce, è esattamente la parola che qualifica la nostra professionalità”.
Ora comunque Vittorio Storaro è contento perché la legge sul cinema del ’41, sulla figura professionale del direttore della fotografia, che non attribuiva la qualifica di autore è stata ritenuta inesatta, anzi stilata sicuramente per ignoranza dai legislatori dell’epoca. Vittorio Storaro ritiene questo, finalmente, la conclusione storica di un’ingiustizia.
Continua Storaro: “Il linguaggio del cinema, che è l’immagine, è formato dal conflitto e dall’armonia degli elementi fondamentali della nostra vita, l’ombra e la luce”. É su questa base teorica, in fondo, certo tra situazioni anche estreme di studi e ricerche, che si è espressa tutta la sua filmografia. E quando un film possiamo ritenerlo bello, dal punto di vista dell’estetica, della natura artistica e della tecnica del cinema? È una domanda che il cronista ha in serbo da sempre e l’occasione pare deputata per una risposta. Dice Storaro: “Un film è bello quando è in equilibrio. Questo succede quando sono in equilibrio le tre forme espressive fondamentali: l’immagine, la musica, la parola. Se tra queste tre c’è una che predomina e le altre hanno una carenza il film allora non può essere un bel film”.
Tre premi oscar a coronare la prestigiosa carriera internazionale: Apocalipse now (1979) di Francis Ford Coppola, Reds (1981) di Warren Beatty, L’ultimo imperatore (1987) di Bernardo Bertolucci, un palmares a Cannes per Tango (1998)di Carlos Saura. Tra i primi film illuminati da Storaro c’è L’uccello dalle piume di cristallo (1969) opera prima di Dario Argento. E’ il film che ha dato avvio alla grande stagione del giallo, dell’horror e del thriller all’italiana. Già in questo film la parte visiva curata da Storaro ha avuto un ruolo determinante e molto incisivo, raccontato, talora, dai giornali specializzati, in maniera anche singolare. Ora non è mai stato un mistero per nessuno che gli horror ed i gialli siano sempre stati affidati alle mani di grandi operatori della luce, essendo questa una tradizione comune a tanta cinematografia, da Hollywood al cinema britannico, fino a quello giapponese ed asiatico. Per L’uccello dalle piume di cristallo - che noi pensavamo molto ispirato dai lavori e dalla tecnica di Mario Bava, e che Quentin Tarantino prenderà ad esempio per tante inquadrature di Kill Bill (2003) – afferma Storaro che non è andata esattamente così.
Dice Storaro: “ Per L’uccello dalle piume di cristallo nessuno ha mai pensato a Mario Bava, anzi a quei tempi di Bava, del suo cinema e della sua tecnica, non se ne parlava nemmeno; Argento aveva in mente, come fonte di ispirazione diciamo, solo Alfred Hitchcock. Di lui parlavamo spesso durante le nostre riflessioni sulle inquadrature da utilizzare”. Già in L’uccello dalle piume di cristallo, come ne La strategia del ragno (1969), film girati quasi in contemporanea – quest’ultimo titolo segna il primissimo incontro con Bernardo Bertolucci – Storaro comincia a realizzare, attraverso lo studio sul significato della luce, e sulla sua componente più immediata che è l’ombra, la consistenza e la natura rivelatrice dei colori. Storaro gira con Bertolucci ben otto film in un percorso che, oltre ad essere artistico e culturale, è diventato, set dopo set, di comprensione profonda, complice, intima, fraterna: La Strategia del ragno (1969), Il conformista (1970), Ultimo tango a Parigi (1972), Novecento (1976), La luna (1979), L’ultimo imperatore (1987), Il te nel deserto (1990), Piccolo Buddha (1993).
Vittorio Storaro sintetizza così il suo rapporto con Bernardo Bertolucci, regista che non esita a definire una guida: “Il mio rapporto con Bernardo ha riguardato oltre il vissuto più prossimo e quotidiano, anche l’inconscio e l’intuizione irrazionale. Mi ha accompagnato, devo dire, in un tratto di vita importante, proprio di scoperta di me stesso. Bernardo per un lungo periodo è stato in analisi, quindi la sua domanda nel fare film era una continua analisi, una sorta permanente di terapia. E proprio da questo, in fondo, si è concretizzato il grande matrimonio tra me e Bernardo: la necessità di esprimersi di Bernardo, spesso attraverso i simboli, e la mia necessità di esprimermi, tramite la luce e l’ombra, che guarda caso in psicanalisi sono i simboli del cosciente e dell’inconscio, hanno fatto materia comune per uno studio ed una ricerca narrativa sull’uso personale della luce”.
Poi improvvisamente, a conclusione delle riprese del film Piccolo Buddha, arriva il grande e doloroso distacco da Bernardo Bertolucci. Racconta Vittorio Storaro: “Ero a Sabaudia quel giorno, quando arrivò la telefonata di Bernardo. Mi avvisava che per una serie di considerazioni, anzi di necessità, non poteva più continuare con me il suo percorso nel cinema. È stato questo un grosso dispiacere per me ed è anche un mistero”. Forse il dualismo avviato dalla stampa, il confronto Bertolucci-Storaro, sempre evidenziato dalla critica più autorevole, quel loro legame messo un po’ troppo a fuoco, è stato un motivo della decisione di Bertolucci, o forse anche le opposte opinioni sul futuro del cinema hanno determinato il rapporto in questo senso. Se da una parte Bernardo Bertolucci parla di morte della cultura, e quindi anche del cinema più incline alle sue corde, dall’altra, nel pensiero di Storaro c’è invece la profonda convinzione che a morire siano soltanto gli antichi supporti tecnici tradizionali, insieme al concetto, generalizzato, per cui i nuovi strumenti che la tecnologia concede restano adatti soltanto al cinema più commerciale.
L’avventura nel cinema Storaro la inizia con il direttore della fotografia Camillo Bazzoni, debuttando sul set de L’uomo, l’orgoglio, la vendetta (1967), in qualità di operatore alla macchina, un film che viene fatto passare dalla pubblicità dell’epoca come uno dei tanti film western che completavano il mercato in quei tardi anni sessanta. Il film invece era una sorta di Carmen rivisitata, in salsa in verità più avventurosa e melodrammatica che western, ed aveva tra gli sceneggiatori Suso Cecchi D’Amico, storica penna del miglior cinema italiano. Questo il periodo che Storaro chiama di “formazione”. Vengono girati infatti uno dietro l’altro i film Giovinezza, giovinezza (1968) di Franco Rossi, Delitto al circolo di tennis (1969) di Franco Rossetti, L’uccello dalle piume di cristallo (1969) di Dario Argento, La strategia del ragno (1970), fino alla grande proposta de Il Conformista (1970), film che significa la coscienza e la consacrazione della professione, finalmente individuata da Storaro anche sul piano della razionalità e della consapevolezza.
Dice Storaro: “Ne Il conformista io stavo scoprendo qualcosa, l’analisi sistematica delle componenti della luce stava chiarendo il percorso: i colori blu, azzurro, violetto, verde, giallo, arancio, si trovano situati tra due limiti estremi, il nero e il bianco, che sono anche i due limiti opposti della vita, il buio e la luce”. Vittorio Storaro illuminerà subito dopo L’eneide, (1970) di Franco Rossi, Addio fratello crudele 1971 Giuseppe Patroni Griffi, Giornata nera per l’ariete (1971) di Luigi Bazzoni, Corpo d’amore (1971) di Fabio Carpi, Orlando Furioso (1971) di Luca Ronconi, Blue Gang (1972) di Luigi Bazzoni, Ultimo tango a Parigi, Malizia (1972) di Salvatore Samperi, Giordano Bruno (1973) di Giuliano Montaldo, Identikit (1973) di Giuseppe Patroni Griffi, Le orme (1974) di Luigi Bazzoni, Novecento.
La carriera di Storaro è ormai in continua ascesa, il grande cinema hollywoodiano è alle porte, nel 1979 infatti Francis Ford Coppola lo sceglierà per illuminargli il film che resta il suo capolavoro, Apocalypse Now, che frutterà a Vittorio Storaro il primo oscar per la cinematografia. In America resterà anche per firmare la cinematografia de, tra gli altri, Il segreto di Agatha Christe (1978) di Michel Apted, Reds, Un sogno lungo un giorno (1982) di Francis Ford Coppola, Ladyhawke (1985) Richard Donner, Ishtar (1987)di Elaine May, Dick Tracy (1990)di Warren Beatty.
Altri film, e parliamo di Kill Bill di Quentin Tarantino e di The passion di Mel Gibson, Storaro li ha dovuti, a malincuore, rifiutare per impegni già assunti in precedenza. Il presente di Storaro è anche l’insegnamento: da anni infatti continua a tenere un’intensa attività didattica, come direttore dell’Università degli audiovisivi dell’Aquila, ma anche come relatore di corsi e seminari in giro per il mondo. I suoi tre libri, “Scrivere con la luce”, “I colori”, “Gli elementi”, che ora si possano trovare raccolti in un cofanetto con dvd allegato, sono intensi documenti e testimonianze di questo percorso artistico, tecnico e culturale della sua professione. Sul sito www.aureaweb.com è possibile conoscere i dettagli, finanche le modalità per l’acquisto dell’ opera editoriale.
Giovanni Berardi