Peccato sia solo un film. Questo è quello che ho pensato uscita dal cinema dopo la visione di “Viva la Libertà”. A parlare è la mia pancia ancora preda dei postumi elettorali. Ma ecco i fatti. Enrico Olivieri è il segretario del partito d’opposizione in un’Italia molto simile a quella di ora. È un poco probabile futuro premier, serioso ed infiacchito, per giunta in caduta libera negli indici di gradimento. Decide così di scomparire e nottetempo parte, senza farne parola alla moglie e neanche ad Andrea Bottini il suo braccio destro. Si rifugia a Parigi da Danielle una sua vecchia amica, ora sposata con figlia. Nel frattempo la situazione nel partito continua a precipitare. La scusa con cui viene tenuta a bada l’opinione pubblica, quella di un malanno di Olivieri, regge poco. Bottini è alla ricerca del suo leader ed è per questo che si imbatte nel fratello Giovanni, scoprendo che ne è il gemello identico. La chiacchierata con quest’uomo, dimesso da poco da una clinica psichiatrica perché innocuo, si rivela più interessante e illuminante di quello che Bottini credeva. E mentre Giovanni rilascia un’intervista ad un giornalista illustre, in cui con non chalance sottolinea il concetto di responsabilità dell’elettore, decide di assumerlo come sostituto del vero politico. Ha inizio allora la fantapolitica. Come un autentico personaggio brechtiano, con una mimica scomposta, con silenzi, con parole sospese e interrogative, Giovanni spiazza il partito, i giornalisti e l’opinione pubblica, ma in bene. In un momento di disaffezione totale egli galvanizza gli animi e fa un mea culpa dell’antica linea indecisa e cauta del suo partito: “Io sono qui per far sì che domani non si dica che i tempi erano oscuri perché loro hanno taciuto”. Che cosa succede al vero Enrico? Dimenticato senza fatica dal mondo, si tuffa in un nuovo passato. Torna in auge la sua antica passione per il cinema, così come l’amore mai sopito per la sua amica, scopre le gioie paterne, il lavoro dell’assistente di scena e il piacere del corpo. Lo fa a suo modo, come un nostalgico della vecchia sinistra sessantottina, canticchiando de Andrè o quasi immergendosi in un vecchio film francese, con tanto di triangolo amoroso. Nessuno sembra sentirne la mancanza, né la moglie piacevolmente sorpresa di notte dal suono del piano o dalla passeggiata al mare, né Bottini che si abbandona alla paura di un abbraccio e alla vergogna di preferire politicamente l’abile oratore Giovanni al tecnocrate Enrico. Il nuovo Enrico incanta tutti, persino la cancelliera tedesca con cui colloquia a porte chiuse, e di cui vediamo i piedi scalzi e il corpo impegnato in un tango elegante. E danza compiaciuto anche per i suoi amici-pazienti. Non sembra essere a disagio nei panni del politico perché “la politica e il cinema non sono così lontani: il genio e il bluff coesistono”, come dirà il marito regista di Danielle. Ed è forse questo il succo polposo del film. Al di là dell’indovinare quali tra i vari personaggi ricordano la nostra sinistra stanca, ciò che resta è l’idea di una politica che non sia esitante, che sappia affascinare senza ricorrere a false illusioni, ma assumendosi la responsabilità degli errori e soprattutto ponendo l’accento su quella degli elettori. Dici per noi va male. Il buio cresce. Le forze scemano. Dopo che si è lavorato tanti anni noi siamo ora in una condizione più difficile di quando si era cominciato […] Che cosa è errato ora, falso, di quel che abbiamo detto? Qualcosa o tutto? Su chi contiamo ancora? […] Questo tu chiedi. Non aspettarti nessuna risposta oltre la tua”. Questo è il discorso finale di Giovanni: ancora Brecht, ancora una volta l’enfasi sulla libertà come responsabilità di scelta e di informazione, di ciascun individuo, l’eletto e l’elettore. Ci sono dei momenti di autentico culto della personalità, quando anche Giovanni cede alla farsa promozionale della campagna elettorale, facendosi ritrarre in tenuta operaia con tanto di elmetto e abbraccioni, o circondato da una classe di bimbi festanti. Ma il film ha volutamente un tono fiabesco, dove il personaggio dello scemo sapiente diverte e fa riflettere, cambia chi gli sta intorno, ha il coraggio di pronunciare parole scomode, gioca a nascondino con il presidente della repubblica. Con tocco delicato il regista-scrittore Roberto Andò fa un omaggio alla poesia delle varie arti, la letteratura, la musica, il teatro, da Fellini a Pirandello, non per fini puramente estetici, ma come forze essenziali di una realtà davvero vivibile. Il film è anche una riflessione sul potere in difficoltà e sulla latitanza dell’opposizione con il volto del sempre più sorprendente Toni Servillo. Ogni elettore ha il leader che si merita. Se i politici sono mediocri è perché i loro elettori sono mediocri, se i politici sono ladri è perché i loro elettori sono ladri, oppure vorrebbero esserlo”. Ben venga una personalità se è gentile e sferzante come quella di Giovanni.
Voto 8,5