Viviana Scarinci - Piccole estensioni - Edizioni Anterem / CiErre Grafica, 2014 (vincitrice XXVIII Premio Lorenzo Montano opera inedita)
Piccole estensioni o estensioni del piccolo? Una domanda che subito si affaccia perchè per due volte, nei suoi testi, Viviana Scarinci
parla di "estensione del piccolissimo", sottolineando così l'importanza
e la natura dell'oggetto poetico che affronta. Il titolo, se così è, è
però una maschera o un rovesciamento, un artificio retorico. Ma in nuce è il piccolissimo ad essere la
componente atomica del pensiero poetante di Viviana, imprescindibile.
Tuttavia il titolo già propone un concetto che offre non poche
suggestioni a chi legge, tutte però utili a capire questo libro.
L'estensione come misura: quella di un'area, di un campo
poetico, dai confini però non facilmente delimitabili perché la poesia
non si rinchiude. Quella di uno spazio, mentale, onirico, psicologico,
semantico nel quale, proprio per l'indefinitezza dei confini, le
variabili del dire possono essere molteplici ma solo una, quella scelta
dal poeta, assume un significato risonante. O come concetto logico
includente: la condivisione dell'esperienza, dell'amore e del disamore,
del dolore o del rammarico, e - di più - la loro estensione metaforica e
quindi, in ultima analisi la loro connotazione. Ovvero - ecco un'altra
suggestione - l'estensione come allargamento del significato:
il piccolissimo, nella scrittura, il particolare che è però marcatore di
vicende anche più complesse che forse nella vita di ciascuno possono
apparire collaterali ma che segnano quanto un gesto o uno sguardo che
diventino per qualche misteriosa ragione indimenticabili. E Scarinci,
con la sua scrittura che è giusto definire consapevole, ha ben
presente questo ventaglio di possibilità, tanto che questi territori e i
loro sconfinamenti diventano secondo e non minore strumento e oggetto
poetico della raccolta.
Ma di quale piccolissimo stiamo parlando? In questo libro, come in altre prove di Viviana (v. ad es. QUI),
è la parte sentimentale di noi, è l'affettività, è la materia
impalpabile e tagliente di cui è fatta la vita, o i sogni come direbbe
il Prospero della Tempesta, quella che comunque ci denota come
uomini e donne. E', in altre parole, quello straordinario intrico di cui
siamo fatti, tra il pensiero (la mente, la psiche) e qualla vasta res extensa
- ecco che ci torniamo - che è il mondo, il tangibile, le cose
compreso il nostro corpo, ma anche il nostro stesso esistere, la
coscienza di noi. E' - non tutto, che l'impresa sarebbe immane, ma
qualcosa - quello che percepiamo come esseri - direbbe Merleau-Ponty - incarnati
nel mondo. E' evidente quindi che tutto questo bacino poetico è
ipoteticamente inesauribile e tutt'altro che "piccolo" (meno che mai
minimale), che il "piccolo" debba essere alla fine tralasciato, che esso
sia un'unica e dominante metafora, qualcosa che precede anche
l'ideazione stessa della scrittura, il seme di una evoluzione creativa,
come un frammento di DNA. E' chiaro che quest'opera è fieramente e
orgogliosamente concettuale, senza che questo tuttavia porti l'autrice a
rinnegare o radicalizzare quella matrice affettiva e sentimentale (ma
questi due termini non devono essere fraintesi) di cui parlavo prima.
Senza, in ultima analisi, che questa visione apparentemente centripeta
denunci il benché minimo ripiegamento ermetico, il benché minimo
crepuscolo.
Non piccolo, allora, e difficile da scandagliare. Scarinci ci prova - e
ci provoca - al meglio di sé, organizza questa materia in 17 brani
squadrati e densi, che rispondono felicemente alle direttive di una
scrittura effusiva, svolta in lunghe catene sintattiche che sono linee
di pensiero e che hanno fame di un respiro altrettanto lungo, "in un
movimento senza obblighi o costrizioni, un’ondulazione nel sintagma",
dice Giorgio Bonacini nella postfazione. Ricordandomi in questo sia
certi amatissimi testi di Variazioni della Rosselli sia i suoi Spazi metrici,
ispirazione e metodo, forma e sostanza, accurata selezione delle parole
ma senza innamoramenti o facili associazioni d'idee, indagine delle
potenti correnti metaforiche che la lingua nasconde, rischio calcolato
negli accostamenti semantici, in altre parole quelle molteplici estensioni di
cui parlavamo prima. Per capire cosa intendo basta leggere con la
dovuta attenzione, l'attenzione capillare o "piccola " che queste poesie
si meritano, un testo come Non è sapere quanto ma piuttosto chi...
(v. sotto) con il largo campo semantico che lo innerva, rimandando ai
numeri, al doppio, al paio, ai punti, in ultima analisi alla coppia, a una dualità esistenziale e affettiva che abbiamo sperimentato; oppure la poesia le cosmogonie riprendevano, una perfetta allegoria del vuoto che parte dal maestoso cosmogonico e attraversa il marginale, il minuzioso, il qualunque, il tempo frammentato (e ambiguamente "minuto") e giunge alla telecamera che,
come sa chiunque viva in un ambiente urbano, in realtà riprende un
nulla identitario di comparse. Una poesia di concreta astrattezza, in
cui il vuoto (o il non visibile, come dice Bonacini) ha una gran parte e
nella quale le poche cose "concrete" (la casa, la pioggia, il cielo, la
mareggiata, una bambola, un passero ecc.) o sono de-mansionate a
fondali di uno scenario o innalzate a simulacri, se non ad amuleti, di
fatti luoghi e incontri che hanno popolato la vita. Una poesia insomma
dalle molte suggestioni e con un alto grado di resistenza. Nel
senso che, a differenza di molta poesia di ricerca alla cui durezza alla
fine bisogna arrendersi per mancanza di indizi, questa - che poesia di
ricerca è - resiste alla banale domanda "che cosa vuol dire?", alla mera
riduzione a parafrasi di un "significato", per offrire al lettore
accorto più significati ulteriori. (g.c.)
Lacerato l’abito questa seconda nudità sa tutto, asseconda un ri-
torno che mette agli atti l’avuto luogo e dato e ciò che di continuo
da prima l’inventa. A una spanna da qui c’è un secolo e molti pa-
esaggi una zona e tutto dentro e intorno un silenzio costretto a
rimarginare, una tradotta da parte a parte che porta questo spen-
dere oltre i fatti, oltre il loro spirito ribaldo che li ridicolizza se non
isolati gli uni dagli altri lasciandoli tra loro come esseri congratu-
lanti leggibili fin dalle date i nomi surreali. I nomi dei santi sono
qui ma le vie sono sempre un passo da presso e immancabilmente
immobili dall’ultima linea tirata. Ti ho mimato capendomi non-te
interdetta a ritornarmi i tuoi motivi, è stata una nevrosi decisiva
per due attori della fame, è stata l’era testamentaria quella dei gior-
ni che è morta la nostra prospettiva nel primo luogo mio di restare
tutta l’estensione del piccolissimo.
Non è sapere quanto ma piuttosto chi e come può essere che am-
bientando questo spaesamento trovarsi sovrimplicati irretiti ai
fianchi dallo stesso labirinto. Qui ci sono solo nomi e lo stupore
di trovarsi confidenti e storditi, e pause in grado di mantenersi da
sole come un lungo periodo che non conclude avanzata ma solo
tornare al punto che il viaggio si incontrava col suolo e si restava
a camminare appaiati nelle annate, come se tutte queste stagioni
fossero una sola esponente il piccolo numero che ci raddoppia.
Ma io resto salda alla luce che orizzonta l’esserci di tutto in una
visione ipotetica imposta dal bianco unendo alcuni punti neanche
numerati come si fa sognando che si rivolta ogni cosa nell’esatta
quantità di variabili che generano una storia nota.
Da sempre fisso questi corpi postumi come guardando un padre
scomparso nel luogo accesso del pallore da dove non s’è mosso
eccetto che per il tempo vacante di cercare un madrinaggio un
ventre spogliato e bianco ancora da nascere che chiede cifre ai gio-
chi che distolgono. A poter guardare questo corpo, non c’è difesa:
c’è l’albo dei nomi sparsi delle memorie e non ci sono testimoni
a fondare il paese anche se capri di una espiazione soltanto, c’è il
mare, a volte, a risalire chi ci cammina lungo, c’è il mio corpo de-
rubricato dal vuoto che lo nuoce e due dita d’acqua che dovevano
avvertire la terra che nasceva vicino, la sua superficie inagibile e le
parole ferme come atti mancati ma intenti a destinarsi o a flettersi
nei volti a retrocedere l’audizione aspettando non so che riverbero
o forse, ma solo dopo, un segno che fermi la terra di qua questa
nebbia fitta di alberi alti che affermano il loro carattere nevralgico
come fossero muro, orecchio, caos orizzontati in linea retta o in un
comparto, un rosario di grani bellissimi e inerti.
Sparita a procedere non restano che gli occhi, scoperto infinito
speco di una cosa e simultaneo finire nella sua cavità: l’ultima non
più vuota era una bambola, la matrioska più piccola chiusa in un
atto senza somiglianza, non più che un’interferenza l’arco dispie-
gato del corpo, una catalessi di spighi ridosso il calore che infittisce
le spine, resta e non si vede nel refolo il vento rigore e rudimen-
to di stagione fredda parvente come una dinamica che non ci si
accorge di amare se non pontificando sembianze venir meno lo
scarto di un passero, intatto e disperso alla conta del suolo come
fosse l’occasione persa del narrabile nell’attimo di un’indecisione
dove i volumi in vista del cielo erano illeggibili e i suoni incanutiti
in una misura piccolissima.
una divorazione di gelsi
forma di pensiero sfinente
compitava questa vestizione
ininterrotta estrusa dalle ghiandole
sul filo di strati concentrici
esemplare di un mangiare dormire
mutare in quattro mosse l’afasia
in cinque età al bosco edule
ascendere dal legno più falso
per la filatura essere piuttosto mobile
iniziare la falena che senza il nero
presti il bianco a altra divorazione
le cosmogonie riprendevano
un’evoluzione marginale
il contesto minuzioso
di una qualunque realtà
si alberava e popolava
parcellizzando minuto per minuto
l’orologio della telecamera
che spiava la carreggiata
come una comparsa