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Vizio di forma di P.T. Anderson: la recensione.

Creato il 09 marzo 2015 da Onesto_e_spietato @OnestoeSpietato

Vizio-di-formaDicesi “vizio” quella cosa o abitudine profondamente radicata in noi che determina un desiderio quasi morboso, irrinunciabile. Ma “vizio” è anche sinonimo di capriccio, voglia a cui non sappiamo resistere. Ecco Vizio di forma di P. T. Anderson è un vizio, quasi uno sfizio, che il regista californiano non a saputo trattenere dopo aver letto il libro di Thomas Pynchon dal quale il film è tratto. Ma non solo è un vizio, bensì un vizio di forma, di tanta o tutta forma e poco contenuto. Ecco quindi che il titolo dell’ultimo film del regista di Magnolia cela in sé i suoi due peccati e pecche. Nel linguaggio navale, come spiegato nel film, il vizio intrinseco (inherent vice) è l’incapacità di evitare certe componenti e danni interni, innati, fisiologici. Vizio di forma collassa sul suo vizio intrinseco, ovvero quella forma impeccabile che era già stata la rovina di The Master. Anche in Vizio di forma Anderson registicamente è iper-preciso, iper-autoriale, disposto a sfidare continuamente il cinema e lo spettatore tramite piani sequenza in cui la mdp di avvicina sempre più ai personaggi e campi-controcampi privi di sbavature, verso una perfezione che allo stesso tempo rende gloria e paradossalmente infrange il linguaggio narrativo classico.

Anche in Vizio di forma, come in The Master, di emozione ce n’è poca. Ci sono sprazzi di divertimento, situazioni comiche che rasentano il paradosso, ma non l’emozione. Il modello a cui guarda, palese sin dai primi minuti, è Il grande Lebowski di Joel Coen. Come nel film del 1998, incappiamo in un turbinio di personaggi che si ammassano l’uno sull’altro, in una girandola di sviluppi narrativi nei quali lo spettatore rischia di perdersi. Vizio di forma rimane (forse volutamente) al livello superficiale del trip da stupefacente, di quella sensazione straniante e priva di riferimenti che è tipico effetto dei fumi dell’alcol. Non c’è spazio per qualcosa di più profondo. Ma rispetto a Il grande Lebowski mancano il lato psichedelico, il graffio dei dialoghi, il grottesco strisciante, la stoffa del cult. Anderson non copia (ci mancherebbe altro!), ma solo si ispira a un film che, come un buco nero, attira inevitabilmente a sé.

Venendo agli attori, non possiamo dire tacere sulla loro bravura. Su tutti Joaquin Phoenix, sulla via dell’attore feticcio andersoniano, sospeso tra il recitare se stesso e il suo personaggio (Doc Sportello). Lo affianca un simpatico Josh Brolin, finto duro e puro “sottomesso” alla moglie, il cui unico tratto distintivo solo le allusioni sessuali a cui continuamente ricorre in ogni gesto e battuta. Brava Katherine Waterston, occhi da cerbiatto, che regala, in desabillè, la sequenza più coinvolgente del film. Marginali le prove degli altri noti (Benicio Del Toro, Owen Wilson, Martin Short) che, un po’ come Phoenix, mettono più in scena se stessi che i loro personaggi.

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