Qualche tempo fa, nel numero 4 della webzine Sul Romanzo, avevo parlato di Andre Dubus e del suo Non abitiamo più qui. A tal proposito usavo, nel titolo della mia riflessione, la locuzione “autopsie del cuore”. Espressione quanto mai opportuna anche per questo Voci dalla luna, uscito ancora per Mattioli 1885 e tradotto da Nicola Manuppelli.
Dubus, che è stato narratore instancabilmente intento a scavare nei meandri dei rapporti umani e segnatamente di quelli amorosi, in questo testo, troppo breve per gli odierni canoni di “romanzo” e troppo lungo per essere considerato un racconto, segue, nell'arco di nove capitoli, sei personaggi, tre uomini e tre donne, in momenti diversi nel corso di una giornata. Richie, ragazzino consumato tra il desiderio di diventare prete e l'infatuazione per una coetanea, scopre che il padre Greg ha una relazione con Brenda. Questa è l'ex moglie di Larry, fratello maggiore di Richie. Un tale spunto narrativo, in mani (e penna) sbagliate avrebbe fornito le coordinate per una scialba storia d'amore e beghe familiari; nel nostro caso, invece, diventa un'analisi minuziosa, pur nella sua brevità, della possibilità (e della necessità, spesso) di “ri-configurare” i propri sentimenti, per «capire e portare avanti le vite che abbiamo». L'universo maschile sembra essere preminente: le incertezze, la debole fede di Richie, minata dall'insicurezza data dalla giovane età; il granitico way of thinking di Greg, incrinato e in qualche modo scardinato dalla prorompente giovinezza di Brenda, dalla vita di un corpo più giovane; lo smarrimento tumultuoso, poi calmo nel terrore, di Larry. Tutti questi elementi confluiscono coralmente in una rappresentazione che, partendo dal dato spicciolo, quasi “aneddotico”, sfocia in quella che è la cifra distintiva di Dubus, vale a dire lo studio di un complesso di pensieri, parole, atteggiamenti, paure, omissioni, più genericamente indicabili con l'abusato termine “interiorità”.
I personaggi femminili, se non scivolano in secondo piano, almeno non hanno la stessa valenza, né in termini meramente diegetici, né a livello di approfondimento intimistico; Carol, unica figlia femmina di Greg, e la di lei madre Joan, ex moglie di Greg, sono testa e croce della medesima medaglia: la prima, indipendente, seduttrice ma instabile, la seconda rinchiusa in una sua “fortezza della solitudine”, un edificio costruito ad arte e fatto per non poter essere neanche scalfito.
Lo stile di Dubus, asciutto senza essere scarno o, per usare un termine molto (troppo) in voga di questi tempi, minimale, si insinua nell'imbarazzo, negli attimi di silenzio, nei movimenti sommessi dei corpi; così godiamo di una scrittura che scorre rapida, oscillando continuamente tra presente e passato, e in qualche modo permettendone la compenetrazione.
Nel racconto di un solo giorno, dalla mattina alla sera, dall'adolescenza di Richie alla solitudine di Joan, Dubus ci schianta davanti agli occhi una storia di contatti umani, cercati, forzati, evitati. O anche solo desiderati.