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Voleva una vita spericolata (4). Leonard Cheshire e la sua strada.

Da Paolotritto @paolo_tritto

(Continua dalla Terza parte)

«I superstiti non sono più di tre» osservava malinconicamente Cheshire, indicando la fotografia del nutrito gruppo dei piloti che, all’inizio della guerra, si erano addestrati insieme a lui. È incredibile che a sopravvivere sia stato proprio lui, il più spericolato di tutti, l’uomo del quale i medici avevano detto: «è privo del senso della paura». Da dove gli veniva questo suo coraggio? «Non mi davo pensiero di essere ucciso» spiegò, «semplicemente vivevo». Il suo coraggio era sostenuto dalla consapevolezza del compito: portare a termine la propria missione, pure a rischio della vita. «Vede» disse una volta, «la posta in gioco era enorme. Non era soltanto una questione di sopravvivenza». Più della vita contava la libertà; bisognava battere Hitler, «sentivamo che niente contava quanto il fermarlo».

Era sostenuto da un ideale. Leonard Cheshire voleva colpire il bersaglio con precisione chirurgica e ridurre al minimo il sacrificio di vite umane. Agli inizi del 1944 gli furono affidate molte missioni sul territorio francese, con diversi obiettivi. Doveva far saltare, tra gli altri, uno stretto viadotto sulla Costa Azzurra per tagliare i collegamenti ferroviari con l’Italia. Doveva bombardare Clermont-Ferrant, dove si trova la casa madre dell’industria di pneumatici Michelin, e Limoges, patria della porcellana e sede di una fabbrica di motori per aerei. Quando arrivò a Limoges, Cheshire sapeva che a quell’ora di notte nella fabbrica di motori erano di turno cinquecento ragazze. Fece prima, quindi, dei giri a volo radente, in modo che tutte le giovani lavoratrici, messe in allarme, avessero il tempo di trovarsi un riparo. Poi fece partire l’attacco, cercando il massimo della precisione per risparmiare la popolazione e, chissà, forse anche per le porcellane – un modo di bombardare senza rompere un solo piatto. Altrettanto cavalleresca fu la sua impresa sulla Michelin dove riuscì a colpire due capannoni della fabbrica, avendo cura nello stesso tempo di non danneggiare la mensa degli operai che si trovava nel mezzo. Tutto questo di notte, al buio pesto, mentre già è difficile distinguere il cielo dalla terra.

L’impresa però più memorabile fu indubbiamente l’attacco su Monaco di Baviera, nella notte tra il 24 e il 25 aprile, «la più difficile della mia carriera» diceva Cheshire. Sapeva che quella notte, già soltanto partire voleva dire sfidare il destino. Infatti, non si era riusciti a equipaggiare idoneamente gli aerei, con dei serbatoi supplementari in modo da garantire l’autonomia necessaria a completare la rotta in sicurezza. Sapeva che con quel pieno di carburante aveva i minuti contati e bastava un inconveniente qualsiasi per non fare in tempo a tornare alla base. Giunto sulla città, insieme al navigatore Pat Kelly, l’aereo fu individuato dai riflettori della contraerea. Comunque, era ormai sul bersaglio e doveva starci. Sotto il fuoco di una tenace contraerea – Monaco era la città meglio difesa dell’intera Germania, dopo Berlino – lanciò dei bengala per illuminare la zona. «Come si illuminarono» raccontò Leonard Cheshire ad Alenka Lawrence, «guardai giù e in una frazione di secondo riconobbi il bersaglio, dritto sotto di noi. Avevo studiato la mappa della città e le fotografie di quell’area scattate dai ricognitori; e mi bastò un’occhiata. Ero giovane, con una memoria pronta e buoni riflessi».

«Sentivo che bisognava tuffarsi» prosegue il racconto di Leonard, «dunque cabrai sull’estremità dell’ala e mi buttai a perpendicolo senza guardare il tachimetro. Potevo vedere il bersaglio – il quartier generale della Gestapo – e lo tenni nel mirino. Quando mi parve d’esser sceso alla quota più bassa che il coraggio mi consentiva, tirai un poco la cloche, per alzare appena il muso dell’aereo, sganciando nello stesso istante i markers. Ok, non urtarono la paratia. Risalii. Naturalmente, c’eran spruzzi di luce sopra e sotto di me. Da ogni parte esplodevano i proiettili della contraerea, scosse tremende, per cui in verità non capivo più né quel che facevo né se fossi dritto o capovolto. Sapevo, tuttavia, che bastava allentare i comandi perché l’aereo ritrovasse da sé il suo equilibrio. Dopo di che guardai a terra. Sì, avevo centrato il bersaglio e potevo ordinare l’attacco. A quell’epoca l’intera tecnica m’era divenuta così familiare che ormai, in un niente, sapevo valutare la posizione, scegliere la forma d’approccio più adeguata e agire. Mi ci ero consacrato per anni a tempo pieno. E in ciò vi è una lezione valida ancor oggi: se vuoi riuscire in quel che fai, vivi il tuo lavoro».

Nel mese di maggio, presso la base della 617a squadriglia il clima cambiò decisamente. Più severi controlli di identità all’accesso da parte della polizia militare, segretezza assoluta riguardo alle missioni e più impegnative esercitazioni erano cose che, insieme alla presenza sul posto dei massimi vertici militari, creavano l’idea che qualcosa di eccezionale era nell’aria. Inoltre, anche la natura delle operazioni assegnate era fuori dall’ordinario. Si trattava, in sostanza, di lanciare dagli aerei delle striscioline di stagnola a intervalli regolari sulla costa francese tra Le Havre e Boulogne-sur-mer. L’equipaggio di Leonard Cheshire doveva anche prepararsi a bombardare, sulla stessa costa, i rifugi dei motosiluranti tedeschi. Poiché questi rifugi erano stati costruiti a prova di bomba, i bombardieri dovevano sganciare un ordigno di nuova costruzione, la Tallboy, la “bomba terremoto”. Era una delle più pesanti bombe mai costruite, che riusciva a penetrare nel terreno fino a quaranta metri di profondità, generando disastrose scosse sismiche sull’area colpita. Nello stesso tempo, la Tallboy era così sofisticata che al momento del lancio bisognava aver calcolato bene anche l’influenza che avrebbe potuto avere sulla traiettoria perfino il movimento della rotazione terrestre.

Ben presto, però, la ragione di tutte queste misteriose operazioni fu chiara. Il 6 giugno le truppe alleate sbarcavano in Normandia. Fu evidente allora che con il lancio di quelle striscioline di stagnola si voleva far credere al nemico che lo sbarco sarebbe avvenuto più a est; era un espediente che aveva lo scopo di confondere i radar: la presenza di stagnola generava sui monitor un segnale simile allo spostamento di navi verso la costa francese. L’uso delle “bombe terremoto” aveva, invece, l’obiettivo di distruggere gli invulnerabili rifugi delle motosiluranti tedesche che avrebbero potuto insidiare i convogli impegnati nelle operazioni. Con lo sbarco in Normandia sembrò che finalmente la corsa della guerra contro Hitler avesse cominciato la sua discesa. Anche per Leonard Cheshire sembrava si avvicinasse la fine del suo servizio operativo. Il Comando Bombardieri gli assegnò infatti quella che doveva essere la sua ultima missione.

Un nuovo potente ordigno minacciava l’Inghilterra: il supercannone V3. L’arma tedesca, un cannone con un’enorme canna di 120 metri, puntata su Londra, era stata installata in un tunnel sotterraneo a Mimoyecques, presso Calais, sul canale della Manica. Protetta da una cupola di cemento spessa cinque metri, la V3 avrebbe potuto scaricare sulla capitale inglese circa 200 granate da 60 kg ogni ora. Fortunatamente, dalla resistenza francese giunsero in tempo preziose informazioni sulla localizzazione di questo nuovo pericolo. Così, nel primo pomeriggio del 7 luglio, approfittando di una breve schiarita sull’area di Calais, Leonard Cheshire e la sua squadriglia piombarono su Mimoyecques. Fu un’azione fulminea e precisa; poco dopo le ore 16 gli equipaggi erano già tornati alla base. Ancora oggi sono visibili sul terreno i segni del micidiale bombardamento e delle Tallboy, le “bombe terremoto”, che colpirono la base delle V3, quando il supercannone era già pronto per entrare in funzione e distruggere Londra. Invece non tirerà un solo colpo.

Dopo questa impresa veniva comunicato a Cheshire che cessava il suo servizio attivo nella RAF e che avrebbe dovuto cedere ad altri il comando nella 617a squadriglia. Apparentemente, egli mostrava di accettare di buon grado questa decisione. A chi lo conosceva bene sembrò, invece, che alla notizia gli si spezzasse il cuore. Anni più tardi, Leonard disse che avrebbe voluto fare ancora di più; si sarebbe potuto secondo lui, per esempio, bombardare le linee ferroviarie impiegate dai tedeschi per deportare gli ebrei nei campi di sterminio. Non fu così. Quella di Mimoyecques rimarrà la sua ultima uscita con la RAF.

Ciò non significa che il capitano Cheshire pensasse davvero di starsene buono buono nelle retrovie. Riteneva anzi che la sua furbizia giovanile avesse ancora qualche carta da giocare per ritornare sugli aerei da combattimento. Ai quali, evidentemente, non riusciva a rinunciare. Considerando il fatto di essere stato destinato a Calcutta, in India – il posto doveva sembrargli quanto di più distante potesse esserci – confidava che, lontano dal comando militare di Londra, avrebbe potuto eludere facilmente il divieto di mettersi al comando di un bombardiere, eccitato all’idea di poter sfidare un nuovo e forse ancora più temibile nemico: il Giappone. Il suo ingenuo entusiasmo, però, non tarderà molto a scontrarsi con la rigida organizzazione militare. Per completezza, bisogna anche aggiungere un particolare che riguarda la sua vita privata. La moglie Constance, che evidentemente non era in grado di reggere questo tasso di adrenalina, gli comunicò che avrebbe fatto le valigie e se ne sarebbe tornata a New York. Non è difficile capire che, in quel momento, il loro matrimonio era entrato in una fase critica.

Sebbene le autorità militari fossero ferme nel proposito di impedire a Cheshire di tornare alle spericolate imprese con i bombardieri della RAF, non si può certamente dire che mancassero di manifestargli grande riconoscenza. La sua dedizione alla causa, infatti, sarà premiata nel migliore dei modi. L’8 settembre 1944, a Buckingham Palace dalle mani del re Giorgio VI, a Leonard Cheshire venne assegnata la Victoria Cross, la più alta onorificenza militare inglese. È un riconoscimento solitamente attribuito alla memoria e per singoli atti di eroismo; invece, nel caso di Cheshire, oltre a decorare un sopravvissuto si volle premiare l’intero corso del servizio. «In quattro anni di combattimenti asperrimi» si legge nella motivazione, «egli ha mantenuto un record di vittorie personali, sempre ponendosi in prima linea. Ciò che fece nell’operazione di Monaco fu tipico della progettazione accurata, della brillante esecuzione e dello sprezzo del pericolo che hanno meritato al comandante Leonard Cheshire una reputazione ineguagliata tra le forze aeree da bombardamento».

Nella stessa motivazione è anche riportata una sintesi del numero impressionante di imprese compiute da questo pilota bombardiere, da quel giugno del 1940, quando ebbe inizio la sua carriera operativa al servizio della RAF. Contro gli obiettivi fortemente difesi – si legge – mostrò presto il coraggio e la determinazione di un leader eccezionale, accettando anche rischi aggiuntivi per garantire il successo. Nel mese di novembre 1940, colpito dalla contraerea nel corso di un attacco a Colonia, dopo aver spento l’incendio divampato in cabina, ha continuato a bombardare il suo bersaglio portando a termine la sua missione nonostante la fusoliera fosse completamente squarciata. Finito il periodo che gli era stato assegnato per il servizio operativo nel gennaio 1941, si offrì come volontario per essere impiegato in un secondo turno, dirigendo i suoi attacchi verso i più impegnativi obiettivi, come Berlino, Brema, Colonia, Duisburg, Essen e Kiel. Dopo il secondo turno, volle che gliene fosse assegnato un terzo, a partire dall’agosto 1942, assumendo nello stesso tempo il comando di una squadriglia. Da ottobre del ’43 a luglio del ‘44, iniziò un quarto tour operativo, chiedendo di essere degradato da capitano in modo da poter prendere parte operativamente alle spedizioni, una circostanza che gli diede la possibilità di perfezionare un nuovo metodo di marcatura a bassa quota del bersaglio. Cheshire ha sempre guidato la sua squadriglia personalmente, giungendo in ogni occasione a marcare il bersaglio contro le più agguerrite difese, come a Monaco di Baviera nel mese di aprile 1944, quando operò continuamente sotto il fuoco nemico. Nonostante fossero puntate contro di lui le luci accecanti dei riflettori della contraerea,  riuscì a individuare il bersaglio e lasciò cadere i suoi marcatori con grande precisione. Continuò a sorvolare la zona fino a quando non fu sicuro di aver fatto tutto il possibile per il successo della missione, sebbene l’aereo venisse continuamente colpito da raffiche di proiettili mentre sorvolava la città e per altri dodici minuti dopo che ebbe abbandonato il campo.

(Quarta parte. Continua)

Per saperne di più

Leonard Cheshire è autore di numerosi libri. Oltre questi, sono da segnalare:

Richard Morris, Cheshire: The Biography of Leonard Cheshire, VC, OM. Penguin Books Ltd, 2001. (In lingua inglese)

Alenka Lawrence, Leonard Cheshire. C’è Dio in tutto questo? Edizioni San Paolo, 1994. (In lingua italiana)


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