Nathaniel Hawthorne, tra gli scrittori americani più rappresentativi dell'Ottocento, è noto soprattutto per il romanzo La lettera scarlatta (svariate le trasposizioni cinematografiche, la più recente delle quali, datata 1995, vede come protagonisti Demi Moore e Gary Oldman). Numerosi sono anche i suoi racconti, molti dei quali non privi di fascino e suggestioni. Wakefield, pubblicato per la prima volta nel 1837 in Twice-told Tales (una raccolta italiana, curata da Eugenio Montale, è stata edita da Bompiani e porta il titolo Wakefield e altri racconti), ne è l'esempio lampante e si può ritenere il suo racconto breve più significativo, un vero gioiello racchiuso in quindici pagine, una pietra preziosa: in esso, infatti, possiamo rintracciare le infinite sfaccettature nelle quali si è riflesso il racconto americano, da Cheever a Bellow, da Updike a Carver. C'è, poi, il nucleo enigmatico di Poe, intriso nella narrazione, nonché il forte legame con l'amico Melville (nelle prime righe presenta il personaggio dicendo «...chiamiamolo Wakefield», anticipando l'inizio di Moby Dick, in cui qualche anno più tardi si leggerà «Chiamatemi Ismaele»).
Tony Tanner, nel suo saggio purtroppo mai pubblicato in Italia City of Words, parla, tra gli altri, di Wakefield come atto fondativo della letteratura americana. La storia è, in realtà, molto semplice, tremendamente semplice, perché non succede niente di rilevante ma, nel frattempo, in poche pagine, succede una vita. Il protagonista lascia la propria casa, abbandonando la moglie, lo sappiamo dall'inizio. Saranno vent'anni di autoesilio.
In Wakefield, sembra di rivedere quelli che diventeranno i silenzi estenuanti davanti alla tv di Carver, lo straniamento dalla comunità di Cheveer, la malinconia vespertina di Updike e il mistero quasi ironico che si percepisce nei racconti più riusciti di Bellow. Ci son già compressi, in qualche migliaio di parole, tutti i temi che ossessioneranno la letteratura americana, il peccato mortale: non essere un individuo, un artefice del suo destino nel Paese più individualista del mondo, il Paese che ha fatto dell’individualismo, nonostante lo spirito patriottico che sventola sopra ogni casa, il proprio valore fondante. È, inoltre, forte l'impronta del puritanesimo, a esprimere, attraverso un narratore ambiguo (Hawthorne racconta tutto alla prima persona plurale), il parere di una comunità giudicante, bigotta, estremamente razionale e repressa («...tale delitto coniugale è il più strano, se non il più grave esempio, da noi conosciuto...» e ancora «Ognuno di noi sa che non riuscirebbe a commettere una simile pazzia, ma sente che un altro potrebbe benissimo riuscirci»).
Al signor Wakefield occupare lo spazio del mondo con la sua vita non pare riuscire, perché è una particella viva disidratata, risucchiata e trasformata in ingranaggio troppo piccolo e insignificante di un sistema che, invece, è onnipervasivo, di un intreccio che complotta contro le sue forze interiori impegnate a spingere per guadagnarsi lo statuto di individuo, e non persona bidimensionale, maschera, come per esempio il Jack Gladney di White Noise. Ecco la paranoia americana: forze potentissime e sconosciute che imbrigliano il sé, paralizzando, gettando in un mondo d’inerzia in cui ogni azione, anche la più incisiva, sembra essere smorzata, attutita, dissolta in un pulviscolo extraterrestre che, come spore, contamina l’aria, giorno dopo giorno. Questo aspetto trasognato, da incubo in sordina, verrà sviluppato in maniera magistrale da Paul Auster, grande estimatore di Hawthorne: lo scontro tra un destino personale contro un altro, metafisico, potentissimo e invincibile, il fato, la “necessità” («Potrei così dimostrare come un influsso che è al di là del nostro controllo mette la mano in ogni nostra azione e tesse le sue conseguenze nella ferrea trama della necessità»), la dea della necessità creata dalla nazione in cui vive il nostro Hawthorne. L’esigenza di disporre di uno spazio istruito dal rigore puritano che esclude, deplora, annienta la possibilità di farsi individuo, cioè a dire: uscire dalla comunità e mettersi a cercare. L'avventura.
La letteratura americana, una pesante e ricca fetta, è tutta qui, in questo racconto. I due piani sui quali si gioca lo sforzo creativo dei romanzieri americani, fino a un certo periodo del secolo scorso (gli anni Settanta), sono questi: il desiderio di avventura (da Huckleberry Finn fino a Le avventure di Augie March) dell’eroe dei romanzi e il sistema che sbarra questa possibilità; il sistema che dà forma alla famiglia, ai rapporti, alle architetture, alle relazioni, a tutto. Le risposte più disperate e vitali sono quelle, sempre nella letteratura, date da romanzieri come McCarthy, che ha riportato in vita il mito della frontiera, dell’oltre, dove spesso si staglia il mondo dell’incomprensibile, perché avventura vuol dire questo: il significato sta nel movimento (da Odisseo a Sal Paradise) e quando si torna a casa comincia il senso catatonico di smarrimento, le riposte si trovano per attimi, istanti, mentre si corre, si è in corsa, in cerca di dio solo sa, e il dio americano, meglio di tutti gli altri, sa solo cosa.
Magazine Cultura
“Wakefield” di Nathaniel Hatwhorne: storia della letteratura americana in quindici pagine
Creato il 12 novembre 2012 da SulromanzoPossono interessarti anche questi articoli :
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