Eccoci per un nuovo Sognoinviaggio, alla scoperta della faccia nascosta di una città che si è sempre contraddistinta per la sua esuberante vivacità.
Partenza di buon’ora (con buona pace dei partecipanti per la levataccia di domenica mattina).
Siamo un’ottima rappresentanza dell’Agro-sarnese-nocerino: Daniela da S. Valentino Torio, Ale e Roberta ed il sottoscritto da Pagani ed, infine, Davide da Nocera Superiore.
Arriviamo all’appuntamento prestabilito (ore 10 al Museo Archeologico Nazionale) con l’associazione Neapolis Itinera Visite Guidate, con ottima guida al seguito. Ci aspetterà un itinerario, che ci svelerà bellezze inaspettate, con un tocco di mistero, lungo il bistrattato, dai molti, quartiere della Sanità. La guida inizia il suo percorso, attenzionandoci su una porta di Napoli, porta S. Gennaro, la più antica porta di Napoli/Caponapoli, l’unico punto di accesso per chi proveniva dalla parte settentrionale della città. Il nome di Porta San Gennaro deriva dal fatto che di qui partiva anche l’unica strada che portava alle catacombe dell’omonimo santo. Fu aggiunta, come ex-voto per l’epidemia di peste del 1656, un’edicola affrescata da Mattia Preti, raffigurante San Gennaro, S. Rosalia e S. Francesco Saverio. Nel 1659 fu aggiunto il busto di San Gaetano, altro santo molto caro ai napoletani, su richiesta dei padri teatini. Ci incamminiamo finalmente verso il cuore di Napoli e del suo quartiere più antico, la Sanità, il cui nome sarebbe da ricondurre ai molti miracoli che si ottenevano sulle tombe dei santi sepolti ma anche per la salubrità del luogo. Il quartiere è stato un antico luogo di sepoltura dei nobili napoletani, ma anche luogo privilegiato per i re spagnoli e borbonici e conobbe un lento declino con G. Murat, cognato di Napoleone Bonaparte, che pensò di segregare l’intero quartiere, preferendo come residenza il più lontano sito di Capodimonte, attirandosi le ire degli abitanti del quartiere stesso, acredine ancora oggi mai sopita per gli abitanti ‘ “re’ vasc”, i bassi, della Sanità. L’emozione si perde, contrastato da scene di caoticità incontenibili dagli abitanti del posto, alla vista del primo palazzo nobiliare ed illustre: “dello Spagnuolo”, ubicato in via Vergini, nel cuore del quartiere. Caratteristica inconfondibile di questo palazzo è la monumentale scala a doppia rampa, definita ad “ali di falco”, che fu pensata come una sorta di luogo di incontro, in cui avveniva una vera e propria vita sociale, affidato a Ferdinando Sanfelice, uomo chiave del barocco napoletano, detto “Lievat’a’sott” (letteralmente, “lavati da sotto”, perché le sue architetture sembravano ai più tanto ardite da stare per crollare). Il successivo palazzo, dopo aver saputo dalla guida la vicinanza del precedente palazzo all’abitazione natìa del principe Antonio De’ Curtis, in arte Totò, si erge non meno maestoso del precedente: Palazzo Sanfelice, intervallato dalla sua magnificenza da scene di vita quotidiana, come i panni stesi ad asciugare. La raffigurazione della volta, posta all’ingresso del palazzo, ci ricorda, con la raffigurazione dello stemma e di uccelli senza ali, la caducità della vita terrena e l’importanza della vita spirituale. Arriviamo, dopo un po’ di cammino, finalmente alla prima vera tappa del nostro percorso: la Chiesa di Santa Maria della Sanità, con annesse Catacombe di San Gaudioso. Nonostante la magnificenza barocca della chiesa, ci si ricorda di essa anche per altri motivi: i trascorsi da chirichetto di Totò, che, per la maestosità dell’altare maggiore, si disse che trasse ispirazione per la sua vera vocazione, quella artistica, e perchè in questa chiesa è conservato il dipinto della Vergine più antico di Napoli.
La guida ci spiega anche la presenza a Napoli di un’antesignano del Savonarola: San Vincenzo Ferrer, detto “o’ Monacone”, che andava pellegrinando in tutta Italia a convertire gli infedeli alla religione cristiana, rappresentata in chiesa da un’inquietante statua.
Ci aggingiamo ad entrare all’ingresso delle catacombe quando rimaniamo colpiti da un disegno grossolano, a prima vista, di una Vergine, scoprendo solo successivamente di essere un’opera d’arte contemporanea. Le catacombe di S. Gaudioso (o S. Gennaro) offrono al visitatore un’atmosfera da brividi, teschi ed ossa incavate nel muro. Uno sguardo più attento, in soccorso a noi grazie ad un’altra ottima guida, ci svela i continui rimandi, intrisi di simbolismo religioso, come il soffitto delle stesse cave di tufo, i cui disegni sono racchiusi in quadrati e cerchi concentrici, simboli rispettivamente di fugacità terrena (il Cristo) e di eternità (Dio e la Trinità). La guida ci illustra anche le modalità di sepoltura dei ricchi nobili del tempo, con la tecnica dei “sedili-scolatoi”, dove i liquidi del corpo venivano estirpati ed il corpo si conservava in modalità “carta-pecorino”, da qui il detto “Puozz’ sculà!”. Inoltre il partenopeo “schiattamuort”, proveniva dal fatto che coloro erano gli addetti alla schiacciatura delle ossa, compito delicato e assai rischioso, viste le condizioni igieniche del tempo.
Dopo questa mirabile visita giungiamo alla tappa finale del nostro percorso: Il cimitero delle Fontanelle.
Si trova nel cuore del Rione Sanità, appena fuori dalla città greco-romana, nella zona scelta per la necropoli pagana e più tardi per i cimiteri cristiani. Il sito conserva da almeno quattro secoli i resti di chi non poteva permettersi una degna sepoltura e, soprattutto, delle vittime delle grandi epidemie che hanno più volte colpito la città. L’antico ossario si sviluppa per circa 3.000 m2, e la cavità è stimata attorno ai 30.000 m3.
Lo spazio delle cave di tufo, costruite a riparo del cimitero, fu usato a partire dal 1656, anno della peste, flagello che provocò almeno trecentomila morti, circa la metà degli abitanti di quel tempo fino alla successiva peste del 1836. Non solo, a tali resti si aggiunsero nel tempo anche le ossa provenienti dalle cosiddette “terresante” (le sepolture delle chiese bonificate dopo l’arrivo dei francesi di Gioacchino Murat) e da altri scavi.
Il nome delle Fontanelle deriva dalla presenza di abbondanti sorgenti e fonti d’acqua in questa parte delle città, in una stagione in cui era rara l’acqua a Napoli. A prima vista ci colpisce la grandezza del posto (oggi si possono contare 40.000 resti, ma si dice che sotto l’attuale piano di calpestìo vi siano compresse ossa per almeno quattro metri di profondità), ma soprattutto l’atmofera “gotica” del posto, che contribuire a creare un effetto misterioso e magico allo stesso tempo, intervallato dai pochi raggi di sole sovrastanti che riscaldano l’ambiente umido, creando un naturale gioco chiaroscurale, degno del miglior ambiente scenico da “noir”. Le tante “capuzzelle” affollano la nostra vista e ci incuriosiscono.
Il “rito delle capuzzelle” è un rito antichissimo, ancora oggi in uso perlopiù dalle donne napoletane, che usavano adottare un teschio particolare che l’anima le aveva indicato nel sogno. Da questo punto in poi il cranio diventava parte della famiglia del devoto.
In realtà questi teschi appartenevano alle cosidette anime “pezzentelle”, anime sventurate, senza nome, anime abbandonate.
Al camposanto delle Fontanelle, il comportamento rituale si esprimeva in un preciso cerimoniale: il cranio veniva pulito e lucidato, e, poggiato su dei fazzoletti ricamati, lo si adornava con lumini e dei fiori. Il fazzoletto era il primo passo nell’adozione di una particolare anima da parte di un devoto e rappresentava il principio affinché la collettività adottasse il teschio. Al fazzoletto si aggiungeva il rosario, messo al collo del teschio per formare un cerchio; in seguito il fazzoletto veniva sostituito da un cuscino, spesso ornato di ricami e merletti. A ciò seguiva l’apparizione in sogno dell’anima prescelta, la quale richiedeva preghiere e suffragi. I fedeli sceglievano chi pregare e a chi offrire i lumini nelle loro visite costanti e regolari. Solo allora il morto appariva in sogno e si faceva riconoscere. In sogno comunque la richiesta delle anime è sempre la stessa: tutte hanno bisogno di “refrisc ‘e ll’anime d’o priatorio”. Si pregava l’anima per alleviare le sue sofferenze in purgatorio, creando un vero e proprio rapporto di reciprocità, in cambio di una grazia o dei numeri da giocare al lotto. Se le grazie venivano concesse, il teschio veniva onorato con un tipo di sepoltura più degno: una scatola, una cassetta, una specie di tabernacolo, secondo le possibilità dell’adottante. Ma se il sabato i numeri non uscivano o se le richieste non erano esaudite, il teschio veniva abbandonato a se stesso e sostituito con un altro: la scelta possibile era vasta. Se il teschio era particolarmente generoso si ricorreva addirittura a metterlo in sicurezza, chiudendo la cassetta con un lucchetto.
Molti gli aneddoti raccontati: gli unici scheletri ben visibili dentro il “cimitero”, entrambi vestiti, ossia le spoglie di una coppia di nobili: Filippo Carafa, morto ad ottantaquattro anni nel 1793 e sua moglie, donna Margherita, morta a cinquantaquattro anni. Quest’ultima, il cui cranio si è preservato mummificato, presenta la bocca aperta e da qui proviene la diceria che sarebbe morta soffocata da uno gnocco; la leggenda di Concettina, l’unica “capuzzella” che suda sempre visibilmente, dovuta alla condensa dell’umidità; la leggenda del Capitano: una giovane promessa sposa era molto devota al teschio del capitano, e che si recava spesso a pregarlo ed a chiedergli grazie. Una volta il fidanzato di lei, scettico e forse un po’ geloso delle attenzioni che la sua futura moglie dedicava a quel teschio, volle accompagnarla e portandosi dietro un bastone di bambù, lo usò per conficcarlo nell’occhio del teschio (da qui l’aition dell’orbita nera), mentre, deridendolo, lo invitava a partecipare al loro prossimo matrimonio. Il giorno delle nozze apparve tra gli ospiti un uomo vestito da carabiniere. Incuriosito di tale presenza lo sposo chiese chi fosse, e questi gli rispose che proprio lui lo aveva invitato, accecandogli un occhio; detto ciò si spogliò mostrandosi per quel che era, ossia uno scheletro! I due sposi e chissà quanti altri invitati morirono sul colpo. La storia dimostra di non contraddire mai le anime dell’aldilà.
Finito il percorso guidato non ci resta che rifocillarci con una buona pizza e altre delizie napoletane. Ci immergiamo nei vicoli presepiali di S. Gregorio Armeno, la cui bellezza dei piccoli “pasturiell e maschere” sembrano prendere vita dalle sapienti mani dei “maestri artigiani”.
Lungo via Toledo, definita da Stendhal “la strada più popolosa e allegra del mondo”, ci imbattiamo in una mostra d’arte presso Palazzo Zevallos Stigliano di Napoli, organizzato da Intesa Sanpaolo nel progetto “Gallerie d’Italia”, mirante ad aprire alla collettività il vasto patrimonio storico, artistico e architettonico appartenente alla Banca. Una mirabile opera di Caravaggio, “Il martirio di S. Orsola”, con delle schede illustrative dell’opera del pittore e della sua vita artistica, ci lascia senza fiato, quasi siamo presi dalla “sindrome di Stendhal”. In un’altra sala è esposta una rara incisione di Alessandro Baratta, la più preziosa testimonianza cartografica della Napoli secentesca, che fa da intro all’altra sala, dove sono esposti una serie di vedute sette-ottocentesche della città di Napoli e del territorio campano, di cui interessante è la tela di Gaspar van Mittel “Largo di Palazzo a Napoli”, ossia l’attuale Piazza Plebiscito nella sua antica veste ed, infine, piccoli olii di Pitloo. Infine la mostra si chiudeva con un piccolo video del regista Mario Martone, che rendeva in parole e immagini le opere più significative di Michelangelo Merisi.
Dopo una piccola sosta con babà e caffè nella Galleria Umberto, stanchi sì, ma “riposati” da cotante bellezze artistiche, facciamo ritorno a casa, incastonando nella nostra mente questa giornata meravigliosa.
Pask
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