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Waterloo a Brighton

Da Danielevecchiotti @danivecchiotti

Waterloo a BrightonE’ forse superfluo precisarlo, ma uno che ha scritto un romanzo intitolato “Il cosmo secondo Agnetha” quando passeggia su King’s Road, il lungomare di Brighton, non può fare a meno di pensare che, a dispetto della presenza del Royal Pavillon, della prestigiosa Università che qui ha la sua sede, dell’atmosfera friendly capace di trasformare questo paesino di pescatori in uno dei centri a più alta densità gay di tutto il mondo, del Pier attorno al quale ruota una vita notturna che Rimini, Riccione e Las Vegas messe insieme se la scordano, nonostante tutte le attrazioni del luogo, il vero punto di interesse di questa cittadina dell’East Sussex è senza dubbio il Brighton Dome in cui, nella primavera del 1974, gli Abba cantarono “Waterloo”, vincendo l’Eurovision Song Contest e dando il via alla loro strabiliante carriera internazionale. “Waterloo, I was defeated , you won the war”. Ed effettivamente a girare per i lanes di Brighton nelle ore tra il tramonto e l’alba sembra che quella hit che vide trionfare i quattro cantori di Svezia destinati a diventare multimilionari, come una specie di profezia, abbia invece lasciato sulla città una specie di senso di sconfitta generale. I grandi, sontuosi hotel sulla promenade trasudano decadenza, nostalgia per tempi che furono e che ahimè non sono più. Strutture alberghiere che delle cinque stelle originarie conservano solo l’ombra, quasi fossero donne un tempo bellissime e la cui antica avvenenza, oggi, si riesce a intuire solo sotto un pesante strato di trucco e di rughe. Dei due moli che, allungandosi verso la manica, fanno da simbolo alla città, uno ospita un luna park pieno di luci, musiche ed odori ma triste e malinconico come tutti i luoghi di divertimento forzato, mentre l’altro, andato in fumo con un incendio nel 2003, è ridotto a uno scheletro di ferro che nessuno sembra avere la voglia di ristrutturare o il coraggio di abbattere definitivamente. Un numero inimmaginabile di locali, pub, discoteche, gentlemen’s club accende la vita notturna, ettolitri di alcol scorrono giù dai vicoli che si arrampicano sulla collina e la romantica passeggiata serale per il caratteristico borgo rischia di trasformarsi in un incubo considerata l’alta percentuale di possibilità che qualche baldo giovane ti vomiti addosso la sua cena accompagnata da troppo vino. E anche in questo caso, mentre passeggi nella contraddizione di un paesino di provincia trasformato in un enorme discoteca, mentre cerchi di capire se lo scenario sia più romantico o infernale, l’atmosfera è un po’ quella della fine di una guerra: da una parte gente felice che canta un motivetto allegro per celebrare la vittoria, e poco più in là decine di vittime accasciate su quello che, nonostante l’odore di salsedine, sembra davvero un campo di battaglia. E allora ti rendi conto che non può essere un caso, se quella canzonetta easy è riuscita a passare alla storia. Perché sembrava solo una filastrocca tragicomica cantata da quattro clown con un direttore d’orchestra vestito da Napoleone, e invece era la descrizione precisa di un mondo.

 


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