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We Are What We Are

Creato il 23 dicembre 2011 da Eraserhead
We Are What We AreIl capo branco muore in un centro commerciale. Dentro la pancia gli trovano un dito.
I famigliari hanno bisogno di procacciarsi il cibo per sopravvivere, non senza seminare cadaveri sul loro cammino.
Da che mondo è mondo un film horror, e prendete per buona questa superflua nomenclatura, ha il compito di farsi mezzo, di farsi veicolo. Pensate per un attimo a mastro Romero e ai suoi morti viventi. Sia lui che molte altre derivazioni del caso hanno utilizzato gli zombi come un pretesto per raccontare dell’altro. Alla fine tutti contenti: chi cercava un po’ di sangue e sbudellamenti vari è stato appagato, e chi aldilà dello splatter sperava in sensi e significati, anche.
Il messicano Jorge Michel Grau per la sua prima fatica cinematografica sceglie di intraprendere questa strada (link):
Il mio scopo principale era quello di mettere in scena la disintegrazione di una famiglia come metafora della disintegrazione di un’intera società, e il cannibalismo si è rivelato il mezzo più funzionale a questo tipo di lavoro.
Quindi ancora una volta un cinema matrioska che contiene all’interno un cinema ulteriore.
La coesistenza di un duplice volto a mo’ di scatola cinese nobilita senz’altro la pellicola che ha il merito di non inaridirsi in una delle due diramazioni sopraccitate. Val la pena comunque spendere qualche riga nel dettaglio, soprattutto sul fatto che preso atto di un duplice discorso, tirando su le reti, i pesci rimasti dentro non sono particolarmente tanti, né troppo appetitosi. Sempre meglio che niente, ad ogni modo.
Sul versante horror o perlomeno sulla mera “storia antropofoga” si casca male, e per fortuna aggiungerei. Grau dosa il gore che altrimenti avrebbe assorbito troppa importanza e di conseguenza deprezzato l’opera tout-court. La via seguita negli ultimi anni nel circuito che più o meno conta è quella lontana da un’esibizione ostentata del sangue in favore di una ricerca più oculata del momento orrorifico, spesso, come in questo caso, situato nel finale. Prima, a scanso di equivoci, va segnalata una tessitura d’atmosfera niente male, dove l’ambiente casalingo simil-cripta ha parecchie ragioni d’essere.
Per quanto concerne tutto ciò che è altro, e qui metteteci davvero tutto, si può dire che la tesi di fondo è in grado di farsi sentire. Alcuni mondi vengono squadernati con efficacia, vedasi il nucleo famigliare per poi travalicare i confini domestici e giungere nelle strade, senza scordarsi delle istituzioni. Nonostante la messa in opera sia asciutta, dunque, gli argomenti non mancano.
Ma è pur vero per chi scrive che le fotografie degradanti della civiltà (prostitute et simila), dell’umanità (Alfredo e qualcosa più grande di lui), non sono particolarmente innovative, o almeno non lo sono per come ci vengono proposte.
Alla fine tutti contenti? Mah, ricordandoci che Somos lo que hay (2010) è un debutto propendo per un nì, se così non fosse scuoterei un pochino la testa.

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