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I Parkers hanno sempre tenuto molto alle tradizioni di famiglia, e per dei buoni motivi. Nel chiuse delle stanze di casa sua, situata in una remota zona rurale dei monti Catskills, nello stato di New York, il patriarca Frank governa la sua famiglia con fervore rigoroso, determinato a mantenere le abitudini ancestrali della famiglia intatte ad ogni costo. Mentre una pioggia torrenziale sta flagellando da giorni il territorio circostante, una tragedia impensabile si abbatte su di lui e sulle sue figlie Iris e Rose: si tratta della morte della moglie, Emma. Le sorelle Parker saranno così costrette ad assumere responsabilità che vanno ben oltre quelle di una tipica famiglia americana. La pioggia incessante continua a inondare la loro piccola città, e le autorità locali iniziano a scoprire indizi che le portano più vicino al segreto che i Parkers hanno tenuto stretto per tanti anni..."We are what we are" di Jim Mickle non è un remake. Potremmo forse pensarlo come una leberissima reinterpretazione del precedente omonimo di Jorge Michel Grau, da cui è consapevolmente ispirato, come recitano i titoli di coda, ma credo sia necessario subito sgombrare il campo di questo interessantissimo film da facili etichette, perché il film di Mickle possiede uno spessore e un'identità tutta sua e che va rispettata come tale. Il film di Grau è poi un'altra e ben diversa cosa, a parte l'ambientazione cittadina e suburbana. Mickle proviene peraltro da prove di un certo tenore, come "Mulberry Street" (2006) e "Stake Land" (2010) e qui si muove con mano esperta nel territorio dell'horror neogotico, capace di creare atmosfere molto particolari, di fotografare un clima familiare e la sua storia di disfunzionalità transgenerazonali in un modo che non credo abbia eguali. A partire dalle scelte di casting Mickle azzecca ogni mossa, ponendo in primo piano Mr. Parker, un Bill Sage cupissimo, roco, malato e diafano, fantasma vivente tra i suoi fantasmi familiari, febbricitante in senso lato in ogni inquadratura. Ottimi i primi piani di Frank, chiuso nella sua officina artigianale dove aggiusta orologi, oppure intento ad apparecchiare la tavola nella sala da pranzo della casa in stile coloniale dove abita con i suoi tre figli: Iris, una Ambyr Childers dagli occhi azzurri iniettati di un rosso sanguigno, sul quale immagino Edgar Allan Poe si sarebbe ispirato per la scrittura di un suo racconto; Rose, una Julia Garner efebica come una statua di gesso a cui un druido dei boschi ha saputo dare vita; Rory, il più piccino, interpretato dal piccolo Jack Gore, il cui cognome sembra essere di per sè tutto un programma, e la cui mimica imprime un quid in più di traumatico all'intera vicenda. Vicenda molto simbolica, allegorica si potrebbe dire, in cui un padre vuole uccidere letteralmente il futuro rappresentato dalla sua prole, inchiodando i suoi figli alla coazione rituale di un passato familiare ancestrale. E' questo il nucleo tematico che fa da architrave concettuale del film: i fantasmi del passato che attraversano l'inconscio di una famiglia, bloccano in una morsa di ferro ogni movimento di autonomia e di desiderio dei figli. Nel caso di Frank questi fantasmi sono rappresentati da una tradizione di cannibalismo, ereditato dagli avi, che ritornano in suggestivi, intensi flash back dove li vediamo muoversi fra i boschi e nelle grotte piovose delle Scatskills mentre dissezionano il cadavere di una donna e lo cucinano al fuoco vivo della legna come semplice bacon. Si tratta di una ricostruzione storica cinematograficamente molto riuscita, antitetica a tutto ciò che potrebbe essere definito come pacchiano, considerato l'alto rischio di cadere in rappresentazioni grottesche di una perversione il cui tabù ancestrale fonda ancora oggi l'intera cultura umana. Anche i riferimenti scientifici alla Sindrome di Kuru, di cui sembrerebbe soffrire Frank, una sorta di Malattia di Creutzfeldt-Jacob scoperta negli anni '50 tra le tribù della Nuova Guinea dedite a rituali di cannibalismo, è resa da Mickle in modo leggero ed esteticamente ben integrato nel girato complessivo. Come a voler dire che i fantasmi inconsci che ostacolano il fluire del Futuro e della Vita, oltre ad essere familiari sono anche filogenetici, vengono da lontano, da una primitività autodistruttiva su cui si fonda l'umano, tanto quanto i tabù e i limiti culturali che cercano di frenarne la proliferazione mortifera. Ma la riflessione su un inconscio familiare che grava come un coperchio di piombo sulle nuove generazioni, si dipana soprattutto attraverso le notevoli, lente, struggenti sequenze in cui Rose e Iris, leggendo il diario lasciato in eredità dalla madre morta, preparano il cadavere di una ragazza rapita dal padre per essere poi cucinata e mangiata. Il corpo pallido della vittima sacrificale viene "disegnato" con tratti di rossetto rosso, che genera un paesaggio estetico come in una body-art ultimativa, mentre il sangue cola lento dalle scanalature apposite dell'antico tavolo di quercia. Saranno, come si conviene, Eros, l'Amore, il Desiderio, a scardinare la perversa ritualità atavica dei Parker. Memorabile è infatti la sequenza dell'amplesso, immerso nella natura dei boschi silenziosi, tra Rose e il giovane poliziotto Anders, in cui cogliamo finalmente uno spiraglio di salvezza per le due ragazze, e che si conclude barbaramente, con l'ombra del padre, capace ancora una volta di distruggere quel momento di trasformazione vitale. Questa sequenza mi ha ricordato la potenza visiva di "Lezioni di piano" (1993) di Jane Campion, perché sottolinea la castrazione sadica del desiderio, il capovolgimento di una scena primaria in cui è il padre a uccidere la coppia vitale, che si apre alla procreazione del futuro. Il crollo, la rovina dei Parker e del loro originario, narcisistico segreto è ormai alle porte, ben rappresentato dalla sequenza in cui il patriarca cerca di fermare le ossa dei cadaveri da lui macellati che scivolano lente ma inesorabili nel fiume, verso il mare di una verità finalmente rivelata. La bellezza di questo film si condensa tuttavia nella finale ribellione delle figlie, di Rose soprattutto, la minore delle due, che proprio in un finale spiazzante, sommamente catartico, uccide, non il padre in quanto tale, ma i fantasmi inconsci di cui Frank è imbevuto ed è portatore. E lo uccide come in una riproposizione dell'originario mito dell' "Orda Primordiale" di cui ci ha parlato Freud in "Totem e Tabù" (1913), sotto gli occhi di un rassegnato, tramortito Dottor Barrow. "We are What We Are" ha molti pregi, ma direi soprattutto quello di far riflettere lo spettatore sulla presenza di rappresentazioni inconsce nascoste e depositate nell'individuo, inconsapevoli ma che giungono da lontano, da un passato che non passa, che ci fa credere che la nostra identità significa fede cieca in quel passato, ma rispetto al quale è necessario un atto di drammatica ribellione da esso per poter aprire di nuovo i sentieri verso il futuro. Il film ha anche, certamente, qualche difetto, primo tra tutti quello di una lentezza a tratti eccessiva, estenuante, dandoci la sensazione (fallace) che non "succede niente". Ma non è così, anzi credo che Mickle utilizzi i tempi del montaggio appositamente per dare l'idea della lenta, metamorfica trasformazione catastrofica di una organizzazione familiare-istituzionale profondamente perversa, decaduta, ma dura a morire, come certi fantasmi storici, come certe credenze, come certe illusioni collettive. "We are what we are": da vedere assolutamente con l'aprirsi del futuro del nuovo anno. Regia: Jim Mickle Soggetto e Sceneggiatura: Jorge Michel Grau, Jim Mickle, Nick Damici Fotografia: Ryan Samul Musiche: Philip Mossman, Darren Morris, Jeff Grace Cast: Bill Sage, Kassie Wesley DePaivia, Julia Garner, Ambyr Childers, Michael Parks, Kelly McGillis, Annemarie Lawless, Wyatt Russell Nazione: USA Produzione: Belladonna Productions, Memento Films International, Uncorked Productions Durata: 105 min.
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