La legge di stabilità approvata dal parlamento prevede una novità interessante: l’introduzione di quella che è stata presto definita la Web Tax. L’intento del governo è obbligare i Big dell’informatica a fatturare con partita IVA italiana. Molto spesso infatti i proventi di Amazon, Google e Facebook sono fatturati in paesi con una fiscalità più leggera, come l’Irlanda o il Lussemburgo. L’IVA è una tassa che si scarica sul consumatore e quindi di per sé non pesa sull’azienda che la applica, però fa emergere dei flussi finanziari e quindi di fatto potrebbe condurre come passo successivo, alla tassazioni in Italia del reddito prodotto. Google per esempio ha una società in Italia, la Google srl, la quale però non fattura per i servizi prestati in Italia, ma i pochi ricavi che possiede derivano da prestazioni rese alla casa madre che fattura in Irlanda le sue prestazioni di pubblicità. A causa di queste triangolazioni sospette la società è stata oggetto di indagini della Guardia di Finanza nel 2012. La nuova legge dovrebbe andare nella direzione di arginare questo fenomeno. Facebook e Google sviluppano in Italia un fatturato di circa 2 miliardi di euro e sembra logico provare a tassare i ricavi di queste società. Il problema è però che questa legge entra in contrasto con le normative comunitarie le quali vietano che si ostacoli la libera circolazione delle merci e la libera fruizione dei servizi. Obbligare delle aziende straniere a munirsi di partita IVA italiana per lavorare con clienti nel nostro paese è un ostacolo a questo principio e vi sono anche alcune norme internazionali del regolamento dell’OCSE sul libero scambio che andrebbero a scontrarsi contro questo provvedimento. In molti nella politica italiana hanno quindi dichiarato illegale questa norma, a cominciare dal Movimento 5 Stelle che si è scagliato contro la Web Tax. Non ultimo Matteo Renzi è intervenuto in extremis invitando a modificare la norma che è stata effettivamente rivista, andando a colpire la sola pubblicità su internet e non l’e-commerce.
L’impatto per l’erario della Web Tax sarebbe stato modesto anche nel primo caso, ma con questa modifica è diventato risibile e di difficile valutazione. Il problema potrebbe esserci anche per le aziende italiane che desiderano fare pubblicità sulla rete: è probabile che il costo della Web Tax venga scaricato su di loro data la forza sul mercato dei colossi dell’informatica. Questo potrebbe essere un notevole peso per la piccole e medie imprese che cercano di esportare i propri prodotti.
Anche se l’obbiettivo principale della norma, cioè fare cassa, sarà quasi sicuramente mancato, la cosa importante in questo caso è il principio di fondo che è di per sé corretto, cioè che ai fini della tassazione di un reddito il luogo della vendita sia tanto importante quanto la residenza fiscale della società che la effettua. Il concetto delle tassazione sulla base della residenza fiscale è infatti antiquato, derivando da una accezione sviluppatasi secoli fa, quando la sede di una società spesso volentieri coincideva con il luogo di produzione dei beni o dell’erogazione dei servizi offerti. In più il welfare state, aspetto della spesa pubblica poco correlato con la vita aziendale, era molto ridotto mentre oggi costituisce una delle principali voci di spesa. Questo tipo di impostazione nell’era della globalizzazione e della digitalizzazione andrebbe profondamente rivisto, dato i il lavoro e la produzione sono diventati molto più flessibili, mentre la domanda è decisamente più rigida in termini di segmenti di mercato: “La distribuzione mangia la produzione”. Sebbene non sarà certamente la legge di stabilità italiana a ribaltare le sorti della fiscalità internazionale questo tentativo è importante perché cerca di rispondere ad un vuoto normativo su cui anche altri paesi si stanno interrogando, Francia e Germania in primis. Non ci sarebbe da stupirsi se la Web Tax finisse presto o tardi sul tavolo della Commissione Europea o di altri organi comunitari. Anzi, sarebbe opportuno che accadesse.