Werner Durand è musicista di lunghissimo corso, dedito al drone e alla ricerca sul suono, tanto che fabbrica i propri strumenti a fiato e cerca di affrancarsi dagli stili occidentali. L’uscita della sua collaborazione con l’artista sui generis Victor Meertens (Hornbread, per Solar Ipse Audio House) è stata l’occasione per conoscere meglio una figura storica, con all’attivo mille e più collaborazioni e di recente finita anche su Important Records (col progetto Born Of Six).
Quando e perché hai deciso di suonare strumenti autocostruiti?
Werner Durand: Intorno al 1983, tentando di far suonare come un didgeridoo un tubo di pvc che mi aveva dato un amico. Ho cercato di suonarlo come un ney (un flauto arabo/turco) e me ne sono innamorato. Prima suonavo il sax e il flauto indiano, sui quali già avevo iniziato a provare qualcosa di più sperimentale. Il mio modo di suonare il sax era ispirato da Terry Riley e dalle musiche microtonali e modali del Medioriente e dell’India.
Consideri i tuoi strumenti come opere d’arte, cose con una loro bellezza indipendente dalla musica?
Non sono così bravo come artigiano per poter fare queste cose. I miei strumenti si sviluppano sulla base di idee acustiche, le apparenze sono in subordine, anche se ogni tanto me ne pento e cerco di far sembrare tutto più “bello”. Alcuni strumenti, poi, sono semplicemente utilizzati in maniere non ortodosse, come la mia “blown kalimba”.
Quando penso a strumenti autocostruiti, vado con la mente a generi come industrial e noise. Hai familiarità con questi modi di suonare? Ho letto che hai collaborato con Alio Die, Ralf Wehowsky e con Bryn Jones (Muslimgauze)…
Strano, non associo mai questi stili agli strumenti autocostruiti, specie se non acustici. Io sono influenzato dalla tradizione sperimentale americana, a partire da Harry Partch.
Non ho mai ascoltato la cosiddetta industrial music, né il noise, spesso troppo forte per permettermi di apprezzarlo. Comunque ascolto un sacco di musica avant o contemporanea, ma il mio vero amore è il primo minimalismo, che a volte confina con certa roba noise, ma tende a essere più sottile: Niblock, Radigue, Tony Conrad, La Monte Young…
E comunque mi sono divertito molto a collaborare con gli artisti che hai nominato: sono/erano parecchio diversi tra di loro, non potevano stare nello stesso contenitore.
In questi ultimi giorni ho avuto modo di ascoltare il tuo progetto 13th Tribe. Diventa un’occasione per chiederti come e perché hai iniziato ad ascoltare e studiare “musica etnica”. Mi piacerebbe anche sapere come mai i 13th Tribe hanno pubblicato solo un album.
Come dicevo, ho iniziato a suonare “miei” strumenti nel 1983. Avevo già studiato musica indiana a partire dal 1978, prima in India e dopo a Berlino. Ma i 13th Tribe non erano influenzati da quella musica, piuttosto da quella africana e da quelle tradizionali del Sudest asiatico e del Pacifico.
Questo ensemble ha lavorato per qualcosa come otto anni, abbiamo pubblicato il cd quando stavamo suonando insieme da due. Nonostante in seguito avessimo sviluppato altro materiale, la band non era cresciuta nella maniera dovuta, principalmente a causa di problemi tecnici e di suono sul palco. Forse ero troppo ambizioso nel tentare di avere così tanti strumenti fatti passare attraverso un sistema complicato di delay, con soundcheck che duravano otto ore e zero energia rimanente per suonare. In qualche modo un nuovo album non è mai saltato fuori, l’etichetta non chiedeva mai di farne un altro e noi non volevamo registrare di nuovo nelle stesse condizioni in cui avevamo registrato il primo.
Come hai incontrato Victor Meertens? Cosa senti in comune con lui dal punto di vista musicale?
Tramite un comune amico, quando lui era in viaggio e stava visitando Berlino. Nel ‘93/’94 è riuscito a rimanerci per un anno e lì è iniziata la nostra amicizia.
La collaborazione tra te e Meertens è iniziata nei Novanta. Perché attendere vent’anni per pubblicare un album? Che possiamo trovare in queste registrazioni del 2003 e del 2007 che vi hanno fatto dire ‘ok, facciamone un disco’?
Le nostre prime collaborazioni erano molto differenti. Facevamo delle performance durante le quali Victor leggeva i suoi testi e tostava del pane, anche se a un dato momento abbiamo anche creato degli strumenti a fiato inserendo dei tubi dentro del pane tipo baguette, che poi usavo sul palco (vedi anche la foto sul retro del nostro album).
Tutto è cambiato nel 2001, quando Victor è tornato in Germania. Sono andato a trovarlo e lui mi ha mostrato la sua chitarra elettrica, che suonava in un specie di stile minimalista. Penso di avergli proposto di usare l’Ebow e dopo lui si è anche servito di bacchette per colpire le corde. Il sound era incredibile e mi ricordava un po’ quello di Arnold Dreyblatt, col quale avevo lavorato nei Novanta.
Nel 2003/4 Victor è arrivato dall’Australia e qui abbiamo iniziato a suonare e registrare insieme. Questo significa che le registrazioni non sono poi così vecchie. Quello che c’è sul cd risale al 2007. L’ho offerto a due o tre etichette, però – siccome Victor non è conosciuto come musicista – nessuno si è mostrato interessato. Ancora di più, dunque, sono grato a Loris (Zecchin, one man army di Solar Ipse, ndr) per averne pubblicate alcune.
Tu e Victor avete suonato al Festival All Frontiers 2008 (Gradisca). Sono stato lì varie volte. Si tratta di una manifestazione incredibile, ma purtroppo senza una copertura mediatica consistente. Racconteresti qualcosa di quell’esperienza (ricordi, nuovi incontri, nuovi amici…)?
È stata davvero una grande esperienza, specie quando ho ricevuto meravigliosi riscontri da uno degli eroi della mia giovinezza, Anthony Braxton. Anche vedere un’ultima volta Lol Coxhill e conoscere altri artisti di valore è stato grandioso. L’atmosfera generale era stupenda e positiva.
Oggi puoi sentire “drone music” anche da band metal. Secondo me questo tipo di musica raggiunge più gente di prima. Ascolti nuovi artisti? Segui quello che succede oggi nel tuo campo? Ci vuoi consigliare qualcuno?
Credo sia interessante vedere questo tipo di fenomeni, nei quali artisti con background molto differenti trovano un po’ di terreno comune, come il “drone” ad esempio, per emanciparsi dagli approcci melodici/armonici/ritmici e immergersi totalmente nel suono. Questa tendenza si trova in tanti generi, dall’avant alla new age, dal metal alla free impro.
I miei gusti personali sono vari, ma sono molto selettivo. Ho fatto cenno poco fa ai miei preferiti, puoi aggiungere alcuni compositori che lavorano con tecniche “just intonation”, ad esempio Kraig Grady (il suo ultimo cd è su and/OAR).
Quali sono I tuoi progetti futuri? Non abbiamo nominato Amelia Cuni e i Born Of Six in quest’intervista. Pubblicherai qualcosa di nuovo con lei?
Al momento ci sono tre progetti in evoluzione. Born Of Six, con Amelia Cuni e altri (“just intonation”, drone, raga). Hiss (Mastered Noise) di HMN: una nuova versione di questo disco, che include un Intonarumori costruito a Praga e suonato dalla Opening Performance Orchestra, canto dhrupad e vari risonatori, strumenti a fiato auto costruiti, Intonarumori e campioni di registrazioni storiche di cantanti indiane. Infine, un trio ancora senza nome, composto da me e due artisti giapponesi che vivono a Berlino (il ballerino Junko Wada e il video-artista Takehito Koganizawa).
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