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La meglio gioventù in versione inglese? È questo che si può pensare di White Heat, mini-serie britannica in 6 puntate da un’oretta l’una recuperate dietro consiglio del blog di Cipolla pensierosa. Una meglio analisi superficiale e veloce, ma che a grandi linee rende l’idea di quello che vi potrete trovare di fronte. In questa serie le vicende personali di una serie di personaggi si sviluppano con sullo sfondo le vicende politiche e sociali della Gran Bretagna tra gli anni ’60 e i ’90, con una puntatina nel presente, laddove La meglio era ambientata tra il 1966 e il 2003. La differenza principale tra la splendida serie italiana firmata da Marco Tullio Giordana e questa è nella caratteristica dell’unione dei personaggi. La meglio gioventù è incentrata su una famiglia, i preziosi Carati, mentre qui le vicende sono incentrate su un gruppo di coinquilini. Ed è qui che si annida una differenza fondamentale tra la cultura italiana che, un po’ come quella americana, non può prescindere dall’unione famigliare, mentre in UK, vuoi per l’assenza di una forte impronta cristiana, il concetto di famiglia è differente e trascende i legami di sangue. Nel 1965, un gruppo di sette tizi (4 ragazzi e 3 ragazze) va a vivere insieme e da lì in poi rimarranno per sempre legati da un rapporto di amicizia così come anche di contrasto che ricorda molto un rapporto famigliare, perché alla fine è questo che diventeranno: una famiglia.
White Heat è un romanzone, un’epopea che si sviluppa in vari decenni con vari personaggi e, come le migliori di queste storione, riesce a coinvolgere e appassionare sempre più, episodio dopo episodio, epoca dopo epoca. Cosa che comunque non lo rende esente da difetti, in primis la mancanza del caratteristico British humor, in favore di una seriosità che ci sta anche ma è probabilmente eccessiva. La vicenda parte nel presente, con i personaggi ormai “vecchi”, intorno ai 60 anni passati, che si ritrovano per la morte di uno di loro. Chi è non ve lo dico, anche perché su questo mistero si gioca fino all’ultimo episodio. In ogni puntata, velata da una forte dose di malinconia, si viaggia in flashback indietro in un anno importante, sia per loro, che in qualche modo per la storia britannica recente: 1965, 1967, 1973, 1979, 1982 e 1990. Il legame tra la riflessione intima e personale sui personaggi e sui rapporti che si instaurano tra loro con una riflessione politica e sociale è ben congegnato e funziona piuttosto bene, sebbene la serie non riesca a sfuggire del tutto dagli stereotipi e da una schematizzazione e semplificazione a tratti eccessiva.
C’è ad esempio Jay (Reece Ritchie), il personaggio omosessuale cui, in maniera piuttosto prevedibile, fanno contrarre l’HIV, c’è la tipa grassottella ma buona di cuore Orla (Jessica Gunning), c’è la bionda Lilly (MyAnna Buring), una tipa perennemente insoddisfatta che intraprende la via dell’arte fino a che non si rende conto di non avere talento e c’è il rigido ingegnere Alan (Lee Ingleby), che le va dietro come un cagnolino fino a che non riuscirà a farla diventare sua moglie. Se questi personaggi di “contorno” non sono male ma nemmeno sono stati sviluppati al meglio, laddove la serie funziona e coinvolge di più è nel triangolo sentimentale tra i tre veri protagonisti centrali della storia. Jack (Sam Claflin) è il figlio di un ricco politico conservatore che, per ribellarsi al padre, diventa una sorta di hippie dalle idee del tutto opposte a quelle del genitore e destinato a una carriera nel partito laburista. Charlotte (Claire Foy) è una donna forte e indipendente, una femminista che proverà a fargli mettere la testa a posto. Ma tra loro spunta Victor (David Gyasi), un ragazzo black che per via del colore della sua pelle avrà varie vicissitudini con la polizia; naturalmente si innamora di Charlotte che però sembra avere occhi soltanto per il rebel rebel Jack. Anche se i tre protagonisti non rifuggono pure loro del tutto dagli stereotipi, c’è poco da fare: un triangolo amoroso quando è ben architettato funziona sempre e mantiene alta l’attenzione dello spettatore.
Bravini, ma non del tutto spettacolari, gli attori. Alcuni di loro hanno comunque ampi margini di miglioramento e potrebbero riservarci buone cose in futuro: tra loro svettano Claire Foy, già vista nei panni della strega inquietante del pessimo L’ultimo dei templari, Sam Claflin, lanciatissimo anche a Hollywood dopo Biancaneve e il cacciatore in cui ha la parte del Principe Azzurro, Reece Ritchie, già nel toccante Amabili resti, e la bionda MyAnna Buring, vista nell’atroce Kill List. Azzeccata la scelta di prendere degli altri attori per interpretare i personaggi ormai invecchiati nel presente, invece di ricorrere a un trucco che avrebbe potuto creare effetti involontariamente tragici, come nel recente J. Edgar di Clint Eastwood.
La serie non riesce a gettare uno sguardo sul passato radicalmente nuovo, come invece fatto da una serie come Mad Men, in grado di prendere gli anni ’60 così come li conoscevamo e rivoltarli come un calzino. I decenni recenti sono qui rivissuti in una maniera conosciuta, già vista da altre parti, e le tematiche sono quelle che ci si può aspettare: diritti civili, femminismo, aborto, omosessualità, gli anni della Thatcher, ecc., affrontati attraverso i cambiamenti sociali e culturali da metà 60s al 1990. Niente di troppo nuovo sotto il sole a livello di tematiche e anche la colonna sonora, pur di primissimo livello, ripropone pezzi stranoti, dai Who a David Bowie, dai Clash ai classici della disco anni ’70. Per quanto non riesca a sorprendere, per quanto mi sia concentrato soprattutto sugli aspetti meno convincenti, White Heat è uno sceneggiato tv che si lascia seguire in maniera del tutto appassionante e che ti entra sempre più dentro al cuore, al punto che, dopo essere rimasto piuttosto perplesso dopo i primi due episodi, quelli meno riusciti e più stereotipati dei ’60, mi sono letteralmente divorato i successivi. Perché nella sua imperfezione si cela un’umanità rara da trovare in molti altri prodotti, anche più riusciti o innovativi. Il miglior pregio di White Heat, allora? Quello di essere una serie ricca di tanti, umanissimi difetti. (voto 7+/10)
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