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Succedono cose che non abbiamo mai osato immaginare neanche nei nostri sogni (musicali) più selvaggi. Una di queste è senz'altro un long playing per la Chess Records di Wilko Johnson e Roger Daltrey, dove cantano molte delle canzoni che abbiamo amato dei Dr.Feelgood. I Feelgood furono per me una band determinante, ed in particolare il loro live Stupidity nella mia estate inglese del 1977, assieme a Pretty Vacant dei Pistols fu uno dei dischi che mi cambiarono la prospettiva. Quel disco fu il loro unico numero uno in classifica, perché per qualche sfortunato motivo durante il tour americano Wilko decise che c'era qualcosa nel successo o forse nel resto della band che non faceva click con la sua anima. Fu come dare un calcio al destino; i Feelgood persero il motore, e invece di avere una chance di diventare i nuovi Stones restarono il gruppo di una stagione - anche se una band con lo stesso nome (ma nessuno dei musicisti originali) calca il palco ancora in questi giorni. Wilko non ritrovò mai la stessa occasione né nella carriera solista, né con i Solid Sender, né con i Blockheads - che non diventarono mai la sua band, anche se è in quell'ensemble che conobbe Norman Watt-Roy e Dylan Howe, e fu relegato ad una carriera da blue collar del rock'n'roll. Il resto della storia è nota: all'inizio del 2013 a Wilko fu diagnosticata una malattia terminale. Wilko, che aveva perso gran parte della gioia di vivere da quando era morta la sua amata Irene, decise di spendere il tempo che gli rimaneva nel fare la cosa che gli era sempre riuscita meglio: suonare il rock. Devo ammettere che gli è riuscito di fare più in quest'anno che in tutto il resto della sua carriera, passando dallo status di artista di culto dell'underground a riconosciuta leggenda britannica della chitarra elettrica: uno dei più grandi chitarristi ritmici inglesi assieme a Keith Richards e Pete Townshend, in effetti.
Di tutta la lista di cose realizzate nell'anno, la più sorprendente è di certo la registrazione di un disco per la Chess con quell'altro mito del rock che è il cantante degli Who, Roger Daltrey. Due teddy boys (sì, Roger non fu mai un mod, mi dispiace per i fan della sua band) accomunati dalla comune passione per un 45 giri seminale di Johnny Kids and the Pirates, Shakin' All Over.
Going Back Home è un disco perfetto a partire dal suo stesso titolo, "tornando a casa". Una casa metaforica, che può essere intesa come la giovinezza, come il rock delle origini, ma anche in senso più spirituale come quel cielo da cui tutti veniamo ed in cui un giorno torneremo. Il fell like going home del blues nero. Già dalla copertina Going Back Home si presenta come un testamento, con la sua grafica in bianco e nero da giorni del rock'n'roll e le foto dei due interpreti in tutte le età, dall'infanzia con le prime chitarre, un Roger con ciuffo ribelle da rocker ed un Wilko che sembra John Lennon, alle foto del matrimonio con Irene ed una con i Feelgood che mi ha fatto particolarmente piacere, perché suona come una riappacificazione se non una richiesta di scuse verso la band che ha dato a Wilko la popolarità, anche se Lee Brilleux non è più fra noi per poterlo apprezzare. Ma mica un testamento triste, anzi! Un solido, energico, intenso, frizzante, entusiasmante disco di rock come non se ne sentiva più dal 1977, e proprio per questo particolarmente malinconico, perché nessuno di noi ha più l'età che aveva quell'anno ed alla fine un addio è pur sempre un addio. Il suono è assolutamente perfetto: nudo, crudo, intenso, con i migliori musicisti della scena, dalla chitarra di Wilko al basso di Norman Watt-Roy (il miglior bassista inglese, sappiatelo), la batteria di Dylan Howe (figlio d'arte), con il cesello delle tastiere di Mick Talbot (Dexys, Style Council) e l'armonica di Steve Weston. E naturalmente la voce del paradiso di Roger Daltrey, il cui nome evoca emozione da quando abbiamo l'età della ragione, e che in studio ritrova tutta la potenza canora che ormai gli fa un po' difetto dal vivo - solo la potenza, non certo il fascino e la simpatia che sono intatti. Il disco si apre con il brano omonimo, già nel repertorio dei Feelgood e non a caso scritto a due mani con quel Mick Green che dei Pirates di Johnny Kidd fu il chitarrista. In questa canzone e nella successiva Ice On The Motorway, dal primo album solista di Wilko, Roger si trova a competere con lo stile di Brilleux, ed è una gran piacevole lotta. I Keep It To Myself è un gran R&B tirato. Can You Please Crawl Out Your Window è un oscuro singolo di Dylan, anch'esso già cantato da Wilko, reso in maniera sublime da Roger, e si iscrive fra le sue cose migliori di sempre - e potrebbe essere un grande hit. Ancora la poetica ballata di Turned 21, a quanto capisco su una giovane prostituta che ha fatto battere il cuore dell'autore, sembra scritta apposta per le potenti doti melodiche di Daltrey, ed è abbellita sulla copertina da una suggestiva foto con i Feelgood. Tutti gli altri brani sono un'ininterrotta corsa di rock'n'roll a tutto ritmo con ben pochi precedenti: mi viene da pensare solo a Live Bullet ed ai dischi di Chuck Berry.
Il disco è già in vetta alla classifica inglese, confermando la Gran Bretagna come il più grande paese del mondo. È il secondo top di Wilko e l'ennesimo, ma il primo da molti anni e con tutta probabilità l'ultimo, di Roger. Un gran grande finale da leggenda, da fuochi d'artificio, che non può non commuovere e riempire l'animo di chi è cresciuto a pane e rock'n'roll, e non date retta a quegli sfigati che hanno recensito con tre stelle l'album rock del secolo. Non saprebbero riconoscere un capolavoro neanche se se lo trovassero sotto le lenzuola.
rating: ✩✩✩✩✩✩✩✩✩✩✩✩✩✩✩✩✩✩✩✩✩✩✩✩✩...
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