Kosmo rappresentò una forte esigenza d’espressione, vista la lunga assenza dal 2002 al 2011: è il loro album più diretto ed esplosivo, ma oggi fa piacere accoglierli ascoltando la loro anima più visionaria. Inusto è un disco sperimentale, ostico e mai scontato, a cominciare dal concept che affronta la figura di Nicholas Roerich. Per chi non li conoscesse, i Will’o’Wisp si sono formati nei primi ’90; in passato hanno pubblicato una demo e altri due dischi e il solo superstite della formazione originale è il chitarrista Paolo. L’album è molto “suonato” e gode d’arrangiamenti curati in modo scrupoloso. L’assolo qui non è mera e fredda esecuzione tecnica, ma estensione del sentimento, del “sentire interiormente” la musica prima di esprimerla con lo strumento. Ulteriore elemento questo, che contribuisce a non farci vivere mai quella sensazione sgradevole di già sentito. Oltre al pericoloso mantra “Flame In Chalice” -in pratica la loro “Dittohead”- Inusto sa riservare altre gradite sorprese. Nell’album fanno capolino le influenze dei Cynic e degli Aghora del debutto: tanti inoltre gli strumenti inusuali (fisarmonica, clarinetto, violino) e gradevole la presenza della giovane soprano Benedetta su due brani. Nel secondo “The Beggar” è tangibile e molto d’effetto il contrasto tra lei ed Emanuele. Alla band non piace ricalcare i soliti cliché; alcuni episodi richiamano il metal estremo classico (ultimi Emperor e Death in “Under The Earth”), altri si manifestano in modo folle come “When The East Is Aflame”, che riassume al meglio la natura assurda dell’intero lavoro. Il consiglio a chi legge è di tenerli d’occhio, sperando che il loro messaggio venga recepito, perché portano avanti un discorso davvero unico nel genere.
Tracklist
01. Kanchenjunga (Instrum.)
02. Flame In Chalice
03. Sacred Signs
04. The Calling One
05. Reveal
06. Burning Of Darkness
07. The Spark Of Life And Death
08. Under The Earth
09. Lower Than The Depths (Instrum.)
10. Silvery Realm (Instrum.)
11. Path To The Shambhala
12. When The East Is Aflame
13. The Beggar
14. Chintamani
15. Treasure Of The Mountains (Instrum.)
Intervista
Un esordio su cassetta nel ’94 e due album, un break durato tanti anni poi il ritorno con Kosmo, già vecchio di tre. L’ultimo loro lavoro si intitola Inusto ed è un viaggio tutto particolare che ho cercato di capire meglio, scambiando due chiacchiere in chat col chitarrista Paolo Puppo.
Iniziamo dalla cosa più semplice, ovverosia come e quando è nato il disco.
Paolo Puppo: Inusto ha avuto la sua prima gestazione attorno al 2010, di lì ha iniziato a subire varie modifiche, fino ad assumere il suo volto attuale nel 2014: il processo è stato lungo e laborioso, perché inizialmente si prevedeva di esplorare un concept diverso. Poi è stata presa un’altra decisione e di conseguenza tutta la musica e le idee legate sono andate maturando in un altro contesto. Un lavoro di continuo ripensamento, a volte anche invasivo. Molti brani sono stati abbandonati per poi rinascere quasi completamente.
Pensate di riutilizzare le vecchie bozze o non vi piace riciclare idee già sviluppate?
Qualcosa ho recuperato proprio perché si trattava di spunti a mio avviso validi, ma poco relativi al concept che si voleva portare. Sto recuperando l’anima della prima idea più che singoli riff, per quanto alcune cose qui e là – seppur modificate . potrebbero trovare la via nel disco. Solitamente tendo a non usare idee scartate, perché se non funzionavano prima è inutile sperare funzionino dopo: di contro catturare un’intenzione può essere utile.
Com’è stato scrivere l’album conciliando distanze e impegni di ognuno di voi?
Scrivere l’album è stato un processo faticoso, perché nel momento della definizione del concept è apparso evidente che ci si rendeva veicoli dell’arte di un genio universale e di un maestro irraggiungibile. Trattare una materia di così alto valore è stato un compito assunto con massima modestia e dedizione. Per il resto, grazie alla tecnologia odierna, il processo è andato avanti tranquillamente. Una volta completati gli spartiti, non ho dovuto far altro che girarli ai miei compagni di avventura.
Quindi le idee sono partite nuovamente tutte da te?
Sì, le idee musicali sono tutte mie, ma conta relativamente. I ragazzi mettono la loro arte nel portare quelle note in vita, tieni conto che le linee di basso e di batteria non sono opera mia. Io scrivo le tastiere e le chitarre, ma la sezione ritmica è di pertinenza loro, non mi azzarderei mai a metterci bocca.
Cosa vi ha portato a intraprendere la strada del riadattamento delle poesie di Roerich, anziché scrivere testi vostri? Anche con Kosmo era avvenuta una cosa più o meno simile o sbaglio?
In Kosmo affrontammo le tematiche del Bardo Thodol, quindi di un libro intero: occorreva per forza un lavoro di sintesi senza stravolgimento. Nel caso della poesia di Roerich è stato semplice lasciare le cose intatte (le parole così come l’impaginazione), trattandosi di componimenti brevi. Così si è scelto di riportarne alcune frasi che legassero e mantenessero inalterato lo spirito del tutto.
Cosa mi dici riguardo gli ospiti? Hanno avuto libertà o seguivano direttive ben precise?
Per il flauto di Gabriele e il violino di Dario (entrambi nei Winterage) le partiture sono state fornite già complete, lo stesso vale per la fisarmonica di Fernando Cherchi, batterista de Il Segno del Comando. Alla voce abbiamo avuto la giovane e promettente soprano Benedetta Torre, che ha donato a “The Beggar” la sua interpretazione, basandosi su una linea melodica già scritta: il suo contributo è stato unico e molto sentito. Nella parte di “Sacred Signs”, invece, è stata lasciata completamente libera di esprimersi. Per quanto riguarda Gleb Kanasevich il discorso è diverso, perché – trattandosi di un solo – ha avuto totale libertà. Gli abbiamo proposto il lavoro e lui si è dimostrato disponibile. La cosa ci ha fatto piacere, perché – nonostante fosse un rapporto session man/band – non era scontata per nulla la sua partecipazione. Diciamo che ha colto una direzione artistica che lo ha spinto ad accettare la proposta. Penso abbia donato un saggio di estrema musicalità sommata a un’esecuzione incredibile. Vorrei citare anche la collaborazione a livello di synth sound-engineering di Davide Bruzzi (Il Segno Del Comando) e Patrick Graziosi (Thy Nature).
In effetti l’apporto di Gleb dà uno schiaffo inaspettato a chi ascolta ed è una sensazione che ho avvertito in un po’ tutto il disco.
Beh, questo mi fa piacere, l’inatteso dona sempre emozione, a meno che non sia fine a se stesso, non c’è la volontà di stupire ma di donare delle angolazioni meno attese.
Cos’è per te la sperimentazione? Secondo te c’è un modo al giorno d’oggi per non renderla una mera esecuzione delle proprie capacità più “inusuali”?
Tenendo conto che le fondamenta di ogni forma artistica sono l’intento ed il cuore e che la tecnica realizzativa per quanto importante non dovrebbe mai esserne il fine, direi che la strada percorribile è quella di considerare ogni evento sonoro come musica e quindi di non porsi alcun limite nell’uso del suono. Tutto deve essere finalizzato alla creazione dell’intento e dell’emozione che si vuole fornire, per cui potrebbe essere utile anche un suono di pentolame se funzionale in quel momento. Un mix estremo di ogni strumento atto a produrre suono, persino il rumore potrebbe essere musicale nel contesto giusto.
Come vi vedete per i 25 anni della band nel 2017? Pensi spingerete oltre il fattore dei field-recordings di cui Inusto è già molto ricco?
Sì, l’idea è di avere tutto vero, ci saranno molte cose assolutamente avanguardistiche per il genere, vorrei fuggire dalla freddezza del sintetico.
Abbiamo parlato di sperimentazione e ora citi l’avanguardia: cos’è per te e quanto c’è di buono in giro da ascoltare?
Più che altro oggi a mio avviso è sempre più difficile esprimere novità, perché in molti generi la deformazione tecnica (soprattutto nel metal) ha preso il sopravvento. Si suona molto per stupire e poco per comunicare. Non ho una grossa conoscenza di altri generi, per quanto io abbia ascolti molto vari. Questo basilarmente perché sono ancorato nell’avanguardia a cose che si spingono non molto dopo il Settanta, parlando di autori classici moderni. I miei ascolti metal sono molto anni Novanta, resto legato a band come Cynic, Death, Slayer, Emperor, primi Sepultura. Però su una band straordinaria mi sento di parlare: i Voivod, che come una fenice seguitano a risorgere e proporre musica avanti di una ventina di anni sempre: l’ultimo singolo è di una bellezza disarmante.
Tornando a Inusto, ho notato sulla vostra pagina una campagna di Musicraiser avviata già da tempo, ce ne vuoi parlare?
È una strada che ci siamo sentiti di tentare. Non è un mistero che oggi il mondo musicale in toto viva una profonda crisi. Questo, se danneggia i grandi, ha reso la vita alle piccole realtà ancora più dura che in passato. Fa male dirlo, ma spesso il problema della scena è la scena stessa, il supporto verbale è piacevole, dona soddisfazione, ma qualche cd venduto può permettere a una band di coprire un pochino le spese (molte) da sostenere quando si decide di realizzare musica. Per cui ci siamo detti “tentiamo, sarà anche un modo diretto per avere delle conferme in entrambi i sensi”. Questo non sposterà di un centimetro l’attitudine artistica e la missione della band, però fornirà comunque vada una esperienza preziosa.
Come vedi proiettati i Will’O’Wisp in un ipotetico live?
Ti confesso che ho sempre considerato i Will’O’Wisp come un libro. Un libro lo leggi, non lo vedi attuarsi se non nell’immaginifico che ti trasmette. Ho un concetto molto esoterico della musica e della sua creazione, quasi alchimistico. Non amo l’esibizione per quanto mi renda conto che possa fornire in molti casi una magia particolare anch’essa. Diciamo che per mille motivi dovrebbero crearsi veramente delle condizioni molto stimolanti e particolari.
Rispetterete i termini dell’anniversario?
Non saprei. L’idea ci sarebbe ma se divenisse un’ossessione allora no. Lo desidero fortemente, ma non al costo di scrivere materiale che non senta al 100% adatto a quanto si vorrà comunicare.
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