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William Shakespeare, “La Tragedia di Amleto, Principe di Danimarca” I

Creato il 26 aprile 2013 da Marvigar4

Amleto Vignolo Gargini

William Shakespeare

LA TRAGEDIA DI AMLETO, PRINCIPE DI DANIMARCA

Titolo originale The Tragedy of Hamlet, Prince of Denmark

Traduzione di Marco Vignolo Gargini

Introduzione a cura del traduttore.

   “Di fatto, non esiste una cosa come l’Amleto di Shakespeare. Se Amleto possiede qualcosa della definitezza di un’opera d’arte, possiede anche tutta l’oscurità che appartiene alla vita. Vi sono tanti Amleti quante malinconie.

Oscar Wilde, Il Critico come artista

   La prima comparsa cronachistica e letteraria della figura di Amleto, principe di Danimarca, avviene nel XII secolo all’interno dell’opera latina Gesta danorum, divisa in 16 libri, di un certo Saxo Grammaticus (1140 ca-1210 ca), storico danese di cui ben poco sappiamo (addirittura pare che il suo vero nome sia un altro). Una ripresa del personaggio Amleto, elaborata dal testo di Saxo, è quella contenuta nel quinto volume (1570) delle Histoires Tragiques del francese François de Belleforest (1530-1583). L’Amleth, che ci giunge così appellato da questa storia, è il figlio del re danese Horwendil e di Gerutha. Horwendil, ucciso dal fratello Fengon, viene vendicato dal figlio Amleth; quest’ultimo, fingendosi pazzo e mandato in Inghilterra per essere giustiziato, sfugge alla morte e torna uccidendo a sua volta Fengon, l’usurpatore del trono, nonché sposo incestuoso di Gerutha. Amleth, consumata la vendetta, viene salutato come re di Danimarca. 

   A Thomas Kyd (1558-1594), drammaturgo inglese autore della celeberrima The Spanish tragedy (Tragedia spagnola 1585 ca), è stato attribuito un Amleth, andato perduto, che sarebbe stato, insieme alle opere di Belleforest e di Saxo, fonte di ispirazione per l’omonimo dramma di William Shakespeare

   Secondo alcuni studiosi (Peter Alexander, Leeds Barroll, Harold Bloom) una prima versione di Hamlet sarebbe stata composta da Shakespeare nel 1589 circa, con una trama che risente dell’influenza degli autori succitati. In questo Ur-Hamlet, il principe danese avrebbe avuto una connotazione alquanto diversa, ossia quella di un personaggio più roso dallo spirito vendicativo, meno dedito alla riflessione e alla sottile ironia. La seconda, definitiva versione di Shakespeare, dal titolo The Tragedy of Hamlet, Prince of Denmark, sembra ormai risalire al periodo 1600-1601.

   La prima edizione in quarto del dramma (Q1) comparve nel 1603, con un testo di gran lunga più breve rispetto a quello che conosciamo, forse fu una ricostruzione a memoria di un attore della compagnia di Shakespeare, non autorizzata dall’autore. Lo stesso editore di Q1, Nicholas Ling, riparò l’inconveniente, a salvaguardia dell’integrità dell’opera e di chi l’aveva composta, pubblicando nel 1604 la seconda edizione in quarto (Q2), la cui lunghezza era raddoppiata rispetto a Q1 (3880 versi!), e molto più corretta e curata. Probabilmente si trattò della prima vera stampa del manoscritto originale di Shakespeare del 1601. Q2, stando al giudizio della quasi unanimità dei filologi, può essere definito il testo di riferimento più autorevole del dramma. Nel 1623 tutte le opere shakespeariane conobbero la prima edizione in-folio (F), il cosiddetto First Folio a cura di J. Heminge e H. Condell, due attori dei King’s Men, all’interno della quale The Tragedy of Hamlet, Prince of Denmark mostrò alcune aggiunte, varianti e tagli rispetto a Q2 (in tutto F consta di 3650 versi). Si suppone che F venne condotta sulla base del copione usato dalla compagnia di Shakespeare in successive repliche, tra il 1610 e il 1620 circa, con revisioni dettate da Shakespeare stesso. Usualmente, il testo base adottato, anche da me, rimane il Q2 con variazioni da F. 

   Una volta affrontata in sintesi la questione filologica dello scritto, non resta che tentare di addentrarci nell’ermeneutica infinita che Hamlet conosce (o subisce?) da quattro secoli a questa parte. Esibirò solo alcuni degli innumerevoli aspetti che il vasto argomento ha saputo fornire, citerò dei brani che, dal mio punto di vista, e mi perdoneranno i caduti nel mio oblio, sono forse in grado di offrire una visione abbastanza sinottica ed esaustiva nei riguardi del capolavoro assoluto del divin Bardo.  

   Le questioni in campo sono plurime: v’è l’aspetto biografico, ovvero le infauste vicissitudini contingenti nella vita di Shakespeare, dalla prima redazione del 1589 alla stesura-revisione del 1601. Le morti del figlio undicenne, Hamnet (è ovvio che detto nome abbia offerto tanti spunti ai critici per congetture su di un nesso non casuale tra questo e quello del personaggio di Hamlet), e del padre John, avvenute rispettivamente, si ipotizza, nel 1596 e nel 1601, avrebbero costituito per Shakespeare un’apertura di senso rilevante, non trascurabile. Tra l’Ur-Hamlet e The Tragedy of Hamlet, Prince of Denmark ci sarebbe stata in Shakespeare l’irruzione violenta e profonda del dolore, patito per questo duplice lutto, a cui farebbero seguito le relative, naturali considerazioni sul proprio dramma personale. Da qui la tesi di un effetto d’identificazione, diretto a suggestionare radicalmente la stesura-revisione del 1601. Nel famoso capitolo della Biblioteca dell’Ulysses di James Joyce (1882-1941) il personaggio Stephen Dedalus sposa un’interpretazione del genere:  

   “-Il dramma ha inizio. Un attore spunta nell’ombra, ravvolto nella cotta smessa di un damerino di corte, un uomo ben piantato con voce di basso. È lo spettro, il re, re ma non re, e l’attore è Shakespeare che ha studiato l’Amleto per tutti gli anni di sua vita che non furono vanità per recitare proprio la parte del fantasma. Parla a Burbage, il giovane attore che gli sta davanti, al di là delle bende funebri, chiamandolo per nome:

Amleto, io sono lo spirito di tuo padre

ordinandogli di ascoltare. A un figlio egli parla, il figlio dell’anima sua, il principe, il giovane Amleto e al figlio del suo corpo, Hamnet Shakespeare, che è morto a Stratford affinché il suo omonimo potesse vivere per sempre.

-È possibile che quell’attore Shakespeare, spettro per assenza, e in veste del sepolto signore di Danimarca, spettro per morte, che diceva le sue parole al nome del proprio figlio (se Hamnet Shakespeare fosse vissuto sarebbe stato il gemello del principe Amleto) è possibile, vorrei sapere, o probabile che egli non traesse o prevedesse la conclusione logica di quelle premesse: tu sei il figlio spodestato: io sono il padre assassinato: tua madre è la regina colpevole. Ann Shakespeare, nata Hathaway?”[1]

Harold Bloom, il più importante critico letterario americano, nel suo Shakespeare: the Invention of the Human (1998), non condivide le frasi joyciane espresse da Stephen Dedalus:

   “Amleto è tuttavia il figlio ideale di Shakespeare, come Hal lo è di Falstaff. Questa affermazione non è mia: appartiene a James Joyce, che fu il primo a identificare Amleto il danese con Hamnet, l’unico figlio maschio di Shakespeare, morto nel 1596, all’età di undici anni, quattro o cinque anni prima della versione definitiva di Amleto, principe di Danimarca, in cui il padre di Hamnet Shakespeare interpretò la parte del fantasma del padre di Amleto. (…) 

   Il figlio e il padre di Shakespeare erano morti entrambi quando fu composto l’Amleto maturo, ma il dramma non mi sembra ossessionato dall’idea della mortalità più di quanto lo siano le opere precedenti o successive. Amleto non sembra nemmeno interessato alla morte più di molti altri protagonisti shakespeariani; le sue sono, come osserva alla fine Orazio, «uccisioni dovute al caso».”[2]

   V’è l’aspetto psicologico o, per meglio dire in questo frangente, psicoanalitico, che Sigmund Freud (1856-1939), nella sua opera Die Traumdeutung (1899), fu il primo a fondare, nel tentativo non agevole di dare una lettura della complessa personalità del principe danese, lettura poi ripresa e ampliata dall’allievo di Freud Ernest Jones (1879-1958)[3]:  

   “Nello stesso terreno dell’Edipo re si radica un’altra grande creazione tragica, l’Amleto di Shakespeare. Ma nella mutata elaborazione della medesima materia si rivela tutta la differenza nella vita psichica di due periodi di civiltà tanto distanti tra loro, il secolare progredire della rimozione nella vita affettiva dell’umanità. Nell’Edipo, l’infantile fantasia di desiderio che lo sorregge viene tratta alla luce e realizzata come nel sogno; nell’Amleto permane rimossa e veniamo a sapere della sua esistenza – in modo simile a quel che si verifica in una nevrosi – soltanto attraverso gli effetti inibitori che ne derivano. L’effetto travolgente del dramma più recente si è dimostrato singolarmente compatibile col fatto che si può rimanere perfettamente all’oscuro del carattere dell’eroe. Il dramma è costruito sull’esitazione di Amleto ad adempiere il compito di vendetta assegnatogli; il testo non rivela quali siano le cause o i motivi di questa esitazione, né sono stati in grado di indicarli i più diversi tentativi di interpretazione. Secondo la concezione tuttora prevalente, che risale a Goethe, Amleto rappresenta il tipo d’uomo la cui vigorosa forza di agire è paralizzata dallo sviluppo opprimente dell’attività mentale (“la tinta nativa della risoluzione è resa malsana dalla pallida cera del pensiero”[4]). Secondo altri, il poeta ha tentato di descrivere un carattere morboso, indèciso, che rientra nell’àmbito della nevrastenia. Sennonché, la finzione drammatica dimostra che Amleto non deve affatto apparirci come una persona incapace di agire in generale. Lo vediamo agire due volte, la prima in un improvviso trasporto emotivo, quando uccide colui che sta origliando dietro il tendaggio, una seconda volta in modo premeditato, quasi perfido, quando con tutta la spregiudicatezza del principe rinascimentale manda i due cortigiani alla morte a lui stesso destinata. Che cosa dunque lo inibisce nell’adempimento del compito che lo spettro di suo padre gli ha assegnato? Appare qui di nuovo chiara la spiegazione: la particolare natura di questo compito. Amleto può tutto, tranne compiere la vendetta sull’uomo che ha eliminato suo padre prendendone il posto presso sua madre, l’uomo che gli mostra attuati i suoi desideri infantili rimossi. Il ribrezzo che dovrebbe spingerlo alla vendetta è sostituito in lui da autorimproveri, scrupoli di coscienza, i quali gli rinfacciano letteralmente che egli stesso non è migliore del peccatore che dovrebbe punire. Così ho tradotto in termini di vita cosciente ciò che nella psiche dell’eroe deve rimanere inconscio. Se qualcuno vuol dare ad Amleto la denominazione di isterico, posso accettarla solo come corollario della mia interpretazione. A questa ben s’accorda l’avversione sessuale che Amleto manifesta poi nel dialogo con Ofelia, la medesima avversione sessuale che negli anni successivi doveva impadronirsi sempre più dell’animo del poeta, sino alle sue estreme manifestazioni nel Timone d’Atene. Naturalmente, può essere solo la personale vita psichica del poeta, quella che si pone di fronte a noi nell’Amleto. Traggo dall’ opera di Georg Brandes su Shakespeare[5] la notizia che il dramma è stato composto immediatamente dopo la morte del padre di Shakespeare (1601), quindi in .pieno lutto, nella reviviscenza – ci è lecito supporre – delle sensazioni infantili di fronte al padre. È noto anche che il figlio di Shakespeare, morto giovane, aveva nome Hamnet (identico a Hamlet).[6]

   V’è l’aspetto filosofico, il personaggio di Amleto studiato e interpretato come paradigma della condizione umana, dell’uomo sperimentale che fonda nel cimento diretto su di sé nuovi metodi per la propria “follia”, per la propria esistenza teoretica. Tra tutti i filosofi che hanno discusso il caso “Amleto”, eleggo, e non solo per preferenze mie personali, Friedrich Nietzsche (1844-1900), il quale all’interno di Die Geburt von Tragödie (1872) mi sembra fornire, per usare le stesse parole di Harold Bloom, “un’esatta descrizione di Amleto, definendolo non l’uomo che pensa troppo ma l’uomo che pensa troppo bene”[7]:  

   “L’estasi dello stato dionisiaco con il suo annientamento delle abituali barriere e confini dell’esistenza comprende infatti, nella sua durata, un elemento letargico in cui s’immerge tutto ciò che è stato vissuto personalmente nel passato. Casi, per questo abisso dell’oblio, il mondo della realtà quotidiana e quello della realtà dionisiaca si distaccano. Non appena però quella realtà quotidiana riaffiora nella coscienza, essa, come tale, viene sentita con nausea; una disposizione ascetica, negatrice della volontà, è il frutto di quegli stati. In questo senso l’uomo dionisiaco è simile ad Amleto: entrambi una volta hanno gettato uno sguardo vero nell’essenza delle cose, hanno conosciuto, e agire li nausea; poiché la loro azione non può cambiare niente nell’essenza eterna delle cose, essi sentono come ridicolo o infame che venga loro richiesto di rimettere in sesto il mondo uscito fuori dai cardini. La conoscenza uccide l’agire, per agire si deve essere avvolti nell’illusione – questa è la dottrina di Amleto, non già quella saggezza a buon mercato di Hans il sognatore che non giunge all’azione per la troppa riflessione, quasi per un eccesso di possibilità. Non è la riflessione, certo! – è la vera conoscenza, è la visione dell’orribile verità, che prevale su ogni motivo incitante all’azione, cosi per Amleto come per l’uomo dionisiaco.”[8]

   La “vera conoscenza”, la “visione dell’orribile verità” sono espressioni di un Nietzsche, all’epoca ammantato della lezione del suo primo Erzieher, del suo primo educatore referenziale, il filosofo di Danzica, Arthur Schopenhauer (1788-1860), che riecheggiano, pur con indubbi già registrati oltrepassamenti estetici e non, gli accenti del famigerato Pessimismus schopenhaueriano, accennato anche da Oscar Wilde (1854-1990) in parallelo al personaggio di Amleto:

  “Schopenhauer ha analizzato il pessimismo che caratterizza il pensiero moderno, ma Amleto lo ha inventato. Il mondo è diventato triste perché un burattino una volta fu malinconico.”[9]

   Amleto, ovvero colui che ha conosciuto, che pensa perché ha saputo pensare, che è quindi disgustato dalla consapevolezza di questo agire-patire, e accoglie il trauma delle rivelazioni dello Spettro-demonio del padre, e con il trauma l’ultimo tassello di una scienza che affonda nelle radici della natura umana, e affonda la stessa umana natura illusa di poter qualcosa tramite l’azione scaturita dall’aver appreso. Difatti, è un ben triste avvio per la sua opera quella che Amleto descrive alla fine del I Atto, nella Scena quinta, quando afferma:

O destino maledetto,

che sia mai nato io per rimetterlo in sesto!”[10]

   Nell’originale in inglese (“O cursed spite,/ That ever I was born to set it right”) tutto il contesto della frase, secondo me, ruota intorno al significato da dare all’avverbio “ever” (che i dizionari usualmente rendono, in un’accezione non avversativa, con i corrispettivi in italiano “mai”, “sempre”, “qualche volta”). Ammetto di non aver apprezzato molto le scelte di illustri traduttori, che nella loro versione italiana hanno in pratica omesso l’avverbio “ever”, aggirando deliberatamente o meno l’ostacolo ermeneutico. Ma senza “ever” a mancare sono esattamente i sensi intensivi, rafforzativi, immani avvertiti da Amleto di un’azione da compiere che si scontra nell’immediato, oserei dire, con la trascendenza.  

   E perciò mi trovo a sposare in pieno la tesi di Carmelo Bene (1937-2002), preannunciata sin dal suo debutto teatrale (nel Caligola rappresentato a Roma al Teatro delle Arti nel 1959), ribadita in altre sue performance alla radio, alla televisione, ed espressa esemplarmente nel suo scritto Lorenzaccio (1986):  

   “Non si può assassinare un bel niente. Tutti i Bruti son bruti minerali in quell’attimo, che non è commendevole, non è esecrabile; perché non è. Dunque questi non è son l’accaduto. Infinito futuro trapassato; mai presente. Non si dà un delinquente. Delinquere è mancare. Delitto è il vuoto del progetto-crimine; la realtà del progetto è la sua vertigine, finalmente impensabile e vuota. Vezzeggiare un progetto è dissuadersene, svogliarlo. Si può azzardare un gesto, non mai compierlo. Ogni azione, per quanto comprensibile, è impensabile, e la Storia è un’ipotesi dell’antefatto, o il dizionario del mai accaduto. Resta il “misfatto”, di che va fiero ogni storicismo: il misconoscimento d’ogni fatto, consegnato dal vuoto all’eresia della storia irreale dell’essere.”[11]

   In fondo il nietzschiano “La conoscenza uccide l’agire, per agire si deve essere avvolti nell’illusione – questa è la dottrina di Amleto” viene recuperato, riformulato da Carmelo Bene, acquistando così nuova linfa, e non solamente nell’ambito dello scritto Lorenzaccio, esso “fomenta” l’assunto beniano della differenza tra “atto” ed “azione”, “quel gesto che nel suo compiersi si disapprova”[12], l’idea che l’atto per tradursi in azione debba sprogettare se stesso, dimenticare cioè le premesse in che consiste. Da qui l’impasse amletico, che, a mio avviso, non concerne di certo l’indecisione del principe danese a commettere il delitto così come Freud e Jones ce l’hanno ammannita (Amleto si troverebbe spiazzato e impossibilitato ad uccidere il re Claudio, perché lo zio avrebbe ormai esaudito il desiderio del figlio ammazzandone il padre). Amleto potrebbe liquidare Claudio nella terza Scena del III Atto, però si impiglia nella sua trappola personale, nella premessa che assume (o simula?) una morale, ovvero l’atto della facoltà del giudizio che stringe nella sua morsa l’azione. È nell’epilogo del V Atto, nella scena del duello con Laerte, che ad Amleto riesce finalmente il colpo, mentre ha già sprogettato se stesso e conseguentemente il suo disegno omicida. Ma l’Amleto del V Atto appare trasfigurato, il reduce tornato dal viaggio che gli doveva essere fatale, attraversato il mare di ulteriori oggettività e soggettività, colui che si abbandona e non è interessato più ad affrettare o a rallentare il tempo, un uomo nei fatti fuori dal tempo: “…noi sfidiamo gli auspici; c’è una speciale provvidenza anche nella caduta di un passero. Se è ora, non è a venire; se non è a venire, sarà ora; se non è ora, pure sarà a venire – essere pronti è tutto. Visto che nessun uomo sa niente di ciò che lascia, che è lasciare per tempo? Che sia”[13].

   Su questa linea interpretativa può risultare proficuo un confronto con le affermazioni di Harold Bloom:  

  “Nell’atto V il protagonista non è divertente né melanconico: essere pronti, cioè disponibili, è tutto. In tal modo, disarmando la critica morale, Shakespeare assolve Amleto dalla strage finale. Le morti di Gertrude, Laerte, Claudio e Amleto sono tutte causate dai «trucchi» di Claudio, a differenza di quelle di Polonio, Ofelia, Rosencrantz e Guildestern. Quelle prime morti possono essere attribuite alla teatralità omicida di Amleto, alla sua singolare combinazione dei ruoli di attore comico e vendicatore. Nemmeno Claudio viene tuttavia ucciso in un gesto di vendetta, ma solo come l’entropia finale dei trucchi escogitati.”[14]

   In definitiva, reputo La tragedia di Amleto, principe di Danimarca un capolavoro letterario al pari della Commedia dantesca, del Don Quijote di Cervantes, del Faust di Goethe, e di altri classici che non conoscono l’usura del tempo, e si sono dati una volta per sempre. Ma dicendo “letterario”, sembrerebbe subordinata o nulla la funzione principale, il teatro, per la quale l’opera è stata in effetti creata. Sgombriamo il campo dagli equivoci: essendo io stato un uomo di teatro, e considerandomi tutt’ora tale, sebbene sia lontano da sette anni dal palcoscenico, devo per forza prendere con le molle certe affermazioni assolute, certi giudizi analitici a priori, che dichiarano il teatro di Shakespeare in generale, il dramma amletico in particolare, irrappresentabile sulle scene moderne e non. Come uomo di teatro, e lo sottolineo, intuisco perfettamente che La tragedia di Amleto, principe di Danimarca avrà nel corso di questi quattro secoli conosciuto senz’altro delle rappresentazioni a dir poco inadeguate (a parte la banalissima constatazione che nessuno è vissuto quattrocento anni di seguito per poter essere presente alla messa in scena del dramma in ogni sua versione, e tanto meno ha potuto assistere a tutte le esibizioni del ’900 nel ruolo di Amleto dei vari Zacconi, Olivier, Gielgud, Ruggeri, Ricci, Benassi, Gassman, Bene, Lavia, Branagh, etc.!), ma questa intuizione non offre né a me, né ad altri alcuna chance di poter affermare anapoditticamente che giammai si è potuto assistere ad una realizzazione se non perfetta almeno perfettibile, congruente con il testo shakespeariano. A chi emette tali giudizi vorrei chiedere allora di individuarmi un’opera teatrale che si può davvero definire  “rappresentabile”. E poi, che cosa si intende con “rappresentabilità” del teatro? Quali sono, quante sono le “rappresentabilità” del teatro? Se è arduo per chi esercita la professione in ambito teatrale stabilire unilateralmente, expressis verbis, questa “rappresentabilità” del teatro, figuriamoci per i non addetti ai lavori (inclusi i critici e i registi teatrali, due categorie di persone che, in tutta franchezza, spesso e volentieri provengono da mal celati desideri artistici repressi)!

   Lo scandalo, semmai, io lo scorgo nell’uso incolto, stereotipato della figura di Amleto, lo scempio della somma, presuntuosa ignoranza che nulla ha a che spartire con chi ha rappresentato, male o bene, il dramma shakespeariano, scempio perpetrato e divenuto poi memoria illetterata dell’immaginario collettivo. E allora, ecco ciò che del povero Amleto passa il convento della cultura popolare: un personaggio smilzo [quando la Regina nel V atto dice, testuali parole, “He’s fat and scant of breath” (È grasso ed è a corto di fiato[15])], in calzamaglia nera, perennemente triste, che recita il suo monologo “Essere o non essere…” con il teschio in mano (facendo così incontrare ad Amleto nella prima Scena del III Atto un oggetto che comparirà invece nella prima Scena del V atto!), e così via con simili sconce amenità.

   Nel mia traduzione del testo ho scelto di attenermi con fedeltà alla versione già citata (Q2 con variazioni da F)[16], cercando di trasfondere in italiano i significati (non potendolo con i significanti!) e pure le suggestioni che la ricchezza, la preziosità del linguaggio shakespeariano sa elargire in modo impareggiabile. Mi sono concesso l’unica libertà di lasciare ai soli personaggi di Amleto e dello Spettro del Re la forma metrica originale, intendendo così creare una cesura simbolica ed espressiva tra gli autentici protagonisti (i due Amleto, padre e figlio) e le rimanenti dramatis personæ.

   Le indicazioni sceniche, che troverete in corsivo nel testo, sono esattamente quelle originali. Non ho aggiunto note a piè di pagina per non interrompere il ritmo dell’agire-patire teatrale e quindi della lettura.

   Mi sono rapportato ovviamente con altre precedenti traduzioni: la libera di impostazione poetica di Eugenio Montale (Mondadori, Milano 1952); quella di Luigi Squarzina con una divisione in atti assai diversa rispetto ad altre, in specie per la distribuzione delle scene (Newton Compton, Roma 1990), che fu rappresentata nel 1952 da Vittorio Gassman e dalla Compagna del Teatro d’Arte Italiano[17]; la ormai classica versione di Giorgio Melchiori (nel primo volume I drammi dialettici, il terzo della serie del Teatro completo di Shakespeare, Mondadori, Milano 1977); la letterariamente attenta al linguaggio contemporaneo di Nemi D’Agostino (Garzanti, Milano 1998). Non nascondo la mia personale preferenza per la versione in italiano di Alessandro Serpieri (Feltrinelli, Milano 1980), che sposa la tradizione con un’attenzione specifica mirata alla resa attoriale. Questa traduzione infatti è stata portata sulle scene nella stagione teatrale 1978-79 dalla Compagnia di Gabriele Lavia e Ottavia Piccolo. 

   Per chi fosse interessato a confrontare varie edizioni in inglese di The Tragedy of Hamlet, Prince of Denmark, suggerisco, oltre al mio riferimento principale citato nella nota 16, l’edizione a cura di John Dover Wilson, collana The New Shakespeare, Cambridge University Press, Cambridge 1934; l’edizione a cura di Tucker Brooke e Jack Randall Crawford, confluita nella nuova edizione rivista da Tucker Brooke, Yale University Press, New Haven 1947 (che è quella seguita soprattutto da Luigi Squarzina); l’edizione a cura di Bernard Lott, collana New Swan Shakespeare, Longman, London 1968; l’edizione a cura di Nigel Alexander, collana The Macmillan Shakespeare, Macmillan, London 1973.

   Per gli amanti di Internet, il sito americano http://www.gutenberg.net offre ben quattro edizioni diverse dell’originale in inglese dell’opera di Shakespeare.

   Termino con un omaggio personale ad un grande artista, proponendo qua, anche per chiudere l’introduzione in allegria, la famosa macchietta Amleto di Ettore Petrolini (1884-1936), nata in collaborazione con Libero Bovio (1883-1942), rappresentata tra il 1912 e il 1914. In questa macchietta Petrolini gioca proprio con i luoghi comuni legati ad Amleto, e l’ascolto di vecchie registrazioni, fortunatamente disponibili, in assenza purtroppo di documenti filmati, ci dà tutta la maestria, nei timbri, nei toni, nel canto, del comico romano, il cui genio rimane tuttora ineguagliato: 

   “Io sono il pallido prence danese, 

che parla solo, che veste a nero. 

Che si diverte nelle contese,

che per diporto va al cimitero.

Se giuoco a carte fo il solitario 

suono ad orecchio tutta la Jone.

Per far qualcosa di ameno e gaio 

col babbo morto fo colazione.

Gustavo Modena, Rossi, Salvini

stanchi di amare la bionda Ofelia

forse sul serio o forse per celia

mi han detto vattene, con Petrolini, dei salamini.

Il gallo canta. Il padre mio ha fatto l’uovo. È là, mi si presenta sotto le spoglie di un fantasma. Ma di ben so fantasma non hai mai preso qualche equivoco in tempo di vita tua? Lo so ti fu inoculato il veleno in un orecchio. Ha il cimiero alzato, grida vendetta, sarai vendicato! sarai vendicato!

Della defunta madre incestuosa,

spesso, fremente, pulso l’avello.

Buongiorno mamma, che fa? Riposa.

Perché la uccisi, prese cappello

Essere o non essere questo è il problema… e pensare che metà dell’umanità ha passato la vita a studiare queste parole. Essere o non essere…

Ed il problema del prima e poi  

studiiioooo, silente, con ogni cura.

Dalla natura venimmo noi.

Niente può farsi contro natura.

Si può essere più afflitti, più lagnosi, più melanconici di Amleto? Poteva essere felice, no! Poteva essere amato, no! Io non ho mai capito che cosa voleva Amleto. Ma che voleva Amleto?

Giuoco a scopone

il mio compagno spariglia i sette.

Compro le scarpe

mi vanno strette.

Se qualche volta in festa io ballo

la mia compagna mi pesta un callo.

Monto in vettura

muore il cavallo.

Vado a Messina

viene il terremoto.

Se compro un sigaro

ci trovo un pelo.

Ma si può essere più disgraziati di Amleto?

Ofelia è là, gioire, amare, sognare sì sognare perché l’amore:

L’amore è facile

non è difficile

si ha da succedere

succederà.”[18]

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PERSONAGGI

CLAUDIO re di Danimarca

AMLETO principe di Danimarca, figlio del defunto re Amleto e nipote di re Claudio

Spettro del re Amleto

POLONIO primo consigliere di Claudio

ORAZIO amico di Amleto

VALTEMAND cortigiano  

CORNELIO cortigiano  

ROSENCRANTZ cortigiano  

GUILDENSTERN cortigiano

OSRIC cortigiano  

LAERTE figlio di Polonio

Un Gentiluomo di corte

MARCELLO ufficiale  

BERNARDO ufficiale  

FRANCISCO soldato

Un prete

RINALDO servo di Polonio

Attori

Due buffoni (un becchino e il suo compagno)

Un capitano norvegese

Ambasciatori inglesi

FORTEBRACCIO principe di Norvegia

Un capitano norvegese

Ambasciatori inglesi

GERTRUDE regina di Danimarca, vedova del re Amleto e madre di Amleto

OFELIA figlia di Polonio

Gentiluomini, dame, ufficiali, soldati, marinai, messaggeri e altri del seguito

SCENA: il castello reale di Elsinore, in Danimarca

ATTO PRIMO

SCENA PRIMA

Entrano Bernardo e Francisco, due sentinelle

BERNARDO:  Chi va là? 

FRANCISCO:  No, rispondimi. Fermati e fatti vedere. 

BERNARDO: Lunga vita al re!

FRANCISCO: Bernardo?

BERNARDO: In persona.

FRANCISCO: Giungi proprio puntuale alla tua ora.

BERNARDO: È mezzanotte suonata, va a letto, Francisco.

FRANCISCO: Non so come ringraziarti per questo cambio. È un freddo terribile e ho il cuore che mi duole.

BERNARDO: Tutto a posto con la tua guardia?

FRANCISCO: Non s’è mosso un topo.

BERNARDO: Va bene, buona notte. Se incontri Orazio e Marcello, i miei compagni di guardia, digli di sbrigarsi.

Entrano Orazio e Marcello

FRANCISCO: Mi sembrano le loro voci. Ehi, fermi! Chi va là?

ORAZIO: Amici di questa landa.

MARCELLO: E servitori del Danese.

FRANCISCO: A voi la buonanotte.

MARCELLO: Salve, valoroso soldato. Chi ti ha dato il cambio?

FRANCISCO: Bernardo. Di nuovo, buonanotte. (Esce)

MARCELLO: Ehilà, Bernardo.

BERNARDO: Dì, e Orazio?

ORAZIO: Un pezzo di lui.

BERNARDO: Benvenuto Orazio, benvenuto buon Marcello.

MARCELLO: E la cosa? È apparsa di nuovo stanotte?

BERNARDO: Io non ho visto niente.

MARCELLO: Orazio dice che è un parto della nostra fantasia, e non vuole credere a quell’orribile apparizione che abbiamo visto due volte. Così l’ho supplicato di venire a trascorrere con noi questa notte, che, se venisse di nuovo questa apparizione, lui potrebbe dar retta ai nostri occhi e parlarle.  

ORAZIO: Macché, non apparirà!

BERNARDO: Siediti un po’, e facci dare l’assalto alle tue orecchie fortificate contro il nostro racconto con ciò che abbiamo visto per due notti. 

ORAZIO : Bene, sediamoci, e sentiamo la storia di Bernardo.

BERNARDO: L’ultima notte, quando quella stessa stella laggiù a ovest del polo aveva fatto il suo corso fino a illuminare quella parte del cielo dove ora risplende, Marcello e io stesso, mentre la campana batteva l’una…

Entra lo Spettro

MARCELLO: Zitto! Fermati. Guardate, viene di nuovo.

BERNARDO: Con lo stesso aspetto del re che è morto.

MARCELLO: Tu che sei letterato, parlagli, Orazio.

BERNARDO: Guardate, non sembra il re? Osservalo, Orazio.

ORAZIO: È uguale, mi riempie di paura e stupore.

BERNARDO: Vuole che gli si parli.

MARCELLO: Domandagli qualcosa, Orazio

ORAZIO: Chi sei tu che usurpi quest’ora della notte, assieme alla bella forma guerriera con cui marciava talvolta la maestà del sepolto re di Danimarca? Per il cielo, parla, te l’ordino!

MARCELLO: S’è offeso.

BERNARDO: Guardate, se ne va con aria severa.

ORAZIO: Resta! Parla, parla, te l’ordino, parla!

Esce lo Spettro

MARCELLO: È sparito, non gli va di rispondere.

BERNARDO: E dunque, Orazio? Tremi e sei sbiancato. Era fantasia questo qualcosa? Che ne pensi?

ORAZIO: Davanti a Dio, non potrei credere a questo senza la garanzia sensibile e vera dei miei propri occhi.

MARCELLO: Non sembra il re?

ORAZIO: Come tu te stesso. Quella era l’armatura che aveva indosso quando combatté l’ambizioso re di Norvegia; così aggrottò le ciglia una volta quando, in un abboccamento furioso, rovesciò quei polacchi dalle slitte sul ghiaccio. È strano.

MARCELLO: Proprio così due volte, in quest’ora morta, con passo marziale è passato davanti alla nostra guardia.

ORAZIO: Non so che pensare; ma, a mio modesto avviso, questo presagisce qualche strana eruzione nel nostro stato.

MARCELLO: E bene, sediamoci ora, e mi dica, chi lo sa, perché questa guardia stretta e ossessiva affligge così ogni notte i sudditi del paese, e perché di giorno si fondono i cannoni di bronzo e questo commercio con l’estero per forniture di guerra, perché l’arruolamento forzato di carpentieri, che lavorano in condizioni da non distinguere più la domenica dalla settimana, a che pro tutto questo sudore, tutta questa fretta, da far lavorare la notte di fianco al giorno, chi è che mi può informare?

ORAZIO:  Io posso. Almeno così si sussurra; il nostro re scomparso, la cui immagine ci è apparsa proprio adesso, fu, come sapete, da Fortebraccio di Norvegia, a ciò punto da un orgoglio di grande rivalsa, sfidato a combattere; in quel combattimento il nostro valoroso Amleto – che così lo stimava questa parte del nostro mondo conosciuto – ammazzò questo Fortebraccio, il quale, in virtù di un patto sigillato e ben ratificato dalla legge e dall’araldica, cedette, con la sua vita, tutte le terre che aveva ottenuto come bottino del vincitore. Di contro una parte equivalente di territorio fu messa in pegno dal nostro re e assegnata in eredità a Fortebraccio, se lui fosse risultato vincitore; così come in base allo stesso patto e conferimento dell’articolo designato, la sua spettò ad Amleto. Ora, il giovane Fortebraccio, pieno di metallo incandescente non temperato, ha ingurgitato in ogni dove ai confini della Norvegia una manica di banditi matricolati come cibo e dieta per qualche impresa che richiede stomaco; la quale altro non è che, come appare chiaro al nostro stato, strapparci, con un colpo di mano e senza condizioni, quelle terre suddette perdute da suo padre; e questo, ritengo, è la causa prima dei nostri preparativi, il motivo di questa nostra guardia e il principale pretesto della furia e del subbuglio nel paese.  

BERNARDO: Credo sia proprio così. Ed è ben chiaro che questa figura soprannaturale armata di tutto punto attraversi la nostra guardia, così simile al re che fu ed è la questione di queste guerre.

ORAZIO:  È una pagliuzza che infastidisce l’occhio della mente. Nel periodo aureo e più glorioso di Roma, poco prima che il potentissimo Giulio cadesse, i sepolcri si svuotarono, e i morti nei sudari squittivano e guaivano per le strade romane; come pure astri con code infuocate e rugiade insanguinate, disastri nel sole; e l’umida stella, sotto la cui influenza si regge l’impero di Nettuno, per un’eclissi s’ammalò quasi fino al giorno del Giudizio Universale. E proprio lo stesso presagio di eventi terribili, come messaggeri che precedono tuttora i fati, e prologo della profezia che avanza, cielo e terra insieme hanno mostrato alla nostra atmosfera e ai nostri cittadini.

Entra lo Spettro

Ma piano, osservate! Eccolo di nuovo. Gli taglierò la strada, a costo di restarci secco. Fermati, illusione, se hai un suono o l’uso della voce, parlami. Se c’è qualcosa di buono da fare che possa recar vantaggio a te, e a me la grazia, parlami. Se sei al corrente del segreto del destino del tuo paese e puoi evitarlo con la tua prescienza, oh parla. O se hai ammassato nella tua vita tesori estorti nel grembo della terra, per cui dicono che voi spiriti spesso vagate nella morte, (Un gallo canta), parlacene; resta e parla. Fermalo, Marcello.

MARCELLO: Lo devo colpire con la mia partigiana?

ORAZIO:  Sì, se non si ferma.

BERNARDO: È qui!

ORAZIO:  È qui!

MARCELLO: Se n’è andato. (Lo Spettro esce) Gli facciamo un torto, essendo così maestoso, a offrirgli lo spettacolo della violenza; perché è come l’aria invulnerabile e i nostri vani colpi non sono che un malizioso scherno.

BERNARDO: Stava per parlare quando il gallo ha cantato.

ORAZIO: E allora s’è drizzato come una cosa colpevole a una terrificante intimazione. Ho sentito che il gallo, che è la squilla del mattino, con la sua alta e acuta gola sveglia il dio del giorno, e al suo monito, sia nel mare o nel fuoco, nella terra o nell’aria, lo stravagante ed errante spirito s’affretta al suo confine; e questo presente oggetto ha dato prova di tale verità.

MARCELLO: È svanito al canto del gallo. Qualcuno dice che sempre al sopraggiungere della stagione in cui la nascita del nostro Salvatore è celebrata, questo uccello dell’aurora canta per tutta la notte, e allora, dicono, che nessun spirito osa uscire fuori; le notti sono integre, e allora non colpiscono i pianeti, le fate non ammaliano, né le streghe hanno il potere di sedurre, così consacrato e pieno di grazia è quel tempo.

ORAZIO:  L’ho sentito anch’io e in parte ci credo. Ma guardate il mattino ricoperto nel suo manto color ruggine, passeggia sulla rugiada di quell’alta collina a oriente. Smontiamo la guardia, e, secondo il mio avviso, informiamo il giovane Amleto di ciò che abbiamo visto stanotte; perché, sulla mia vita, questo spirito, muto con noi, parlerà a lui. Siete d’accordo ad avvisarlo, come richiedono il nostro e il nostro dovere?

MARCELLO: Facciamolo, ve ne prego; e io so dove possiamo incontrarlo appropriatamente  stamattina. (Escono)



[1] James Joyce, Ulysses, traduzione italiana di Giulio de Angelis, Ulisse, Mondadori, Milano 1960, p. 205.

[2] Harold Bloom, Shakespeare: the Invention of the Human, traduzione italiana di Roberta Zuppet, Shakespeare L’invenzione dell’uomo, RCS, Milano 2001, pp. 269 e 301.

[3] Ernest Jones, Amleto e Edipo, Il Formichiere, Milano 1975.

[4] Amleto, Atto III, Scena I.

[5] Georg Brandes, William Shakespeare, Parigi 1896.

[6] Sigmund Freud, Die Traumdeutung, traduzione italiana di Elvio Fachinelli, Helma Trettl, L’interpretazione dei sogni, Boringhieri, Milano 1973, pp. 250-251.

[7] Harold Bloom, Shakespeare: the Invention of the Human, traduzione italiana di Roberta Zuppet, Shakespeare L’invenzione dell’uomo, RCS, Milano 2001, p. 278.

[8] Friedrich Nietzsche, Die Geburt von Tragödie, Oder: Griechentum und Pessimismus, traduzione italiana di Ferruccio Masini, La nascita della tragedia ovvero Grecità e pessimismo, Newton Compton, Roma 1980, p. 60.

[9] Oscar Wilde, The Decay of Lying – An observation, traduzione italiana di Marco Vignolo Gargini, La decadenza della menzogna Un’osservazione, www.romanzieri.com, 2002, p.26.

[10] William Shakespeare, The Tragedy of Hamlet, Prince of Denmark, traduzione italiana di Marco Vignolo Gargini, La tragedia di Amleto, principe di Danimarca, www.romanzieri.com, 2002, p.55.

[11] Carmelo Bene, Lorenzaccio, in Opere, Bompiani, Milano 1995, p. 10.

[12] Op. cit., p. 9.

[13] William Shakespeare, The Tragedy of Hamlet, Prince of Denmark, traduzione italiana di Marco Vignolo Gargini, La tragedia di Amleto, principe di Danimarca, Atto V, Scena seconda, www.romanzieri.com, 2002, p.179.

[14] Harold Bloom, Shakespeare: the Invention of the Human, traduzione italiana di Roberta Zuppet, Shakespeare L’invenzione dell’uomo, RCS, Milano 2001, p. 299

[15] William Shakespeare, The Tragedy of Hamlet, Prince of Denmark, traduzione italiana di Marco Vignolo Gargini, La tragedia di Amleto, principe di Danimarca, Atto V, Scena seconda, www.romanzieri.com, 2002, p.189.

[16] Il mio riferimento principale è quello dell’edizione a cura di J. H. Walter, collana The Players’ Shakespeare, Heinemann, London 1972. 

[17] Questa fu la prima edizione italiana televisiva di La tragedia di Amleto, principe di Danimarca, girata all’interno degli studi di Torino nel 1953 per i programmi sperimentali della RAI..

[18] Ettore Petrolini, Il teatro, Newton Compton, Roma 1993, pp. 35-36.



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