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William Shakespeare, “La Tragedia di Amleto, Principe di Danimarca” V

Creato il 07 maggio 2013 da Marvigar4

Amleto Vignolo Gargini

William Shakespeare

LA TRAGEDIA DI AMLETO, PRINCIPE DI DANIMARCA

Titolo originale The Tragedy of Hamlet, Prince of Denmark

Traduzione di Marco Vignolo Gargini

ATTO SECONDO

Squillo di trombe. Entrano il Re, la Regina, Rosencrantz, Guildenstern, e altri

RE: Benvenuti, cari Rosencrantz e Guildenstern. Oltre al fatto che desideravamo moltissimo rivedervi, il bisogno che abbiamo di riccorrer a voi ha provocato la nostra impellente chiamata. Qualcosa avete sentito della trasformazione di Amleto; cosiddetta poiché né l’uomo esteriore né l’interiore somigliano a quello che era. Che cosa possa essere, più che la morte del padre, che gli abbia a tal punto fatto perdere la coscienza di se stesso, non riesco a sognarlo. Vi prego ambedue, che dai primi anni siete stati allevati con lui, e poi così vicini alla sua giovinezza e al suo modo di vivere, di accordare a fermarvi qui alla nostra corte un po’ di tempo, così, grazie alla vostra compagnia, da indurlo ai piaceri, e a ottenere quanto avrete occasione di spigolare, se c’è qualcosa a noi sconosciuta che l’affligge così che, conosciuta, possiamo trovarvi rimedio.

REGINA: Miei buoni signori, egli ha parlato molto di voi, e sono certa che non esistono al mondo due uomini ai quali sia più legato. Se vorrete mostrarci tanta cortesia e buona volontà da spendere un po’ del vostro tempo con noi, a supporto e profitto della nostra speranza, la vostra visita riceverà tali ringraziamenti degni della memoria d’un re.

ROSENCRANTZ: Le vostre due maestà potrebbero, per il sovrano potere che detengono su di noi, porci i vostri riveriti desideri più come ordini che come preghiere.

GUILDENSTERN: Ma noi due obbediamo, e qui consegniamo noi stessi, con la massima dedizione, ponendo i nostri servigi liberamente ai vostri piedi perché siano ingiunti.

RE: Grazie Rosencrantz e gentile Guildenstern.

REGINA: Grazie Guildenstern e gentile Rosencrantz. E, vi prego, andate a trovare subito il mio figlio troppo mutato. Andate, qualcuno di voi accompagni questi gentiluomini da Amleto.

GUILDENSTERN: Il cielo voglia che la nostra presenza e il nostro servizio gli siamo piacevoli e utili.

REGINA: Sì, amen.

(Escono Rosencrantz e Guildenstern)  

Entra Polonio.

POLONIO: Gli ambasciatori dalla Norvegia, mio buon signore sono tornati felicemente.

RE: Sei sempre stato il padre delle buone nuove.

POLONIO: Davvero, mio signore? Vi assicuro, mio buon sovrano, io curo il mio dovere come curo la mia anima, sia per il mio Dio che per il mio grazioso re. E a dire il vero, penso – o se no questo mio cervello non fiuta più le orme della politica con quella tal certezza che solevo avere -  di aver scoperto la vera causa della pazzia di Amleto.

RE: Oh, parla di questo, che non vedo l’ora di sentire.

POLONIO: Prima date udienza agli ambasciatori; La mia notizia sarà la frutta di questo gran banchetto.

RE: Fa’ tu gli onori, e falli entrare. 

(Esce Polonio)

Egli mi dice, mia cara Gertrude, che ha scoperto l’origine e la causa di tutte le stramberie di tuo figlio.

REGINA: Temo che sia una sola, la principale, la morte di suo padre, e il nostro matrimonio troppo frettoloso.

RE: Bene, lo vaglieremo.

Entra Polonio con Valtemand e Cornelio

Benvenuti, miei buoni amici. Di’ allora, Valtemand, che notizie dal nostro fratello di Norvegia?

VOLTEMAND: Il più sincero ricambio di omaggi e auguri. Non appena lo informammo, ordinò di porre fine alle leve del nipote, che gli erano sembrate dei preparativi contro i polacchi; ma che, a un esame più attento, egli le riconobbe in verità rivolte contro vostra altezza; e allora, amareggiato perché il suo male, l’età, gli impedimenti fossero così frodati, ordina di fermare Fortebraccio; il quale immediatamente obbedisce, riceve la paternale dal re di Norvegia, e infine giura davanti a suo zio di non scendere mai più armato contro vostra maestà. E quindi il vecchio Norvegia, pieno di gioia, gli dà un appannaggio annuo di tremila corone, e il suo permesso di impiegare i soldati reclutati, come detto prima, contro i polacchi, con una supplica, spiegata inoltre qui dentro, (Porge un foglio) affinché possiate concedergli libero passo sui vostri territori per questa impresa, con garanzie di sicurezza e autorizzazione che sono qui indicate.

RE: Ciò ci aggrada; e non appena avremo il tempo di considerare, noi leggeremo, risponderemo, e penseremo a questo affare. Intanto, vi ringraziamo per la vostra fatica a buon fine così giunta. Andate a riposarvi, stanotte festeggeremo assieme. Ben tornati in patria.

(Escono Voltemand e Cornelio)

POLONIO: Questo affare si è ben concluso. Mio sovrano, e signora, elucubrare su che cosa dovrebbe essere la maestà, su cosa è il dovere, perché il giorno è giorno, la notte notte, e il tempo tempo, sarebbe soltanto perdere la notte, il giorno e il tempo. Pertanto poiché la brevità è l’anima dell’ingegno, e il tedio le membra e gli esterni ammennicoli, sarò breve: il vostro nobile figlio è folle. Folle lo chiamo, perché, per definire la vera follia, che cos’è se non essere nient’altro che folle? Ma tiriamo avanti.

REGINA: Più sostanza e meno arte.

POLONIO: Signora, giuro che non v’è nessuna arte da parte mia. Che egli sia folle è vero; e vero è che è un peccato, ed è peccato che sia vero – una figura retorica assurda, ma la saluto, perché non userò dell’arte. Ammettiamo allora che lui sia folle, e ora non ci rimane che scoprire la causa di questo effetto, o diciamo piuttosto, la causa di questo difetto, poiché quest’effetto difettivo proviene da una causa. Questo è quanto. Ponderate; io ho una figlia – l’ho finché è mia – che nell’osservanza del suo dovere e della sua obbedienza, fate attenzione, mi ha dato questa. Adesso ascoltate e congetturate.

(Legge la lettera)  

Alla celestiale e idolo dell’anima mia, la molto abbellita Ofelia” – è una brutta frase, una frase volgare, “abbellita” è un’espressione volgare, ma sentirete. Ecco: “Nel suo eccellente candido seno, questi, et cœtera.” 

REGINA: Questa è scritta da Amleto per lei?

POLONIO: Buona signora un po’ di pazienza; sarò fedele.  

Dubita che di fuoco sian le stelle,

dubita che si muova il sole,

dubita che la verità sia menzognera

ma giammai non dubitare del mio amore.

O cara Ofelia, non sono un buon verseggiatore, mi manca

l’arte di scandire i gemiti; ma che io ti ami più di ogni cosa, oh

molto più di ogni cosa, credilo. Addio.

Il tuo per sempre, carissima signora, finché

questa macchina corporale è,

Amleto.

Questa, per obbedienza, mia figlia mi ha mostrato, e in più, le sue sollecitazioni, come si sono succedute nel tempo, nelle maniere, e nei posti, me le ha confidate tutte al mio orecchio.

RE: Ma lei come l’ha accolto il suo amore?

POLONIO: Cosa pensate di me?

RE: Che sei un uomo fedele e onesto. 

POLONIO: E vorrei dimostrarmi tale. Ma che cosa avreste pensato voi, quando io ebbi visto quest’amore ardente spiccare il volo, poiché me ne accorsi, devo proprio dirvelo, prima che mia figlia me lo dicesse, cosa avreste pensato voi, o la mia cara maestà vostra regina, se avessi fatto la parte della scrivania, o del taccuino, o fatto ammiccare il mio cuore, muto e sordo, oppure riguardato quest’amore con sguardo svagato; che avreste pensato voi? No, io mi misi subito al lavoro, e alla mia giovane signorina così parlai: “Il Signor Amleto è un principe fuori dalla tua sfera; questo non deve essere.” Poi le ordinai prescrizioni di rinchiudersi alle sue visite, di non ricevere suoi messaggi. o accettare doni. Al che, lei colse i frutti del mio suggerimento; e lui, respinto, per tagliarla corta, cadde in una tristezza, poi in un’inedia, poi in un’insonnia, poi in una debolezza, poi in un farnetico, e così declinando nella follia in cui adesso egli inveisce e che noi tutti commiseriamo.

RE: Pensi che sia questo?

REGINA: Può essere, molto verosimile.

POLONIO: C’è stata mai una volta – gradirei saper questo – che io abbia detto in modo risoluto: “È così,” e poi sia risultato altrimenti?

RE: Non ch’io sappia.

POLONIO (Indica la propria testa e le spalle): Spiccate questa da queste, se è altrimenti. Se le circostanze mi danno una mano, io scoprirò dove s’imbosca la verità, anche se si nasconde giù al centro della terra.

RE: Ma come possiamo esserne più certi?

POLONIO: Voi sapete che a volte egli passeggia per quattr’ore di fila qui nella galleria.  

REGINA: Sì, lui fa così davvero.

POLONIO: In circostanze analoghe, io gli sguinzaglio mia figlia. Allora voi e io ci nascondiamo dietro uno degli arazzi; e osserviamo l’incontro; se lui non l’ama, e non ha perso la ragione per questo, che io non sia più ministro di stato, ma faccia il fattore, a governare i carrettieri.

RE: Faremo questa esperimento.

Entra Amleto

REGINA: Ma guardate con quale tristezza il povero infelice viene leggendo!

POLONIO: Andate, vi prego andate via ambedue. Lo abborderò subito. Oh  concedetemelo!

(Escono il re e la regina e gli attendenti)

Come sta il mio buon signore Amleto?

AMLETO: Bene, grazie a Dio.

POLONIO: Mi riconoscete, mio signore?

AMLETO: Eccellentemente bene. Siete un pescivendolo.  

POLONIO: Io no, mio signore.

AMLETO: Allora vorrei che foste un uomo altrettanto onesto.

POLONIO: Onesto, mio signore?

AMLETO: Sì, signore, essere onesti, coi tempi che corrono, vuol dire essere uno su diecimila.

POLONIO: Questo è verissimo, mio signore.

AMLETO: Perché se il sole genera vermi in un cane morto, che è una buona carogna da baciare – avete una figlia?  

POLONIO: Ce l’ho, mio signore.

AMLETO: Non fatela passeggiare sotto il sole. Concepire è una benedizione, ma come vostra figlia potrebbe concepire – amico fateci attenzione.

POLONIO Che volete dire con ciò? (a parte) Arpeggia sempre su mia figlia. Eppure non m’ha riconosciuto a prima vista, ha detto che ero un pescivendolo: è proprio partito, partito, e a dire il vero quand’ero giovane anch’io soffrii molto per amore, quasi fino a questo punto. Gli parlerò ancora. Che cosa state leggendo, mio signore?

AMLETO: Parole, parole, parole.

POLONIO: Qual è l’argomento, monsignore? 

AMLETO: Tra chi?

POLONIO: Voglio dire, l’argomento che leggete, mio signore.

AMLETO: Infamie, signore, perché questo briccone satirico qui sostiene che i vecchi hanno barbe grige, che le loro facce sono grinzose, che i loro occhi spurgano ambra densa e gomma di susino, e che hanno una gran deficienza di senno assieme a natiche molto deboli; tutte cose, signore, che quantunque anch’io le creda possentemente e potentemente, ma non mi pare onesto metterle giù in questo modo; perché voi stesso, signore, invecchiereste come lo sono io, se, come un gambero poteste camminare indietro.  

POLONIO: (A parte): Sarà pazzia, eppure c’è del metodo in essa. Volete mettervi a riparo dall’aria, mio signore?

AMLETO: Nella mia tomba?

POLONIO: Certamente quella è al riparo dall’aria, (A parte) Come sono pregnanti a volte le sue risposte; una felicità che tocca spesso alla follia, e che la ragione né la salute potrebbero avere dei parti così prosperi. Ora lo lascerò, e subito cerco di farlo incontrare con mia figlia – mio onorato signore, prendo molto umilmente congedo da voi.

AMLETO: Non potreste, signore, prendermi cosa da cui mi stacchi più volentieri – eccetto la mia vita, eccetto la mia vita, eccetto la mia vita.

POLONIO: La riverisco, mio signore.

AMLETO: Questi noiosi vecchi idioti.

Entrano Rosencrantz e Guildenstern

POLONIO: Cercate il principe Amleto? Eccolo lì.

ROSENCRANTZ (A Polonio) Dio vi salvi, signore.

(Polonio esce)

GUILDENSTERN: Mio onorato signore!

ROSENCRANTZ: Mio dilettissimo signore!

AMLETO: Miei eccellenti buoni amici! Come va, Guildenstern? Ah, Rosencrantz. Come ve la passate tutt’e due, bravi ragazzi?

ROSENCRANTZ: Come ai comuni mortali.

GUILDENSTERN: Felici di non essere troppo felici; sul cappello della Fortuna non siamo proprio la punta.

AMLETO: Neppure le suole delle sue scarpe? 

ROSENCRANTZ: Neppure, mio signore.

AMLETO: Allora abitate nella zona della sua vita, o in mezzo ai suoi favori? 

GUILDENSTERN: In fede, siamo in intimità.

AMLETO: Nelle intimità della Fortuna? Oh, proprio vero, è una puttana. E quali novità? 

ROSENCRANTZ: Nessuna, mio signore, a parte il fatto che il mondo è diventato onesto.

AMLETO: Allora il giorno del giudizio è prossimo – ma la vostra notizia è falsa. Permettetemi una domanda più precisa. Che cosa, miei buoni amici, vi siete meritati dalle mani della Fortuna,  che vi manda qui in questa galera?

GUILDENSTERN: Galera, mio signore?

AMLETO: La Danimarca è una galera.

ROSENCRANTZ: Allora lo è il mondo. 

AMLETO: Una gran bella galera, con tante celle, bracci e segrete. E la Danimarca è una delle peggiori. 

ROSENCRANTZ: Noi non la pensiamo così, mio signore.

AMLETO: Ma allora per voi non lo sarà; perché non esiste nulla di buono o di cattivo se il pensiero non lo rende tale. Per me è una galera.  

ROSENCRANTZ: Ma sarà la vostra ambizione a renderla tale: è troppo stretta per la vostra mente.

AMLETO: Oh Dio, io potrei essere segregato in un guscio di noce e credermi re di uno spazio infinito, se non fosse che ho dei brutti sogni.

GUILDENSTERN: I quali sogni, certamente, sono l?ambizione: poiché la sostanza stessa dell’ambizioso è meramente l’ombra d’un sogno 

AMLETO: Il sogno stesso non è che un’ombra.

ROSENCRANTZ: Esatto, e io reputo l’ambizione di qualità così aerea e leggera,  che è solo l’ombra di un’ombra.

AMLETO: Allora i nostri mendichi sono dei corpi, e i nostri monarchi o eroi protesi sono l’ombra dei mendichi. Vogliamo andare a corte? Perché, in fede mia, non riesco a connettere.  

ROSENCRANTZ e GUILDENSTERN: Siamo al vostro servizio.

AMLETO: Ma non così! Non vi metterò con gli altri miei servitori; perché per dirvelo da uomo onesto, sono orribilmente in stretta sorveglianza. Ma, battendo il sentiero dell’amicizia, che cosa ci fate a Elsinore?

ROSENCRANTZ: Per farvi visita, mio signore, nient’altro. 

AMLETO: Pezzente che sono, sono persino povero di ringraziamenti, ma vi ringrazio; e certo, cari amici, i miei ringraziamenti non costano un centesimo. Non vi hanno mandati a chiamare? L’idea è stata vostra? È una visita spontanea? Su, su, siate sinceri con me. Su, su, parlate. 

GUILDENSTERN: Che dovremmo dire, mio signore?  

AMLETO: Beh, tutto tranne lo scopo. Vi hanno mandati a chiamare, e c’è una sorta di confessione nei vostri sguardi che il vostro pudore non ha abbastanza forza per truccare. Io lo so che il buon re e la regina vi hanno mandati a chiamare.

ROSENCRANTZ: A che pro, monsignore?

AMLETO: Questo dovete dimostrarmelo voi. Ma vi scongiuro per la nostra amicizia, per la consonanza della nostra giovinezza, per l’obbligo del nostro affetto costante, e per cose anche più care che potrebbe rifilarvi un imbonitore più abile, siate franchi e diretti con me, vi hanno mandati a chiamare sì o no?  

ROSENCRANTZ (A parte a Guildenstern): Che dici tu?

AMLETO (A parte): Sì dunque, vi tengo d’occhio. (Ad alta voce) Se mi amate, non prendete tempo.

GUILDENSTERN: Mio signore, ci hanno mandati a chiamare AMLETO: Vi dirò io perché; così la mia anticipazione preverrà la vostra confessione, e il vostro impegno di segretezza col re e la regina non perderà una penna. Ultimamente, ma non so perché, ho smarrito tutto il mio buonumore, ho tralasciato ogni esercizio; e invero sono d’umore così opprimente, che questo edificio ben fatto, la terra, mi sembra un promontorio sterile, questa straordinaria volta l’aria, guardate, quel firmamento stupendo lassù, questo tetto maestoso trapunto di fuochi dorati, a me non pare altro che una lurida e pestifera congregazione di vapori. Che opera d’arte è l’uomo, quanto nobile nella sua ragione, quanto infinito nelle sue facoltà, nella forma e nel movimento, quanto preciso e ammirevole nell’agire, quanto somiglia a un angelo nella percezione, quanto somiglia a un dio: la beltà del mondo, il paragone degli animali. Eppure, per me, cos’è questa quintessenza di polvere? L’uomo non mi piace; no e nemmeno la donna, anche se sembrate dirlo con i vostri sorrisi.

ROSENCRANTZ: Mio signore, non c’era niente di simile nei miei pensieri.

AMLETO: Perché allora hai sorriso quando ho detto “l’uomo non mi piace”? 

ROSENCRANTZ: A pensare, mio signore, che se gli uomini non vi dilettano, che intrattenimento quaresimale gli attori troveranno qui da voi. Li abbiamo sorpassati per strada, che erano diretti qui a offrirvi i loro servizi. 

AMLETO: Quello che recita nella parte del re sarà il benvenuto – la sua maestà avrà il mio tributo; il cavaliere d’avventura userà stocco e scudo; l’amante non sospirerà per niente; il comico finirà la sua parte in pace; il buffone farà ridere quelli con i polmoni dal grilletto facile; e la primadonna dirà ciò che pensa liberamente – o ne soffrirà il verso sciolto. Chi attori sono questi?  

ROSENCRANTZ: Proprio quelli che vi piacevano tanto, i tragici della città. 

AMLETO: Come mai si sono messi a viaggiare? Per loro era meglio starsene fermi, sia per il prestigio che per il profitto.

ROSENCRANTZ: Credo che la loro interdizione provenga dall’ultima innovazione. 

AMLETO: Godono dello stesso apprezzamento che avevano quando io ero in città? Sono sempre così seguiti? 

ROSENCRANTZ: No, veramente, no.

AMLETO: Come mai? Si sono arrugginiti?

ROSENCRANTZ: No, il loro impegno è sempre il medesimo; ma c’è, mio signore, una nidiata di ragazzini, piccoli falchetti che strillano e per questo sono applauditi clamorosamente. Sono loro la moda, adesso, e così screditano i teatri comuni – così li chiamano – che molti gentiluomini che portano spada hanno paura delle penne d’oca e non osano più andarci.  

AMLETO: Che, sono ragazzini? E chi è che li mantiene? Come sono pagati? Continueranno il mestiere anche quando non avranno più la voce per cantare? E dopo, se loro stessi diventeranno attori comuni – com’è molto probabile se non hanno altri mezzi – non diranno che i loro autori gli fanno torto a farli inveire contro il loro stesso avvenire? 

ROSENCRANTZ: In fede, s’è rumoreggiato tanto da tutt’e due le parti, e la nazione non si fa scrupolo ad aizzarli alla contesa. Per un bel po’ non è stato dato un soldo per un copione, se il poeta e l’attore non facevano a botte nella questione.

AMLETO: Possibile?

GUILDENSTERN: Oh c’è stato un gran bisticcio di cervelli!

AMLETO: E i ragazzini la spuntano?

ROSENCRANTZ: Sì, la spuntano mio signore, anche su Ercole col suo carico.

AMLETO: Non è molto strano, perché ora mio zio è re di Danimarca, e quelli che gli facevano le smorfie quando mio padre viveva, ora pagano venti, quaranta, cinquanta, cento ducati per un suo ritratto in miniatura. Per Dio, c’è qualcosa in tutto questo più che normale, se la filosofia potesse scoprirlo. 

(Squilli di tromba dentro)

GUILDENSTERN: Ecco gli attori.

AMLETO: Gentiluomini, voi siete i benvenuti a Elsinore. Qua la mano. Venite dunque, sono appannaggio del benvenuto i complimenti e le cerimonie; allora lasciate che mi comporti con voi con questo garbo, poiché la mia accoglienza agli attori, e che ve lo dico deve far bella mostra di sé, potrebbe apparire migliore di quella che faccio a voi. Voi siete i  benvenuti; però il mio babbo-zio e la mia mamma-zia si illudono.  

GUILDENSTERN: In che cosa, mio caro signore?

AMLETO: Io sono pazzo da nord-nord-ovest; quando il vento soffia da sud, io distinguo un falco da una sega.

Entra Polonio

POLONIO: Salute a voi, gentiluomini!

AMLETO: Ascoltami Guildenstern, e anche tu, un orecchio per ciascuno – quel gran bamboccione che vedete lì non è ancora uscito dalle fasce.

ROSENCRANTZ: C’è rientrato dentro per la seconda volta, perché si dice che un vecchio è due volte un bambino.

AMLETO: Vi profetizzerò, che viene a dirmi degli attori, vedrete. (Ad alta voce)  Avete ragione, signore, fu davvero un lunedì mattina. 

POLONIO: Mio signore, ho notizie per voi.

AMLETO: Mio signore, ho notizie per voi. Quando Roscio era un attore in Roma…

POLONIO: Sono arrivati gli attori, mio signore.

AMLETO: Ah sì?

POLONIO: Sul mio onore.

AMLETO: Allora venne ogni attore sul suo asino – 

POLONIO: I migliori attori del mondo, per la tragedia, la commedia, il dramma storico, il pastorale, il comico-pastorale, lo storico-pastorale, il tragico-storico, il tragico-comico-storico-pastorale, scena fissa o il poema illimitato. Seneca non può essere troppo pesante, né Plauto troppo leggero per essi. Per le rappresentazioni canoniche e le improvvisazioni, sono gli unici. 

AMLETO: O Jefte, giudice d’Israele, che tesoro avevi tu!

POLONIO: Che tesoro aveva, mio signore?

AMLETO: Dunque,  “Una bella figlia, una sola, che egli amava tanto.”

POLONIO (A parte) Ancora su mia figlia.

AMLETO: Non ho ragione vecchio, Jefte?

POLONIO: Se mi chiamate Jefte, mio signore, io ho una figlia che amo tanto.

AMLETO: No, non continua così. 

POLONIO: E come continua, mio signore?

AMLETO: Dunque “E per caso, Iddio lo sa,” e poi lo sapete, “Così avvenne, com’era da attendersi” la prima stanza della pia canzone vi dirà di più, perché guardate chi viene raccorciarmi.

Entrano gli Attori

Benvenuti, maestri, benvenuti tutti. Sono felice di trovarvi bene. Benvenuti, amici cari. Oh, vecchio mio, ma sulla tua faccia da quando ti vidi l’ultima volta è sceso un drappo! Non sarai venuto in Danimarca per sfidarmi? Cosa? mia giovane signora e padrona; per Nostra Signora, vossignoria è più prossima al cielo da quando vi vidi l’ultima volta per l’altezza d’un tacco. Prego Dio che la vostra voce come una moneta fuoricorso non stecchi nella corona. Maestri, siete tutti benvenuti! Faremo come i falconieri francesi, spareremo a vista. Avremo subito una tirata. Su, dateci un assaggio del vostro talento; avanti una tirata appassionata.

PRIMO ATTORE: Che tirata, mio signore?

AMLETO: Ti sentii una volta recitarmi una parte, ma che non fu mai messa in scena, o se lo fu, non più d’una volta, perché rammento che il dramma non piacque al popolo, era caviale per la massa; ma era, secondo me e secondo altri, il cui giudizio in tali argomenti valeva del mio, una rappresentazione eccellente, ben distribuita nelle scene, allestita con oculatezza pari alla finezza. Ricordo che uno disse che i versi non c’era quel pepe per rendere la materia saporita, e non c’era sostanza nello stile che potesse accusare l’autore di affettazione, ma questo lo definì un metodo onesto, tanto sano quanto dolce, e senz’altro più bello che raffinato. Un passo mi piacque alla follia, era il racconto di Enea a Didone, e specialmente dove lui parla dell’uccisione di Priamo. Se te lo rammenti, comincia da questo verso – vediamo, vediamo – “Pirro il rude, come belva ircana” – non è così, comincia con Pirro –

Pirro il rude, dalla corazza oscura,

nera come lo scopo suo, alla notte assembrata,

mentre sté ascoso entro il tristo cavallo,

or ha quest’orrido e nero aspetto bruttato,

con araldica più lugubre; da capo a piè

or egli è tutto rubro, orribilmente adorno

del sangue di padri, madri, figlie e figli.

infornato ed impastato dalle vie arse,  

che prestan lume tiranno e dannato  

all’eccidio del loro signore. Dall’ira e dal fuoco bruciato,

e così cosparso di sangue rappreso,

con occhi di carbonchio, l’infernale Pirro

cerca il vecchio re Priamo.

Così va avanti tu.  

POLONIO: Per Dio, mio signore, ben recitato, con buon accento e senza esagerazione.

PRIMO ATTORE: “Tosto lo vede

menare colpi corti ai Greci; la sua spada antica  

al suo braccio ribelle, giace dove s’abbatte,

avversa al comando. Nell’impari duello

Pirro s’avventa su Priamo, iroso vano colpisce,

ma con sbuffo e vento della sua spada feroce

lo snervato padre cade. E allora Ilio in deliquio,

che par sentire questo colpo, con la cima fiammeggiante 

si piega al suolo; e con orrido schianto

imprigiona l’orecchio di Pirro. Ché, guarda! la sua spada

che scendea sulla chioma bianca lattea

del venerando Priamo, parve conficcarsi in aria;

così come tiranno dipinto stette Pirro,

e svagato quasi dal suo volere e compito,

non fe’ niente.

Ma come spesso vediamo, s’avanza una procella,

un silenzio nei cieli, sono immobili i nembi

muti i venti impetuosi, e l’orbe di sotto

silente come la morte, subito un orrido tuono

squarcia l’aria; così dopo il riposo di Pirro,

un vindice balzo lo pone a nuova opra;

e mai i magli dei Ciclopi s’abbatterono

sull’armatura di Marte, forgiata a eterna prova,

con minor rimorso di quanto la spada sanguinosa di Pirro

cade su Priamo.

Via, via, tu Fortuna puttana! Voi Dei tutti,

in general concilio strappatele il potere,

spezzate i raggi e i gavelli della sua ruota,

e fate rotolare il tondo mozzo giù dal colle del cielo,

sì in basso fino ai demoni.

POLONIO: Questo è troppo lungo.

AMLETO: Andrà dal barbiere con la vostra barba. Ti prego, vai avanti – lui preferisce la giga e le storielle da bordello, se no s’addormenta – Va’ avanti, arriva a Ecuba.

PRIMO ATTORE: “Ma chi, ohimè, avesse visto la regina imbacuccata…

AMLETO: “La regina imbacuccata?”

POLONIO: Va bene, “regina imbacuccata”, è giusto.

PRIMO ATTORE: “… correre scalza su e giù, minacciando le fiamme

con fiotti di lacrime, un cencio sul capo 

dove pria ste’ il diadema, e come veste

torno agli smunti troppo opimi lombi

una coltre presa nell’allarme del terrore -  

Chi ciò avesse visto, con lingua intrisa di veleno  

contro lo stato della Fortuna avrebbe urlato tradimento;

ma se gli dèi stessi l’avessero vista,

quand’ella vide Pirro prender spasso maligno

trinciare con la sua spada le membra del suo sposo,

il presto scoppio di grida ch’ella fe’,

se non li muovano mai le cose mortali, 

avrebbe fatto piangere gli occhi ardenti del cielo

e stravolto i celesti.

POLONIO: Guardate, se non ha cambiato colore, e ha lacrime nei suoi occhi – Per favore, basta. 

AMLETO: Molto bene. Ti farò recitare il resto di questo tra poco. Mio buon signore, volete occuparvi voi a far bene alloggiare gli attori? Intesi, mi raccomando, che siano ben trattati, perché essi sono il sunto, le cronache brevi del tempo; dopo la vostra morte sarebbe meglio per voi avere un brutto epitaffio che un loro cattivo ritratto da vivo.  

POLONIO: Mio signore, avranno il trattamento che si meritano.

AMLETO: Per il sangue di Cristo, amico, molto meglio! Tratta ognuno secondo il suo merito, e chi scanserà la frusta? Trattateli secondo il vostro onore e la vostra dignità: meno essi meritano, e più il merito nella vostra liberalità. Portateli all’interno.

POLONIO: Venite, signori.

AMLETO: Seguitelo, amici, avremo un dramma domani. (Esce Polonio con tutti gli attori, eccetto il primo) Ascoltami, vecchio mio, sapete recitare L’assassinio di Gonzago? 

PRIMO ATTORE: Certo, mio signore.

AMLETO: Domani sera si farà. E potresti all’occorrenza studiare una tirata di circa dodici o sedici versi che io butterei giù e inserirei nel testo? Potresti?

I ATTORE: Sì, mio signore.

AMLETO: Molto bene. Segui quel signore, ma guarda di non sfotterlo. (Esce il primo attore) Miei buoni amici, mi ritiro e vi lascio fino a stasera. Siate benvenuti a Elsinore.

ROSENCRANTZ: Mio buon signore.

AMLETO: Sì, così, andate con Dio.

(Escono Rosencrantz e Guildenstern)

Ora sono solo.

Oh che vagabondo e schiavo cafone sono io!

Non è mostruoso che questo attore qui, solo in una finzione, in un sogno della passione possa talmente forzare la sua anima per vanità sua propria, che da quell’opera se n’è uscito pallido in volto, e poi lacrime negli occhi, turbamento nell’aspetto, la voce rotta, e la sua intera funzione adattata nelle forme alla sua vanità? E tutto per nulla. Per Ecuba!

Che cos’è Ecuba per lui, o lui per Ecuba, che debba piangere per essa? Che cosa farebbe se avesse il motivo e la battuta di scena per la passione che ho io? Allagherebbe la scena con lacrime, e romperebbe i timpani di ognuno con orribili tirate, farebbe impazzire i colpevoli, e spaventare gli innocenti, confonderebbe gli ignoranti, e di certo stupirebbe le stesse facoltà degli occhi e delle orecchie. Ma io, mentecatto furfante dalla tempra di fango, me ne languo come un sognatore, abortito alla mia causa, e non riesco a spiccicare parola; no, neppure per un re, sulla cui proprietà e amatissima vita s’è abbattuta una dannata disfatta. Sono un vigliacco?

Chi mi chiama scellerato, mi fracassa il cranio, mi strappa la barba e me la butta in faccia, mi prende per il naso, mi dà del bugiardo dalla gola giù giù fino ai polmoni – chi mi fa questo?

Ah!

Piaghe di Cristo, mi prenderei tutto. Perché non può essere altro che io ho un fegato di colomba e non ho la bile per rendere amara l’angoscia, se no a quest’ora avrei già rimpinzato tutti i nibbi quassù con le budella di questo servo. Sanguinario, osceno scellerato!

Spietato, traditore, lascivo, disgraziato scellerato!

O vendetta!

Che razza di asino sono! È un atto altamente audace che io, il figlio di un caro padre assassinato, alla vendetta imbeccato dal cielo e dall’inferno, debba, come una baldracca, svuotare il mio cuore con parole, e mi metta a bestemmiare come un’autentica stracciona, una sguattera!

Vergognati! Su, cervello mio; uhm, ho sentito dire che creature colpevoli spettatrici di un dramma dallo stesso intreccio della scena sono state toccate nell’animo più profondo, tanto che hanno confessato subito le loro malefatte.

Perché l’assassino, anche se non ha lingua, parlerà con un organo assai portentoso. Io a questi attori farò recitare qualcosa che sembri l’assassinio di mio padre davanti a mio zio; osserverò i suoi sguardi, lo tamponerò nella carne viva, e se si ritrae io saprò che fare. Lo spirito che ho veduto potrebbe essere un diavolo, e il diavolo ha il potere di assumere piacevoli forme; sì, e forse, per la mia fiacchezza e la mia melanconia, dato che lui è molto potente su tali intelletti, abusa di me per dannarmi. Avrò fondamenti più certi di questo – il dramma è la cosa entro cui catturerò la coscienza del re.

Esce



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