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William Shakespeare, “La Tragedia di Amleto, Principe di Danimarca” VI

Creato il 10 maggio 2013 da Marvigar4

Amleto Vignolo Gargini

William Shakespeare

LA TRAGEDIA DI AMLETO, PRINCIPE DI DANIMARCA

Titolo originale The Tragedy of Hamlet, Prince of Denmark

Traduzione di Marco Vignolo Gargini

ATTO TERZO

SCENA PRIMA

Entrano il Re, la Regina, Polonio, Ofelia, Rosencrantz e Guildenstern.

RE: E non potete voi, con qualche abboccamento, cavargli il perché di questa sua confusione, che gli ruba così aspramente tutti i suoi giorni di pace con turbolenta e pericolosa stramberia? 

ROSENCRANTZ: Egli lo confessa di avere confuso il cervello, ma per quale causa non vuole dirlo assolutamente.

GUILDENSTERN: E nemmeno lo troviamo incline a farsi sondare, ma con una follia ingegnosa sta sulle sue, quando vorremmo spingerlo a fargli dire qualcosa sul suo vero stato.

REGINA: Vi ha bene accolti?

ROSENCRANTZ: Da vero gentiluomo.

GUILDENSTERN: Ma forzando molto il suo stato d’animo. 

ROSENCRANTZ: Avaro di domande, ma alle nostre molto prolisso nel rispondere.

REGINA: Avete cercato di indurlo a distrarsi?

ROSENCRANTZ: Signora, è accaduto proprio che noi precedessimo per strada certi attori; noi gli abbiamo detto di questi, e ci è parso di riscontrare in lui un qualche piacere nell’udire la cosa. Loro sono qui a corte, e, credo, hanno già avuto l’ordine di recitare per lui stasera.

POLONIO: È verissimo. Ed egli mi ha pregato di invitare le vostre maestà a udire e vedere lo spettacolo.

RE: Con tutto il mio cuore, e sono ben lieto di sentire che è così interessato. Miei buoni signori, dategli ancora spago, e guidate il suo scopo a queste distrazioni.

ROSENCRANTZ: Lo faremo, mio signore.

(Escono Rosencrantz e Guildenstern)

RE: Dolce Gertrude, lasciaci anche tu, poiché abbiamo fatto chiamare qui Amleto, affinché, come per caso, possa incontrare Ofelia. Suo padre ed io, spie legittime, ci disporremo in modo che, vedendo senza esser visti, possiamo giudicare obiettivamente il loro incontro, e dedurre, dal suo comportamento, se sia la sua pena d’amore o no ad affliggerlo così.

REGINA: Ti obbedirò. E per te, Ofelia, io davvero mi auguro che le tue bellezze avvenenti siano la causa felice della scontrosità di Amleto; così potrò sperare che le tue virtù lo riportino al suo stato abituale, per l’onore di entrambi.

OFELIA: Signora, mi auguro che possa essere così. 

(La Regina esce)

POLONIO: Ofelia, passeggia qui. Vostra Grazia, se a voi piace, noi ci sistemeremo. – Leggi questo libro, che il mostrare tale esercizio possa imbellettare la tua solitudine. – Siamo spesso da disapprovare in questo; è fin troppo provato, che con il viso della devozione e con pio gesto inzuccheriamo il diavolo stesso.

RE (A parte): Oh, questo è troppo vero. Che pungente sferzata queste parole danno alla mia coscienza. La faccia della baldracca, resa bella da impiastri fatti ad arte, non è più brutta rispetto alla cosa che l’aiuta di quanto non sia il mio agire rispetto alla mia parola dipinta. Oh pesante carico! 

POLONIO: Lo sento che arriva, nascondiamoci, mio signore.

(Escono il Re e Polonio)  

Entra Amleto

AMLETO: Essere, o non essere, questa è la domanda: se sia più nobile per la mente patire i colpi e i dardi dell’atroce fortuna o prendere le armi contro un mare di guai e resistendovi terminarli? Morire, dormire – niente più; e con un sonno dire fine all’angoscia e ai mille collassi naturali che la carne eredita; questo è un compimento da desiderarsi devotamente. Morire, dormire.

Dormire, forse sognare, ah, è qui l’incaglio. Perché in quel sonno di morte quali sogni sopravvengano, liberati che ci siamo di questa spirale mortale, deve farci indugiare; ecco il riguardo che rende la calamità così longeva.

Perché chi sopporterebbe le scudisciate e gli scherni del tempo, il torto degli oppressori, l’ingiuria del presuntuoso, gli strazi di un amore disprezzato, il ritardo della legge, l’insolenza delle cariche ufficiali, e i calci che il merito paziente si prende dagli indegni, quando potrebbe darsi da solo la sua pace con un semplice pugnale? Chi si caricherebbe di fardelli, per grugnire e sudare sotto una fati cosa vita, se non fosse per il fatto che il timore di qualcosa dopo la morte, l’inesplorato paese dal cui confine nessun viaggiatore ritorna, confonde la volontà, e ci fa tollerare quei mali che abbiamo piuttosto che ricorrere ad altri a noi ignoti?

Così la coscienza ci rende tutti vili, e così la tinta naturale della risoluzione è ammorbata dalla pallida sfumatura del pensiero, e le imprese di grande elevazione e momento con questo sguardo deviano i loro corsi e perdono il nome di azione. Ma, calmati adesso, la bella Ofelia. – Ninfa, nelle tue orazioni siano rammentati tutti i miei peccati.

OFELIA: Mio buon signore, com’è stata vostra grazia in tutti questi giorni?

AMLETO: Ti ringrazio umilmente, bene, bene, bene.  

OFELIA: Mio signore, ho dei vostri ricordi che da molto tempo desideravo restituirvi. Vi prego adesso di riprenderli.  

AMLETO: No, io no. Non ti ho mai dato niente.

OFELIA: Mio onorato signore, sapete benissimo d’avermeli dati, e con essi parole composte di sospiri così dolci che li arricchivano di più. Il loro profumo è andato, riprendeteveli, perché per un animo nobile i doni ricchi si impoveriscono quando il donatore si mostra scortese. 

AMLETO: Ha, ha, sei onesta?

OFELIA: Mio signore?

AMLETO: Sei bella?

OFELIA: Cosa vuol dire vossignoria?

AMLETO: Che se sei onesta e bella, la tua onestà non dovrebbe accettar discorso con la tua bellezza.

OFELIA: La bellezza, mio signore, potrebbe mai avere miglior commercio che con l’onestà?

AMLETO: Sì, veramente, perché il potere della bellezza trasformerà al più presto l’onestà in ruffiana, di quanto la forza dell’onestà possa tradurre la bellezza a sua somiglianza. Questo una volta era un paradosso, ma ora i tempi lo dimostrano. Ti ho amata una volta.

OFELIA: Invero, mio signore, me lo avete fatto credere.

AMLETO: Non avresti dovuto darmi credito, poiché la virtù non può inserirsi nel nostro vecchio ceppo, senza perderne il profumo. Non ti ho amata.  

OFELIA: Tanto più fui raggirata.

AMLETO: Vattene in un convento. Perché vorresti mettere al mondo dei peccatori? Io stesso sono più o meno onesto, eppure potrei accusarmi di tali cose, che sarebbe stato meglio che mia madre non m’avesse concepito. Sono pieno di orgoglio, vendicativo, ambizioso, con più peccati pronti ai miei ordini che pensieri in cui metterli, immaginazione per plasmarli o tempo per metterli in atto. Che dovrebbe fare gente come me che striscia fra terra e cielo? Siamo tutti dei furfanti matricolati, non fidarti di nessuno di noi. Prendi la tua via per il convento. Dov’è tuo padre?  

OFELIA: A casa, mio signore.

AMLETO: Che le porte siano ben chiuse a chiave, che faccia il buffone solo a domicilio. Addio.

OFELIA: Oh aiutalo, dolce cielo!

AMLETO: Se tu ti sposi, ti darò per dote questa piaga – sii casta come il ghiaccio, pura come la neve, non sfuggirai alla calunnia. Vattene in un convento, vai, addio. O se vuoi proprio sposarti, sposa un imbecille; perché gli uomini saggi sanno benissimo che mostri ne fate. In un convento, vai, e presto anche. Addio.  

OFELIA:

O potenze del cielo, aiutatelo!

AMLETO: Ho anche sentito dei vostri trucchi, abbastanza bene. Dio vi ha dato una faccia e voi ve ne fate un’altra; sculettate, ancheggiate, e scilinguate, affibbiate nomignoli alle creature di Dio, e fate passare per ignoranza la vostra impudicizia. Via, non voglio più spartire nulla con questo: mi ha fatto diventare pazzo. Io dico che non avremo più matrimoni. Quelli che sono già sposati, tutti tranne uno, vivranno, gli altri resteranno come sono. In convento, va’. (Esce)

OFELIA: O che nobile mente è qui capovolta! Occhio, lingua, spada d’un principe, d’uno studioso, d’un soldato, la speranza e la rosa di un bello stato, lo specchio del costume, e il modello della forma, l’ammirato di tutti gli ammiratori, proprio, proprio a terra, ed io la più infelice e sventurata delle donne, che suggevo il miele delle sue melodiose promesse, ora vedo quella nobile e suprema ragione, come dolci campane che stridono, fuori tono e disarmonica, quella ineguagliabile forma e figura di giovane fiorente devastata dalla pazzia. O me misera, aver visto ciò che ho visto, vedere ciò che vedo.

Entrano il Re e Polonio

RE: Amore! I suoi affetti non muovono in quella direzione; né ciò che ha detto, quantunque un po’ difettoso, somigliava affatto alla follia. C’è qualcosa al suo interno su cui la sua malinconia sta covando, e io temo che quando sarà covato e schiuso qualche pericolo ne verrà fuori; per prevenirlo, io ho così disposto con rapida decisione: partirà in fretta per l’Inghilterra, per reclamare il nostro tributo negletto. E forse i mari e paesi diversi, la varietà degli oggetti, espelleranno questo oggetto sedimentatosi nel suo cuore, su cui il suo cervello batte continuamente così da stravolgerlo. Tu che ne pensi?

POLONIO: Dovrebbe andare bene. Però io credo tuttavia che la causa e l’inizio della sua afflizione derivi dall’amore sprezzato. Come va adesso, Ofelia? Non occorre che tu ci dica ciò che ha detto il principe Amleto; abbiamo sentito tutto. Mio signore, fate come vi piace, ma se lo credete opportuno, dopo lo spettacolo lasciate che la regina sua madre tutta sola lo supplichi di esprimere la sua afflizione; e che gli parli chiaro, e io, se vi piace, mi piazzerò nell’orecchio di tutta la loro conversazione. Se ella non lo scopre, mandatelo in Inghilterra; o confinatelo dove la vostra saggezza crederà meglio.

RE: Sarà così. La pazzia nei grandi non dev’essere lasciata incustodita.

(Escono)



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