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William Shakespeare, “La Tragedia di Amleto, Principe di Danimarca” X

Creato il 25 maggio 2013 da Marvigar4

Amleto Vignolo Gargini

William Shakespeare

LA TRAGEDIA DI AMLETO, PRINCIPE DI DANIMARCA

Titolo originale The Tragedy of Hamlet, Prince of Denmark

Traduzione di Marco Vignolo Gargini

ATTO QUARTO

SCENA QUARTA

Entra sulla scena Fortebraccio con il suo esercito

FORTEBRACCIO: Va’, capitano, porta i miei saluti al re danese; digli che con sua licenza Fortebraccio chiede il beneplacito per una marcia accordata attraverso il suo regno. Tu conosci il luogo di raduno. Se sua maestà volesse qualcosa da noi, gli esprimeremo il nostro omaggio di persona. E fa’ che lo sappia.

CAPITANO: Lo farò, mio signore.

FORTEBRACCIO: Andate avanti adagio. 

(Escono Fortebraccio e i soldati)

Entrano Amleto, Rosencrantz, Guildenstern e altri

AMLETO: Buon signore, di chi sono queste truppe?

CAPITANO: Della Norvegia, signore.

AMLETO: Destinate dove, signore, vi prego?

CAPITANO: Contro qualche parte della Polonia.

AMLETO: Chi le comanda, signore?

CAPITANO: Il nipote del vecchio Norvegia, Fortebraccio.

AMLETO: Mirano al grosso della Polonia, signore, o a qualche frontiera?  

CAPITANO: A parlar franco, e senza forzature, andiamo a conquistare un piccolo pezzo di terra che non ha in sé altro profitto che il nome. Per cinque ducati, cinque, non lo affitterei; né frutterà alla Norvegia o alla Polonia un ricavo maggiore, se fosse venduto come proprietà assoluta.

AMLETO: Beh, allora i polacchi non lo difenderanno mai.  

CAPITANO: Sì, c’è già un presidio.

AMLETO: Duemila anime e ventimila ducati non basteranno a decidere la sorte di questa pagliuzza.

Questo è l’ascesso di troppa abbondanza e pace, che dentro si schianta, e fuori non mostra la causa perché l’uomo muore. Vi ringrazio umilmente, signore.

CAPITANO: Dio sia con voi, signore. (Esce.)

ROSENCRANTZ: Vogliamo andare, mio signore?

AMLETO: Sarò da voi subito, intanto andate avanti un po’.

(Escono tutti eccetto Amleto)

Come tutte le occasioni mi denunziano e spronano la mia vendetta spuntata! Che cos’è un uomo se il suo sommo bene e mercato del suo tempo sono solo il sonno e il mangiare? Una bestia, nient’altro.

Sicuramente colui che ci ha creato con tale facoltà di giudizio, di guardare innanzi e indietro, non ci ha dato quella capacità e ragione divina perché inutilizzate si avariassero in noi. Adesso, se sia bestiale oblio, o qualche vile scrupolo pensare troppo meticolosamente all’evento – un pensiero che spaccato in quattro non ha altro che una parte di saggezza, e sempre tre parti di viltà – Non so perché io viva ancora per dire “Questa cosa dev’essere fatta,” visto che ho motivo e volontà e forza e mezzi per farla. Mi esortano esempi grossi come la terra: mostriamo questo esercito tanto forte e numeroso, guidato da un principe delicato e sensibile, il cui spirito con lo sbuffo di una divina ambizione, fa le boccacce all’invisibile evento, esponendo ciò che è mortale e incerto a tutto ciò che la fortuna, la morte e il pericolo osano, perfino per un guscio d’uovo. Essere grandi davvero non è muoversi senza una grande ragione, ma trovare ovunque un nobile motivo di disputa quando l’onore è al palo. Allora come me ne sto io, che ho un padre assassinato, una madre insudiciata, la mia ragione e il mio sangue in esaltazione, e lascio riposare tutto, mentre con mia vergogna io vedo l’imminente morte di ventimila uomini, che per una fantasia e un trucco della fama vanno alle loro tombe come a un letto, si battono per un pezzo di terra su cui le cifre non possono trarne la causa, e che non esiste sepolcro capiente abbastanza da nascondere i massacrati? Ah, da ora in poi i miei pensieri siano sanguinari, o non siano niente che valga.

(Esce)  

SCENA QUINTA

Entrano la Regina e Orazio

REGINA: Non voglio parlare con lei.

ORAZIO: Lei insiste, è fuori di sé davvero; il suo stato va commiserato.

REGINA: Che cosa vuole?

ORAZIO: Parla molto di suo padre; dice che avverte che il mondo è pieno d’imbrogli, e tossisce, e si batte il petto, s’inasprisce per un nonnulla, dice cose confuse che hanno senso a metà. Il suo discorso è niente, eppure l’uso sconnesso che ne fa muove chi l’ascolta a connetterlo; restano a bocca aperta, e aggiustano le parole per adattarle ai loro propri pensieri, parole che come lei rende con ammicchi, cenni e gesti, porterebbero invero a far pensare che ci sia un senso in esse, per quanto niente di certo, e comunque molto infelice. Sarà bene parlarle, perché lei potrebbe diffondere pericolose congetture nelle menti mal disposte.

REGINA: Fatela entrare.

(Orazio esce)  

Alla mia anima malata, come è la vera natura del peccato, ogni inezia pare il preludio di qualche grande disastro. Così piena è la colpa di ansie incontrollate, che si rovescia da sé, per paura di essere rovesciata.

Entra Orazio con Ofelia fuori di sé

OFELIA: Dov’è la bella maestà di Danimarca?

REGINA: Che c’è, Ofelia?  

OFELIA (Canta):

Come riconoscerei il tuo vero amore da a un altro?

Dalla sua conchiglia sul cappello, e dal suo calzare il sandalo.

REGINA: Ahimè, dolce signora, che significa questa canzone?

OFELIA: Dite? No, vi prego, state attenta.

(Canta)

Lui è morto e andato, signora,

lui è morto e andato,

sul suo capo una zolla verde,

ai suoi piedi un masso.

Oho!  

REGINA: Sì, ma Ofelia – 

OFELIA: Vi prego, state attenta.

(Canta)

Bianco il suo sudario come la neve dei monti –

Entra il Re

REGINA: Ahimè. guarda qui, mio signore.

OFELIA (Canta) Adornato di dolci fiori,

che compianto alla tomba non andò

con lacrime di vero amore.

RE: Come state, leggiadra signora?

OFELIA: Bene, Dio ve ne renda merito. Dicono che il gufo era figlia di un fornaio. Signore, noi sappiamo ciò che siamo, ma non sappiamo ciò che possiamo essere. Che Iddio sia al vostro desco.

RE: Fantastica su suo padre.

OFELIA: Vi prego non parliamo più di questo, ma quando vi chiedono che vuol dire, dite così.

(Canta)

Domani è San Valentino,

tutti presto escono al mattino,

ed io fanciulla alla tua finestra,

per esser la tua Valentina.

Lui allora si alzò, e si vestì,

e la porta della sua camera le aprì,

fece entrare la fanciulla, che fanciulla

non più si dipartì.

RE: Graziosa Ofelia. 

OFELIA: Invero, senza imprecazioni, finisco subito.

(Canta)

Per Ges e la santa Carità, ohimè indegnità,

i giovani lo fanno se a loro viene l’eventualità

per Dio, loro sono da deplorare.

dice Lei, prima di rovesciarmi,

mi promettesti di impalmarmi.

Lui risponde,  

Così avrei fatto, per quel sole lassù,

se non fossi venuta nel mio letto tu.

RE: Da quanto tempo è in questo stato?

OFELIA: Spero che tutto andrà bene. Bisogna aver pazienza, ma non posso fare a meno di piangere se penso che l’hanno messo nella terra fredda. Mio fratello lo saprà, e così vi ringrazio per il vostro buon consiglio. Avanti, la mia carrozza. Buonanotte signore, buonanotte dolci signore, buonanotte, buonanotte. (Esce)  

RE: Seguitela da vicino; fatele buona guardia, ve ne prego.

(Esce Orazio.)

Oh, questo è il veleno del dolore profondo, viene tutto dalla morte di suo padre. E ora guarda –  O Gertrude, Gertrude, quando vengono i dispiaceri, non vengono come esploratori singoli, ma a battaglioni. Prima, l’assassinio di suo padre, poi, tuo figlio partito, e lui violentissimo artefice del suo giusto allontanamento, il popolo in subbuglio, cupo e maligno nei loro pensieri e nei loro mormorii per la morte del buon Polonio. E noi in modo inesperto abbiamo agito nell’interrarlo così in frettoloso segreto. La povera Ofelia divisa da se stessa e dal suo bel senno, senza il quale noi siamo simulacri, e mere bestie. Infine, tanto grave quanto tutte queste cose messe insieme, suo fratello in segreto è tornato dalla Francia, si ciba del suo sbigottimento, si tiene fra le nuvole, e non mancano mosconi a infettargli le orecchie con storie pestifere sulla morte di suo padre; storie che per necessità, povere di sostanza, non ci metteranno nulla ad accusare la nostra persona da orecchio a orecchio. O mia cara Gertrude, questo come una mitraglia in molti posti mi dà un’inutile morte.  (Rumore dall’interno)

REGINA: Ahimè, che rumore è questo? 

RE: Guardia. 

Entra un messaggero

Dove sono i miei svizzeri? Che custodiscano la porta! Che succede?  

MESSAGGERO: Salvatevi, mio signore, l’oceano che strabuzza dalle sue sponde non divora la pianura con più impetuosa furia di quanto il giovane Laerte a capo di una rivolta ha sopraffatto le vostre guardie. I plebei lo chiamano signore, e, come se il mondo fosse appena iniziato, dimenticato l’antico, ignorate le usanze, che ratificano e sostengono ogni parola, gridano “Scegliamo noi! Laerte sarà re”: berretti, mani e lingue lo acclamano fino alle nubi: “Laerte sarà re, Laerte re.” (Rumore dentro)  

REGINA: Come strepitano allegramente sulla pista sbagliata! Oh, siete nella direzione contraria, falsi cani danesi.

RE: Hanno sfondato le porte.

Entrano Laerte e altri danesi, armati

LAERTE: Dov’è questo re? Signori, restate tutti fuori.

DANESI: No, fateci entrare!

LAERTE: Vi prego, permettetemelo.

DANESI: Va bene, va bene. (Escono)  

LAERTE: Vi ringrazio. Sorvegliate la porta. O tu ignobile re, dammi mio padre.  

REGINA: Calma, buon Laerte.

LAERTE: Quella goccia di sangue che è calma mi proclama bastardo, urla cornuto a mio padre, stampa il marchio di puttana pure qui sulla fronte casta e immacolata della mia fedele madre.

RE: Qual è la causa, Laerte, per cui la tua rivolta appare così come un gigante?  Lascialo andare, Gertrude, non temere per la nostra persona. C’è una tale divinità che cinge un re, che il tradimento può solo sbirciare ciò che si propone, e attua poco del suo volere. Dimmi, Laerte, perché sei così infuriato – lascialo andare, Gertrude. Parla, uomo.

LAERTE: Dov’è mio padre?

RE: Morto. 

REGINA: Ma non per sua mano.

RE: Lascia che chieda ciò che vuole.

LAERTE: E come mai è morto? Non mi farò beffare. All’inferno la lealtà! I giuramenti al diavolo più nero! La coscienza e la grazia nel pozzo più profondo! Io sfido la dannazione. Sono deciso a tal punto che non m’importa niente di questo mondo o dell’altro, accada quel che dovrà accadere, soltanto io sarò vendicato a fondo per mio padre. 

RE: Chi ti tratterrà?

LAERTE: La mia volontà, non quella del mondo intero. Quanto ai miei mezzi, vedrò di usarli così bene che con poco andranno lontano.

RE: Buon Laerte, se tu vuoi sapere la verità sul tuo caro padre, è scritto nella tua vendetta, che tu debba spazzar via in un fascio amici e nemici, vincitori e vinti? 

LAERTE: Solo i suoi nemici. 

RE: Allora, vuoi conoscerli?

LAERTE: Ai suoi buoni amici io spalancherò le braccia così, e, come il pietoso pellicano che ristora la vita, li nutrirò col mio sangue.

RE: Ecco, ora tu parli da buon figlio e da vero gentiluomo. Che io sia innocente della morte di tuo padre, e che sia assai afflitto per essa, apparirà così lampante al tuo giudizio come il giorno ai tuoi occhi.

DANESI (Da dentro): Lasciatela entrare.

LAERTE: Che c’è? Che rumore è questo?

Entra Ofelia

O calore, secca il mio cervello. Lacrime sette volte salate bruciate il senso e la virtù del mio occhio. Per il cielo, la tua pazzia sarà pagata a peso, finché la nostra bilancia penderà da noi. O rosa di maggio, cara fanciulla, buona sorella, dolce Ofelia – O cieli, è possibile che la ragione d’una giovane fanciulla sia mortale come la vita d’un vecchio? La natura è pura nell’amore, e laddove è pura manda qualche preziosa istanza di se stessa dietro la cosa che ama. 

OFELIA (Canta):

Lo portarono a viso scoperto nella bara;

hey non nonny, nonny, hey nonny,

e nella sua tomba piovve più di una lacrima –

Addio, mia colomba. 

LAERTE: Se tu avessi il tuo senno, e chiedessi vendetta, non potresti commuovermi così.

OFELIA: Voi dovete cantare “E giù, e giù,” e voi lo chiamate e-giù-e. Oh, come ruota il ritornello. È il falso maggiordomo che rubò la figlia del padrone.

LAERTE: Questo niente vale più di tutto. 

OFELIA: Ecco del rosmarino,  che è per il ricordo – ti prego, amore, ricorda – ed ecco le viole, che sono per il pensiero. 

LAERTE: Una lezione nella pazzia, pensieri e ricordi compunti.

OFELIA: Ecco per te il finocchio, e l’aquilegia. Ecco per te della ruta, e un poco per me; possiamo chiamarla erba della grazia per la domenica – oh, tu devi portare la ruta in modo diverso. Ecco una margherita. Volevo darti delle violette, ma sono tutte appassite quando morì mio padre – dicono che ha fatto una buona fine – 

(Canta) Perché il soave bel Robin è tutta la mia gioia.

LAERTE: Pensiero e afflizione, passione, l’inferno stesso li rende graziosi e incantevoli.

OFELIA (Canta):  

E non tornerà mai più?

E non tornerà mai più?

No, no, lui è morto,

al tuo letto di morte va’,

mai più lui tornerà.

La sua bianca barba come neve era,

tutto di lino il suo capo era,

se n’è andato, se n’è andato,

e il nostro pianto è sprecato.

Della sua anima abbia pietà Iddio.

E per tutte le anime cristiane, io prego Dio. Dio sia con voi. (Esce)  

LAERTE: Vedi questo, o Dio?

RE: Laerte, devo condividere con te il tuo dolore, o mi neghi un diritto. Appartati, scegli chi vuoi dei tuoi amici più assennati, ed essi sentiranno e giudicheranno tra te e me: se direttamente o indirettamente, ci trovano implicati, cederemo a te il nostro regno, la nostra corona, la nostra vita, e tutto ciò che chiamiamo nostro, come riparazione; ma altrimenti, contentati di accordarci la tua pazienza, e noi procederemo insieme con il tuo animo per dargli il dovuto appagamento.

LAERTE: Che sia così, il modo della morte, il suo oscuro funerale, nessun trofeo, né spada, né blasone sulle sue ossa, nessun rito nobiliare, né cerimonia formale, ciò reclama udienza dal cielo alla terra, e io debbo chiederne conto.

RE: Lo farai; e dove sta l’oltraggio che cada la mannaia. Ti prego, vieni con me. (Escono)



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