Magazine Cultura

William Shakespeare, “La Tragedia di Amleto, Principe di Danimarca” XIII

Creato il 11 giugno 2013 da Marvigar4

Amleto Vignolo Gargini

William Shakespeare

LA TRAGEDIA DI AMLETO, PRINCIPE DI DANIMARCA

Titolo originale The Tragedy of Hamlet, Prince of Denmark

Traduzione di Marco Vignolo Gargini

SCENA SECONDA

Entrano Amleto e Orazio

AMLETO: Di questo basta, amico; ora vedrai il resto –  Ricordi tutta la situazione?  

ORAZIO: Se la ricordo, mio signore!

AMLETO: Amico, avevo nel cuore come una lotta che non mi lasciava dormire; mi sembrava peggio degli ammutinati in ceppi. Avventatamente –  e in questo sia lodata l’avventatezza; riconosciamolo, la nostra indiscrezione talvolta ci serve bene quando le nostre profonde trame falliscono: e ciò dovrebbe insegnarci che una divinità c’è che dà forma ai nostri fini, comunque noi li vogliamo abbozzare –  

ORAZIO: Questo è più che certo.

AMLETO: Fuori dalla mia cabina, la giubba arrotolata sulle spalle, nel buio li cercai a tentoni, trovai quanto volevo, frugai nel loro plico, e infine ritornai nella mia cabina; e, mi feci così impavido, dimenticando i miei sospetti le buone maniere, da rompere i sigilli il loro grande mandato: dove vi trovai, Orazio –  oh farabutto d’un re – un preciso ordine, infarcito di molte ragioni d’ogni sorta riguardo il benessere della Danimarca, e anche dell’Inghilterra, con non sai quali lerciumi e demoni riferiti alla mia vita, che a una lettura superficiale, senza indugio, subito, no, nemmeno un istante per arrotare la scure, la mia testa mi si doveva tagliare.

ORAZIO: È  possibile?

AMLETO: Ecco il mandato; leggilo con comodo.

Ma vuoi sentire ora come ho proceduto?  

ORAZIO: Ve ne prego.

AMLETO: Irretito così com’ero dalle infamie – già prima di poter fare un prologo per il mio cervello,  lui dette inizio alla recita – io mi sedetti,  ideai un nuovo mandato, lo scrissi in bella forma – una volta io credevo che, come fanno i nostri statisti, fosse una bassezza scrivere in bella forma, e m’affannai molto per dimenticare quell’insegnamento, ma ora, amico mio, mi fece un buon servizio –  vuoi sapere il senso di ciò che scrissi?

ORAZIO: Sì, mio buon signore.

AMLETO: Una pressante ingiunzione da parte del re, perché il re d’Inghilterra era suo fedele tributario, perché l’amore tra loro come una palma potesse fiorire, perché la pace portasse ancora il suo serto di grano e stia come una virgola tra le loro amicizie, e molti consimili “perché” di grande spessore, a che, visti e conosciuti questi contenuti, senza ulteriore dibattimento, senza più o meno, egli desse ai latori morte immediata, senza dargli nemmeno il tempo di confessarsi.

ORAZIO: E come fu fatto questo sigillo?

AMLETO: Beh, anche in questo il cielo provvide. Avevo nella borsa il sigillo di mio padre, che era il modello di quello sigillo danese.  

Ripiegai il foglio proprio nella forma dell’altro, lo firmai, gli impressi il sigillo, lo misi in salvo, e nessuno s’accorse dello scambio. Ora il giorno dopo ci fu la nostra battaglia in mare, e quel che seguì tu già lo sai.  

ORAZIO: Così Guildenstern e Rosencrantz ci vanno dritti.

AMLETO: Amico mio, avevano fatto all’amore con questo incarico.

Loro non sfiorano la mia coscienza, il loro fallimento deriva dal loro intrufolarsi. È pericoloso per una natura più bassa mettersi tra i colpi e le stoccate furiose di avversari potenti.  

ORAZIO: Però, che re è questo!

AMLETO: Pensaci, non è mio compito adesso – lui che ha ammazzato il mio re e reso puttana mia madre, che saltò tra la mia elezione e le mie speranze, e ha gettato l’amo per la mia stessa vita, e con quale imbroglio –  non è perfetta coscienza ripagarlo con questo braccio? E non è essere dannati, permettere che questo cancro della nostra natura faccia altro male?

ORAZIO: Sarà presto a conoscenza dall’Inghilterra, qual è l’esito dell’affare laggiù. 

AMLETO: Sarà tra breve; l’intervallo è mio: e la vita di un uomo non è altro che dire “Uno”.

Ma sono dispiaciuto assai, buon Orazio, di essermi lasciato andare con Laerte; perché dall’immagine della mia causa, io vedo il ritratto della sua; conquisterò i suoi favori; ma sicuramente la vanteria del suo dolore mi ha spinto a una passione smodata.  

ORAZIO: Silenzio, chi viene qui?

Entra Osric

OSRIC: Vossignoria è benvenuta molto tornata qui in Danimarca

AMLETO: Umilmente vi ringrazio, signore. Conosci questo insetto acquatico?

ORAZIO: No, mio buon signore.

AMLETO: Il tuo stato è tanto più di grazia, perché conoscerlo è un vizio. Lui ha molta terra, e fertile. Che una bestia sia padrona di bestie, e la sua mangiatoia mangiatoia starà alla tavola del re. È un gracchio, ma come dico, spazioso nel possesso di fango.  

OSRIC: Dolce signore, se Vostra Signoria ne avesse l’agio, dovrei trasmettervi qualcosa da parte di sua maestà.

AMLETO: L’accoglierò, signore, con tutta la diligenza del mio spirito. Mettete il vostro cappello al suo uso giusto, è per la testa.

OSRIC: Ringrazio vostra Signoria, fa molto caldo.

AMLETO: No, credetemi, fa molto freddo, il vento è dal nord.

OSRIC: Fa un certo freddo, monsignore, veramente.

AMLETO: Eppure mi pare molto afoso e caldo per la mia costituzione.

OSRIC: Eccessivamente, mio signore, è molto afoso – come dire – non so dire come. Ma, mio signore, sua maestà m’ha ordinato di significarvi che ha fatto una grossa scommessa sulla vostra testa. Signore, questa è la faccenda –  

AMLETO: Ve ne prego, ricordate –

(Amleto lo invita a mettersi il cappello

OSRIC: Sì, mio buon signore, per mia comodità, in buona fede. Signore, qui a corte è arrivato da poco Laerte; credetemi, un gentiluomo perfetto, pieno delle più eccellenti distinzioni, di deliziosa compagnia e di gran figura; in verità, per parlar di lui con sentimento, egli è la carta o il calendario della cortesia, giacché troverete in lui il continente di quella parte che un gentiluomo vorrebbe vedere.  

AMLETO: Signore, la sua definizione non soffre perdita in voi, quantunque io sappia che il farne l’inventario darebbe le vertigini all’aritmetica della memoria, e ancora non sarebbe che straorzare al confronto della sua spedita vela. Ma nella verità della lode, io lo stimo essere animo di gran pregio, e il suo infuso di tal preziosità e rarità che, per fare di lui vera dizione, il suo sosia è il suo specchio, e chi mai potrebbe seguirne le orme, la sua ombra, nessun altro. 

OSRIC: Vostra Signoria parla di lui molto infallibilmente.

AMLETO: La concernenza, signore? Perché mai intabarriamo il gentiluomo nel nostro più ruvido fiato?

OSRIC: Signore? 

ORAZIO: Ma non è possibile intendersi in un’altra lingua? Voi ce la farete, signore, davvero.

AMLETO: Che cosa implica la nominazione di questo gentiluomo?

OSRIC: Di Laerte?

ORAZIO: Il suo borsello è già vuoto, tutte le sue parole d’oro sono state spese.

AMLETO: Di lui, signore.

OSRIC: So che non siete ignorante –  

AMLETO: Vorrei che lo sapeste, signore; comunque, in fede, se lo sapeste non sarebbe molto lusinghiero per me. Bene, signore? 

OSRIC: Non ignorate di quale eccellenza sia Laerte – 

AMLETO: Non oso confessarlo, per non confrontarmi con lui nell’eccellenza, ma conoscere un uomo bene sarebbe conoscere se stessi.

OSRIC: Voglio dire, signore, nella sua arma; ma nell’imputazione che gli vien fatta da quelli alla sua mercede, egli è senza eguali.

AMLETO: Qual è la sua arma?

OSRIC: Spada e pugnale.

AMLETO: Sono due delle sue armi – ma va bene.  

OSRIC: Il re, signore, ha scommesso con lui sei cavalli berberi, contro i quali lui ha impegnato, per quel che ho capito, sei spade e pugnali francesi, con i loro accessori, cinture, pendagli e così via. Tre degli affusti in fede sono proprio belli a vedersi, molto intonati alle else, affusti finissimi e di concezione molto prodiga.  

AMLETO: Che cosa chiamate gli “affusti”? 

ORAZIO: Sapevo che avreste dovuto essere edificato di una nota in margine prima di finire.

OSRIC: Gli affusti, signore, sono i ganci.

AMLETO: Il termine sarebbe più consono all’argomento, se potessimo portarci un cannone sulla nostra fiancata; vorrei che sino a quel momento siano ganci. Ma avanti – Sei cavalli berberi contro sei spade francesi, i loro accessori, e tre affusti di concezione molto prodiga; questa è la scommessa francese contro la danese. Ma perché tutto ciò è stato “impegnato”, come voi dite?

OSRIC: Il re, signore, ha scommesso, signore, che in una dozzina di assalti fra voi e lui, lui non vi supererà di tre stoccate. Lui ha scommesso dodici invece di nove. E si verrebbe alla prova immediata, se Vostra Signoria accordasse la risposta.

AMLETO: Come la mettiamo se io rispondo “no”? 

OSRIC: Voglio dire, mio signore, l’opporre la vostra persona nella sfida!

AMLETO: Signore, io gironzolo qui nella sala. Se piace a Sua Maestà, è l’ora d’aria della mia giornata; siano portate le spade, se il gentiluomo è disposto, e il re mantiene il suo proposito, io vincerò per lui se ne sarò capace; altrimenti, non otterrò altro che la vergogna e tre stoccate in più.  

OSRIC: Posso riportarvi proprio così?

AMLETO: A questo effetto, signore, con gli svolazzi che vuole la vostra natura. 

OSRIC: Raccomando il mio servizio alla Signoria vostra.

AMLETO: Vostro, vostro. (Osric esce). Fa bene a raccomandarlo da sé, non ci sono altre lingue disposte a farlo.

ORAZIO: Questa pavoncella se ne vola via col guscio sulla sua testa.

AMLETO: Faceva i complimenti con la mammella prima di succhiarla. Così lui, e molti altri della sua razza, che io vedo rimbambiti da quest’epoca senza valore, presi solo dal motivo del tempo, e dall’abitudine esteriore dell’incontro, una sorta di raccolta schiumosa, che li mena tra le più raffinate e spulate opinioni; ma prova a soffiarci sopra per vagliarli, le bolle si sgonfiano.

Entra un Signore

SIGNORE: Mio signore, Sua Maestà vi ha mandato i suoi omaggi con il giovane Osric, il quale è tornato a riferirgli che lo attendete qui in sala. Egli mi manda a conoscere se è ancora vostro piacere battervi con Laerte o se volete prendere più tempo. 

AMLETO: Sono fermo nei miei propositi. Essi seguono il piacere del re. Se è la sua convenienza a parlare, la mia è pronta; ora o ogniqualvolta, purché io sia in grado come adesso. 

SIGNORE: Il re, la regina e tutti stanno scendendo.

AMLETO: Al momento adatto.

SIGNORE: La regina desidera che voi usiate qualche gentilezza a Laerte prima di iniziare a battervi.

AMLETO: Mi dà buone istruzioni. (Il Signore esce

ORAZIO: Perderete questa scommessa, mio signore.

AMLETO: Credo di no. Da quando lui è andato in Francia, mi sono esercitato di continuo; vincerò per il vantaggio. Ma tu non puoi sapere che male abbia qui intorno al cuore – ma non importa.  

ORAZIO: Sì invece, mio signore, –  

AMLETO: Non è altro che una sciocchezza, ma è una di quelle apprensioni che forse turberebbe a una donna.

ORAZIO: Se il vostro animo è avverso a qualcosa, obbeditegli. Preverrò il loro arrivo qui, e dirò che non siete pronto.

AMLETO: Niente affatto, noi sfidiamo gli auspici; c’è una speciale provvidenza anche nella caduta di un passero. Se è ora, non è a venire; se non è a venire, sarà ora; se non è ora, pure sarà a venire – essere pronti è tutto. Visto che nessun uomo sa niente di ciò che lascia, che è lasciare per tempo? Che sia.  

Entrano il Re, la Regina, Laerte, Signori e altri del seguito con spade e guanti una tavola e boccali di vino sopra di essa

RE: Vieni, Amleto, vieni e prendi da me questa mano.

(Mette la mano di Laerte in quella di Amleto)

AMLETO: Perdonatemi, signore. Vi ho fatto torto; ma perdonatelo, da quel gentiluomo che siete. I presenti sanno, e voi l’avete certo saputo, come io sia punito da una amara confusione. Quello che ho fatto che possa aver dato alla vostra natura, onore, e obiezione una rude sveglia, io lo proclamo qui, fu follia.

Fu Amleto a far torto a Laerte? Mai Amleto.

Se Amleto è stato tolto a se stesso, e mentre non è se stesso fa torto a Laerte, allora non è Amleto a farlo, Amleto lo nega.

Chi è dunque a farlo? La sua follia. Se è così, Amleto è dalla parte che riceve il torto, la sua follia è nemica del povero Amleto.  

Signore, dinanzi a questi uditori, lasciate che la mia sconfessione di un male volontario assolva me per quanto nei vostri generosissimi pensieri, che ho tirato la mia freccia sopra la casa e ferito mio fratello.  

LAERTE: Io sono soddisfatto della mia natura, il cui motivo in questo caso dovrebbe incitarmi più di tutto alla mia vendetta; ma nei termini dell’onore mi tengo distante, e non voglio riconciliarmi finché da qualcuno degli anziani maestri esperto nell’onore non abbia una voce e un precedente di pace, che serbi il mio nome senza macchia; però, fino ad allora, io ricevo l’amicizia che mi si offre come amicizia, e non le farò torto.

AMLETO: Io l’accetto con franchezza, e mi batterò lealmente in questa scommessa fraterna. Dateci le spade, avanti.

LAERTE: Avanti, una a me.

AMLETO: Io sarò la tua lama, Laerte; contro la mia imperizia la tua maestria come una stella nella notte più oscura risalterà in tutta la sua luminosità.

LAERTE: Mi prendete in giro, signore?

AMLETO: No, per questa mano.

RE: Date loro le spade, giovane Osric. Nipote Amleto, conosci la scommessa?

AMLETO: Benissimo, mio signore. Vostra Grazia ha puntato sul vantaggio del più debole.  

RE: Non ho timore, vi ho visti tutti e due; ma dal momento che lui è il più in forma, abbiamo quindi lo svantaggio. 

LAERTE: Questa pesa troppo. Fatemene vedere un’altra.

AMLETO: Questa mi va bene. Queste spade hanno tutte una lunghezza? 

(Si preparano allo scontro)

OSRIC: Sì, signor mio.

RE: Disponetemi i boccali di vino qui sulla tavola. 

Se Amleto dà la prima o la seconda stoccata, o pareggia in risposta al terzo assalto, che tutti i bastioni sparino i colpi d’artiglieria.  

Il re berrà al miglior fiato di Amleto, e nella coppa getterà una perla più ricca di quella che quattro successivi re hanno portato sulla corona di Danimarca. Datemi le coppe, e che il tamburo annunci alla tromba, la tromba al cannoniere là fuori, i cannoni ai cieli, il cielo alla terra, “Ora il re brinda ad Amleto.” Su, cominciate, e voi, giudici, spalancate bene gli occhi.

(Trombe)  

AMLETO: Avanti, signore.

LAERTE: Avanti, mio signore. (Si battono)

AMLETO: Una.

LAERTE: No.

AMLETO: Giudici?

OSRIC: Toccato, nettamente toccato.

LAERTE: Va bene, ancora.

RE: Un momento, datemi da bere. Amleto, questa perla è tua. Bevo alla tua salute.

(Tamburi, trombe, e un colpo di cannone)

Dategli la coppa.  

AMLETO: Farò quest’assalto, prima. Tenetela da parte per un po’.

Avanti – un’altra stoccata. Che ne dici? (Si battono

LAERTE: Toccato, toccato, lo confesso.

RE: Nostro figlio vincerà.

REGINA: È grasso ed è a corto di fiato. Qui Amleto, prendi il mio fazzoletto, asciugati la fronte. La regina brinda alla tua fortuna, Amleto.

AMLETO: Buona signora.

RE: Gertrude, non bere.

REGINA: Berrò, mio signore, perdonatemi.

RE (A parte): È la coppa avvelenata; è troppo tardi.

AMLETO: Non oso ancora bere, signora – fra un po’.

REGINA: Vieni, fatti asciugare il viso.

LAERTE: Mio signore, lo colpirò adesso.

RE: Non lo credo.

LAERTE (A parte): Eppure è quasi contro la mia coscienza.

AMLETO: Su, al terzo, Laerte, non fai che trastullarti. Io ti prego di attaccare con tutta la tua miglior veemenza. Temo che mi tratti da bambino.  

LAERTE: Dici così? Avanti. (Si battono)

OSRIC: Niente da nessuna parte.

LAERTE: Prendi questa ora!

(Laerte ferisce Amleto; poi nel corpo a corpo si scambiano le spade, e Amleto ferisce Laerte)

RE: Divideteli, sono infuriati.

AMLETO: No, avanti ancora. (La Regina cade)

OSRIC: Guardate la regina lì, oh!

ORAZIO: Sanguinano tutti e due. Come state, mio signore?

OSRIC: Come va, Laerte?

LAERTE: Ah, come un merlo preso nel mio stesso laccio, Osric. 

Sono giustamente ucciso dal mio stesso imbroglio.  

AMLETO: Come sta la regina?

RE: È svenuta a vederli perdere sangue.

REGINA: No, no, il vino, il vino – o mio caro Amleto –  Il vino, il vino! Mi hanno avvelenata. (Muore)

AMLETO: O infamia! Oh, sprangate le porte!

Tradimento! Scovatelo! 

LAERTE: È qui, Amleto. Amleto, sei morto. Non c’è medicina che ti può giovare, in te non resta che mezz’ora di vita. Lo strumento del tradimento è nella tua mano, non spuntato e avvelenato. L’inganno vile si è ritorto su di me; guarda, sono qui a terra, per non alzarmi più. Tua madre è avvelenata – Non ce la faccio più –  il re, è il re il colpevole.

AMLETO: Anche la punta avvelenata!

Allora, veleno, al lavoro. (Colpisce il re

TUTTI: Tradimento! Tradimento!

RE: Oh, difendetemi ancora, amici, sono soltanto ferito.

AMLETO: Qui, tu incestuoso, assassino, dannato danese, finisci di bere questo vino. È qui la tua perla?

Segui mia madre. (Il re muore)  

LAERTE: È servito giustamente, è un veleno preparato da lui stesso. Scambiamoci il perdono, nobile Amleto; la mia morte e quella di mio padre non ricada su di te. Né la tua su di me. (Muore)

AMLETO: Il cielo te ne liberi. Io ti seguo.

Sono morto, Orazio. Regina sventurata, addio.

Voi che assistete pallidi e tremanti a questo evento, e siete solo comparse e spettatori di questo atto, se solo avessi tempo, ma questo sergente brutale la morte è inesorabile nel suo arresto, oh potrei dirvi – Ma sia così. Orazio, sono morto, tu vivi; racconta su di me e sulla mia causa la verità agli increduli.

ORAZIO: Non credetelo; io sono più un romano antico che un danese. Qui c’è ancora rimasto da bere. 

AMLETO: Se sei un uomo, dammi la coppa – lasciala, per il cielo, l’avrò.

O Dio, Orazio, che nome ferito, se le cose restano così ignote, mi sopravvivrà!

Se mai mi hai tenuto nel tuo cuore, assentati per un poco dalla felicità, e in questo mondo feroce prendi il tuo respiro nel dolore, per raccontare la mia storia.

(Una marcia lontana, e un colpo all’interno)

Cos’è questo rumore di guerra?

OSRIC: Il giovane Fortebraccio, tornato vincitore dalla Polonia, e saluta con queste salve guerresche gli ambasciatori d’Inghilterra.

AMLETO: Oh, muoio, Orazio.

Il veleno potente trionfa sulla mia anima.  

Non posso vivere per sentire le notizie dall’Inghilterra, ma predico che l’elezione cadrà su Fortebraccio. Morendo gli do il mio voto.  

Allora diglielo, insieme ai fatti, gravi e minori che mi hanno spinto – Il resto è silenzio. (Muore)

ORAZIO: Ora si infrange un nobile cuore. Buona notte, dolce principe, e canti e voli d’angeli ti accompagnino al tuo riposo. Perché viene qui il tamburo?

Entrano Fortebraccio con tamburi e bandiere, gli ambasciatori inglesi, e altri.

FORTEBRACCIO: Dov’è questo spettacolo?

ORAZIO: Cosa vorreste vedere? Se si tratta d’ogni genere di dolore e stupore, cessate la vostra ricerca.

FORTEBRACCIO Questo carnaio grida di una strage. O morte altera quale festa prepari nella tua cella eterna, che tanti principi in un colpo solo hai abbattuto così sanguinariamente?

PRIMO AMBASCIATORE: Lo spettacolo è atroce, e le nostre notizie dall’Inghilterra giungono troppo tardi. Non hanno più udito gli orecchi che avrebbero dovuto ascoltarci, per sentire che il suo ordine è stato eseguito, che Rosencrantz e Guildenstern sono morti. Dove raccoglieremo il nostro ringraziamento?

ORAZIO: Non dalla sua bocca, anche se avesse la capacità di vita per ringraziarvi; lui non dette mai l’ordine di ucciderli. Ma poiché, giunti a tempo per questo sanguinoso fatto, voi dalle guerre polacche, e voi dall’Inghilterra, ordinate che questi corpi su un palco siano esposti alla vista, e lasciate che io parli al mondo che ancora non sa come queste cose sono avvenute; così  sentirete di atti carnali, sanguinosi e snaturati, di giudizi accidentali, di casuali assassinii, di morti inflitte  volute dal cielo, di uccisioni inflitte con astuzia e inganno, e, e in questo epilogo, di propositi errati ricaduti sulle teste di chi li ha inventati. Tutto questo io posso riferire con fedeltà. 

FORTEBRACCIO: Affrettiamoci a sentire, e chiamiamo i più nobili ad ascoltare. Per quanto mi riguarda,  con dolore io abbraccio la mia buona sorte. Ho dei diritti immemori su questo regno, che ora l’occasione mi invita a rivendicare.

ORAZIO: Anche di questo dovrò parlarvi, a nome di colui il cui voto ne chiamerà altri. Ma questo stesso sia subito realizzato, proprio mentre le menti degli uomini sono sconvolte, perché altri misfatti non si aggiungano per intrecci ed errori.

FORTEBRACCIO: Quattro capitani portino Amleto come un milite sul palco, perché egli di certo, messo alla prova, si sarebbe mostrato un vero re: e per il suo trapasso la musica dei soldati e riti marziali parlino forte per lui. Sollevate i corpi – uno spettacolo come questo si addice a un campo di battaglia, ma qui è assai fuori luogo. Andate a ordinare ai soldati di sparare.

(Escono marciando, e dopo è sparata una salva di artiglieria)



Potrebbero interessarti anche :

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Possono interessarti anche questi articoli :