Magazine Cucina
Maurizio Gimbo è nato a Catania nel 1958, all'ombra del vulcano. Racconta di sé: “Dopo il liceo scientifico mi iscrivo presso la facoltà di giurisprudenza dell'università di Catania, ma a causa delle troppe distrazioni che la vita mi offre (fra cui una motocicletta) non riesco a portare a conclusione gli studi di legge, cosa di cui mi pentirò amaramente. Dopo il servizio militare, svolto nell'Arma dei carabinieri, inizio a lavorare nel mondo dell'informatica, lavoro che svolgo tutt'ora. Sposato e poi separato, due figli maschi di 15 e 23 anni. Una grande passione per il vino, per la natura, per i viaggi e per la bellezza in tutte le sue forme”.
Per “Wine on the road”, quinto concorso letterario di Villa Petriolo, scrive il racconto “Codice rosso”. Buona lettura!
Racconto “Codice rosso” di Maurizio Gimbo
“Buongiorno, sono Rossi, mi spiace ma il mio volo ritarderà un paio d’ore, ci pensa lei ad avvertire i medici del pronto soccorso? Si, diciamo intorno alle diciassette. Grazie, molto gentile”. Inizia male la giornata. Arrivato in ospedale, li trovo tutti lì, seduti ad aspettarmi. Il tempo è denaro e a Milano diventa oro, lo capisci dall’espressione dei presenti; così mi scuso per il ritardo e tiro fuori il computer portatile per cominciare la conferenza.
Ci sono almeno una decina di medici con in testa il primario: una donna sulla quarantina, alta, snella, mora. Non è bella, ma il suo viso esprime intelligenza, gli occhi scuri e profondi dietro gli occhiali da vista con montatura alla Superman ti squadrano senza pietà. Mi avvicino e le tendo la mano.
“Antonio Rossi”, le dico con un sorriso che vorrebbe essere di scusa; lei senza nessuna espressione particolare risponde: “Tiziana Bianchi, piacere”.
Molto interessante nel complesso, penso. I medici ascoltano in silenzio, attenti. Ogni tanto la dottoressa Bianchi mi interrompe per qualche domanda sui vari argomenti, ma sempre senza tradire alcuna emozione.
Dopo quasi tre ore ho finito. Visibilmente stanchi, i medici salutano e vanno via. Io mi attardo per riporre il portatile nella custodia, mentre la dottoressa Bianchi rilegge i suoi appunti. “Allora dottoressa, che ne pensa?” chiedo sperando di strapparle un commento.
Ma lei mi guarda fisso attraverso i suoi occhiali e risponde: “Non so, devo rifletterci”. Incoraggiante, non c’è che dire. Una sfinge tradirebbe più emozione. Mi rassegno e faccio per uscire dalla stanza, quando mi sovviene in mente che non conosco la zona e non ho idea di dove andare a cenare. Non ho mangiato nulla tutto il giorno e ho una fame da lupo. Mi giro e quando sono sulla porta e le chiedo: “Ha idea di dove si possa mangiare qualcosa di decente da queste parti?”
Lei solleva il suo sguardo inespressivo dai fogli e sembra per un momento perplessa. Poi qualcosa si illumina sul suo volto, ma solo per un attimo.
“Si, proprio qui a cento metri c’è un ristorante che credo sia sulla guida Michelin, dovrebbe essere buono”.
“Ah, meno male” rispondo; poi d’istinto le chiedo: “Vuole farmi compagnia?”.
Accidenti, mi dico, ma che cavolo fai? Passano due interminabili secondi, lei mi guarda con un’espressione vagamente perplessa, poi accenna un sorriso.
“Perché no? Ho fame”.
Per un attimo penso di aver capito male e rimango interdetto. Però mi riprendo subito e con un sorriso le dico: ”Benissimo, allora andiamo? Ho fame anch’io, non mangio da stamattina”.
Entriamo in un tipico locale milanese, moderno, arredato con gusto, luci soft e un tocco di esotico rappresentato da piante tropicali disseminate per il locale. Ci sediamo a un tavolo e subito il cameriere ci porta il menù. C’è poca gente, forse perché il posto è troppo caro. Tanto paga l’azienda. Adesso che siamo seduti di fronte la guardo meglio. Si è tolta gli occhiali e giurerei che ha cambiato espressione. Sembra quasi umana, ogni tanto accenna un abbozzo di sorriso. Ha sicuramente un bel corpo, lo intuisco sotto il tailleur grigio severo e professionale. Unica concessione alla civetteria femminile, una collana di corallo rosso che spicca sulla sua pelle bianca. All’apparenza una donna austera. Ma nei suoi occhi leggo una nota dissonante. Chissà, forse mi sbaglio.
Ordiniamo un filetto con salsa al vino e frutti rossi. Poi prendo la lista dei vini e scelgo senza esitazione e senza chiedere. Lei mi guarda interrogativa.
Le dico: “Aspetti e vedrà. Si fidi”.
Quando il cameriere arriva col vino, spio le sue reazioni. Sembra interessata a quella bottiglia dalla forma stranamente tozza. Mentre il cameriere stappa il vino lei cerca di leggere l’etichetta senza riuscirvi. Adesso la sua espressione è decisamente di curiosità.
Mi guarda e accenna, con uno strano sorriso, al cameriere che si dà da fare col cavatappi. Un segno di complicità? Finalmente, aperta la bottiglia, il cameriere fa per versare il vino nel mio bicchiere, ma lo fermo e gli dico che può andare, a quello ci penso io. Il tipo rincula con un lieve inchino, senza una parola, da professionista consumato.
“Adesso vediamo che ne pensa” le dico versando un poco di vino nel suo bicchiere e subito dopo nel mio. Il colore è rosso intenso, sembra sangue, con riflessi violacei. Lei prende la bottiglia dalla mia mano sfiorandomi con le dita. Legge l’etichetta e sorride.
“Questo vino è siciliano. Scelta campanilistica”.
Sorrido anche io e le dico di provarlo prima di dare giudizi. Lei accosta il bicchiere alle labbra piene, ben disegnate, io annuso il mio bicchiere e la guardo.
Dopo il primo assaggio vedo finalmente un’espressione di approvazione nei suoi occhi. “Davvero notevole”.
Annuisco e le chiedo: “Cosa sente?”.
Lei si concentra e annusa il bicchiere. “Frutta matura?”.
“Ciliegie. Amarene, per essere precisi”.
Le si illumina lo sguardo.
“Già, ecco si, amarene! Era da tanto che non sentivo questo profumo. Da bambina mi ricordo che la mamma mi preparava spesso una bevanda con le amarene.”
Adesso la sua espressione è più naturale, più spontanea. Anche la voce è più bassa, quasi sensuale. Mentre gustiamo il nostro vino arriva il filetto. Cominciamo a mangiare in silenzio, abbiamo fame tutti e due. Verso dell’altro vino nei bicchieri. Lei beve a piccoli sorsi ma ripete l’operazione ad ogni boccone. Io faccio lo stesso, e il livello della bottiglia scende rapidamente, mentre sale di tono l’umore e la conversazione se ne avvantaggia.
Mi racconta della sua infanzia in Puglia, un paesino vicino Lecce, i sapori e i profumi di quell’infanzia rimasti indelebili nella memoria, il colore del mare, gli odori di erbe aromatiche portati dal vento.
A un certo punto le dico: “Lei è una scoperta, dottoressa, pensavo fosse una specie di Cyborg e invece scopro una donna….”.
Lei mi guarda e ride.
“Io un robot? Niente di più sbagliato, è che il mio lavoro mi costringe a sembrarlo”. E subito dopo aggiunge: “Mi chiamo Tiziana e il tuo nome? Non ricordo…”.
“Antonio” le rispondo cercando di dissimulare l’incredulità. Il cambiamento radicale del suo atteggiamento mi spiazza. Possibile che il vino faccia questo effetto in così poco tempo? Il resto della cena ci vede sempre più sciolti e in confidenza. Le parlo di me, accenno qualche concetto filosofico sulla mia personale visione della vita, sulla passione per il vino acquisita sin da ragazzo grazie a uno zio che mi ha insegnato tante cose. Lei mi guarda con i suoi occhi grandi, intelligenti e curiosi. Mi studia anche lei, forse le piaccio. Siamo arrivati alla fine della bottiglia e la nostra conoscenza ha fatto passi da gigante. Al dessert siamo quasi intimi. Lo accompagniamo con un magnifico passito di Pantelleria.
“Anche questa scelta ti sembra campanilistica?” le dico sornione.
“Assolutamente si, ma necessaria. Niente può paragonarsi a questo passito” dice lei guardandomi fisso negli occhi.
Sento uno strano calore che sale su dallo stomaco fino ad arrivare al cervello. La dopamina scorre. Ricambio lo sguardo intenso. Fisso le sue pupille cercando di sfocare tutto il resto. Non mi riesce. I miei occhi scendono sulle sue labbra, poi sul seno che si intravede dalla camicetta. Verso un altro po’ di Passito senza staccarle gli occhi di dosso. Adesso il silenzio è denso, pastoso, carico di aspettative. Proprio come questo vino.
Usciamo dal ristorante dopo le dieci. Fa freddo. “Ti do un passaggio in albergo” mi fa lei senza guardarmi. “Grazie, sei gentile” rispondo cercando il suo sguardo. Saliamo in macchina, lei mette in moto. Poi si gira a guardarmi per un attimo, prima di partire. Come a dire: “So a cosa stai pensando”. Arriviamo in pochi minuti sotto al mio albergo. Lei si ferma e spegne il motore. Mi giro verso di lei. Si, decisamente il vino ha cambiato questa donna e la serata. E’ un’altra persona quella che ho davanti. Occhi luccicanti, sguardo ammorbidito, un’espressione d’intesa, di complicità sul viso, impensabile fino a quel pomeriggio. Allungo un braccio sulla sua spalla e l’attiro verso di me mentre avvicino la mia bocca alla sua. Mi fermo. Ci guardiamo negli occhi, cercando di decifrare il significato del momento. Attimo fermati, sei bello, penso. Ma la magia viene interrotta dalla vibrazione del suo cellulare.
“Scusa un momento” fa lei con espressione contrariata, mentre risponde.
“Si, Giovanni, cosa c’è? Capisco, arrivo subito.”
Ha di nuovo l’espressione di prima della cena. Brutto segno. La guardo interrogativo.
“Devo tornare subito in ospedale, c’è un’emergenza. Un brutto incidente stradale con diversi feriti gravi. Scusami”.
Sospiro rassegnato e scendo dalla macchina. La guardo un’ultima volta mentre rimango con lo sportello aperto. Lei mi sorride.
“Sono stata bene. Quando mi offrirai un’altra bottiglia di quel vino?”.
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