La Turchia ha bloccato l'accesso a Twitter. E' stata una decisione amministrativa, politicamente esplosiva, rivendicata con orgoglio nazionalista dal premier Recep Tayyip Erdoğan; è stata la prima significativa applicazione della nuova legge restrittiva su Internet.
La posta in gioco è molto specifica: contrastare il flusso di rivelazioni scomode e apparentemente incriminanti che - dopo l'inizio della Tangentopoli turca, il 17 dicembre - invadono con cadenza quotidiana i social network, con l'intento di distruggere la carriera politica del primo ministro e rovesciare le fortune del Partito per la giustizia e lo sviluppo (Akp, conservatore d'ispirazione islamica) nelle elezioni municipali del 30 marzo. La notizia ha fatto il giro del mondo: ha provocato sdegno, ha acceso un infuocato dibattito interno.
Dopotutto, i social network sono al centro della vita politica turca; sono utilizzati non solo dalle nuove generazioni, ma anche da ogni politico che si rispetti del partito di maggioranza: Erdoğan e il presidente Abdullah Gül hanno milioni di follower, ministri e deputati li usano in prima persona per rimanere in contatto con l'elettorato e discutere con intellettuali e giornalisti, il controverso sindaco di Ankara Melih Gökçek ha ignorato il bando di venerdì per cancellare - con un tweet surreale - un dibattito su Twitter coi suoi sostenitori previsto per dopo la preghiera di mezzogiorno. Lo stesso Akp - tra i partiti turchi - è quello che da anni fa il miglior uso del web per le attività di comunicazione, organizzazione e reclutamento: e i suoi giovani militanti sono da sempre agguerritissimi nelle campagne elettorali, di cui sono il braccio operativo e tecnologicamente avanzato.
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