Un grande poeta rivoluzionario
Władysław Broniewski nacque a Płock il 17 dicembre 1897. Educato nello spirito dell’intellighenzia polacca, in cui erano vive le tradizioni delle guerre d’indipendenza e della poesia patriottica del romanticismo, fin dal tempo del ginnasio aderisce ai circoli studenteschi clandestini e a causa della sua attività viene arrestato. Durante la prima guerra mondiale, dopo l’occupazione di Płock da parte dei Tedeschi, il giovanissimo poeta abbandona la scuola e si arruola nelle Legioni. Nel 1918, nella Polonia ormai indipendente, sostiene l’esame di maturità. Nel 1920 prende parte alla guerra polacco-sovietica. Risale a questo periodo l’inizio della sua evoluzione idealistica, non priva di drammatiche tensioni, di ricerche e scelte contrastanti. Le esperienze belliche contribuirono a formare gli orientamenti di Broniewski: inizialmente pacifisti, più tardi sempre più radicali e alimentati dalla lettura dei classici del marxismo.
Nel 1921 Broniewski lascia l’esercito e inizia gli studi universitari, e nel 1922 pubblica i primi lavori sulla rivista “Skamander”. Il suo avvicinamento alla sinistra radicale (all’Università di Varsavia entra a far parte dell’Unione della Gioventù Socialista Indipendente) lo lega agli artisti e agli ambienti culturali comunisti. Assieme a Witold Wandurski e Stanisław Ryszard Stande (entrambi emigrati nell’Unione Sovietica e vittime delle grandi purghe staliniane negli anni ’30) nel 1925 pubblica la raccolta di poesie “Trzy salwy” (Le tre salve). Fino al 1931, anno in cui fu arrestato con tutta la redazione della rivista “Miesięcznik Literacki”, Broniewski collaborò attivamente alla stampa dei periodici legati alla sinistra polacca. Nel 1925 esce la raccolta di poesie “Wiatraki” (Mulini a vento), seguita da “Dymy nad miastem” (Fumi sulla città), “Troska i pieśń” (L’ansia e il canto) e “Krzyk ostateczny” (L’estremo grido); nel 1929 uscì anche il poema “Komuna Paryska” (La Comune di Parigi), che venne subito confiscato.
Dopo la disfatta del settembre 1939 lo troviamo a Lwów, dove a seguito di una falsa accusa nel ’40 fu arrestato dalle autorità sovietiche che allora occupavano la città. Liberato nel 1941, seguì l’armata del generale Anders in Medio Oriente e fino al termine della guerra soggiornò in Palestina. Durante l’occupazione nazista della Polonia uscì la celebre raccolta “Bagnet na broń” (Baionetta in canna), nella quale esortava tutte le forze patriottiche del paese ad unirsi nella lotta contro il flagello tedesco.
L’incessante pensiero del martirio della Polonia, l’inquietudine per le sorti dei propri cari rimasti nel paese, il tormento dell’impotenza e della lontananza, e soprattutto la nostalgia per la natia Mazovia, per la Vistola e il paesaggio della campagna – creano la nota dominante del volume “Drzewo rozpaczające” (L’albero che si dispera), uscito a Londra nel 1945.
Nel 1946 Broniewski torna in patria e da quel momento la sua poesia accompagnerà inseparabilmente la rinascita della Polonia dalle rovine della guerra. Il volume “Nadzieja” (La speranza), pubblicato nel 1951, inizia questa fase della creazione di Broniewski, satura di entusiasmo per la ricostruzione del paese e di incrollabile fede nel socialismo.
Il profondo amore per la terra natia, per le incantevoli pianure della Mazovia, per le verdi rive della Vistola, i laghi e i boschi mazuri, i ricordi degli anni dell’infanzia, infine la matura meditazione sulla propria vita – colmano le strofe dei poemi “Mazowsze” (Mazovia) e Wisła (La Vistola). Queste due opere costituiscono al tempo stesso un’agenda lirica delle sensazioni, dei pensieri e sentimenti provati durante una spensierata peregrinazione attraverso il paese in compagnia della figlia.
Particolarmente intense e commoventi sono le liriche dedicate alla moglie Maria, ex prigioniera ad Auschwitz e morta qualche anno dopo la guerra in un sanatorio svizzero, e alla amatissima figlia Anka, che morì nel 1954 gettando il poeta in una cupa disperazione. Nella poesia di Broniewski gli elementi del canto rivoluzionario s’intrecciano inscindibilmente con i più profondi sentimenti del poeta, con le sue esperienze personali. Appunto per questo essa possiede il dono di parlare al cuore delle persone semplici. Egli è il cantore delle bellezze della natura polacca, è maestro della parola e dell’immagine poetica, con le quali è riuscito a rendere la semplicità e la trasparenza raggiunte soltanto dai più grandi lirici. Broniewski fu il creatore della lirica rivoluzionaria polacca negli anni tra le due guerre, e uno dei poeti più popolari cimentatisi nella lotta per la libertà durante la seconda guerra mondiale. Morì il 10 febbraio 1962 a Varsavia. Di Władysław Broniewski presento qui quattro liriche e il poema “La Comune di Parigi” nella mia traduzione.
(Paolo Statuti)
Non so cos’è la poesia, non so perché c’è e a che serve…So che a volte chi legge dei versi piange… (Władysław Broniewski)
Che m’importa
Se ho in mano un fucile che nella lotta non s’inceppa,
che m’importa della Libia, che m’importa della steppa,
della prigione, della vita randagia, della fame –
la gioia di soldato ho nel sacco, con le cartucce e il pane!
Non mi servono ricompense, né ghirlande di gloria,
ma solo scarpe robuste, per arrivare in Polonia.
Voglio che rimbombi sul sacro selciato di Varsavia
Il tacco rimesso a Narwik, il chiodo spezzato in Africa.
Quante terre abbiamo calcato, quanti paesi girato,
ma era sempre Polonia sotto ogni suola di soldato!
Che m’importa delle ricchezze – amo i canti più di tutto,
sette granate tedesche la mia casa hanno distrutto.
C’era attorno alla casa un giardino, e in esso fiori e piante…
Da quella terra le tedesche granate voglio estrarre!
Voglio baciare il suolo che da bambino ho amato tanto,
e se dovrò cadere, che ciò sia in Mazovia soltanto.
Che m’importa, compagno! Attraversiamo i continenti,
volano i nostri aerei, scorrono i nostri bastimenti,
noi mostreremo al mondo che la Polonia meritiamo,
purché la scarpa sia robusta e sia il fucile nella mano.
1943
Poesia
Come notte di maggio tu giungi,
che sonnecchia nel timo, d’argento,
come luna va il sonno più lungi,
e di timo profuma il tuo accento,
vai silente per tenebre insonni
- così il bosco di notte conversa –
frasi oscure, sussurri i tuoi sogni,
e ti bagna una voce sommersa…
Ma non basta! No! Questo è poco!
Il tuo suono ci offusca la mente!
Dona ai vivi un respiro di fuoco,
dona ali ed un vento ruggente!
Il sussurro a noi più non basta.
La tua voce è ormai fredda, meschina.
Col tamburo la marcia sovrasta!
Fatti sferza! Coi canti trascina!
Ci son gioie semplici e umane,
c’è una vita più bella e incorrotta. –
La tua voce sia il nostro pane,
stacci accanto e comanda la lotta!
Non ci serve la bianca vestale,
la notte il sacro fuoco non lede –
nella lotta sia come uno strale,
sia una torcia che al vento non cede!
Cambia, cambia le nostre parole,
dacci un canto più ardente e più schietto,
un amore infinito ci vuole
che ci strappi più pena e diletto!
Se nel canto hai bisogno dell’arpa,
se con essa si vincono i tuoni,
dimmi allor – le tue vene strappa,
siano corde e con esse si suoni!
Colpisca il canto fino alla morte,
che cessi il sibilo del serpente.
C’è dei versi più bella una sorte.
C’è l’amore. L’amore vincente.
Dunque, i toni più semplici rendi,
sian tra i semplici – i più pacati,
e nell’eterno i morti distendi,
come drappi dal vento stracciati.
1927
In treno
Guarda, corre il sermollino col cardo –
Chi sarà il vincitore? –
per darci ad ogni precario traguardo
della gioia l’odore.
Come dalla pena nella gaiezza,
si sporgiamo dal treno,
contro questa gioia non c’è salvezza:
ci trascina al suo seno.
Di sorpresa e per un motivo ignoto,
nel sole che alto sta,
così come un alloggio, il cuore vuoto
s’affolla di felicità.
Silenzio nel cuore. Com’è facile
recargli turbamento.
Proteggi l’attimo, come una face,
riparalo dal vento.
1939
I miei funerali
Non c’è terra che più mi commuova,
non voglio, né lasciarla potrei,
con la Vistola e i venti di Mazovia
qui son frusciati i primi anni miei.
Campi e pioppi dalla mia stanza,
ed io lo so – la Polonia è questo.
Di qui la gioia, ma anche l’ansia,
qui nelle parole un’arma ho messo.
E capirà la terra le parole,
pur se come sangue stilleranno:
perfino i muri della prigione
ai versi come all’edera si danno.
Qui con la foglia più silenziosa
mi parlano i salici fidenti,
qui il mio cuore conosce ogni cosa,
qui morrò – dove altrimenti?
E quando morirò, coprimi bene,
o terra nota, nera, saggia,
e dei pioppi le lugubri catene
lascia che mi seguan col paesaggio.
Nel tumulto del fogliame argentato
oda gli alberi sul fiume stormire
tutto ciò che ho sentito ed amato,
tutto ciò che non finii di dire.
La Comune di Parigi
Elle se ne rende pas la Commune de Paris
Ascoltando, sii forte,
le labbra stringi.
Ecco come affrontò la sorte
la Comune di Parigi.
I
Cupi rombavano i tamburi,
le prime fucilate
all’alba scheggiavano i muri,
sorgevano barricate.
Un fortilizio s’arrende,
la fine è vicina.
Come da vene il sangue scende
da ogni strada parigina.
Ma la Comune accetta la sfida,
per morire non è tardi!
Parigi rabbiosa grida:
“All’assalto, comunardi!
Lavoratori, all’assalto!
Figli! Donne! Vivremo!
Sangue a fiotti sull’asfalto,
ma anche per oggi ne avremo!
Prima che il canagliume
sui nostri corpi rovini,
alle barricate, o Comune,
all’assalto, cittadini!”
II
Laggiù i rossi son battuti,
ed ecco, d’acciaio splendenti,
a Montmartre son piovuti
di Versailles i reggimenti.
E là, dove a marzo han fucilato
I generali Thomas e Lecomte,
solleva l’arma un graduato
e urla davanti al fronte:
“Soldati! Questi furfanti
sterminate in un momento!”
I soldati ottusi e zelanti
ne addossano al muro oltre cento.
Al crepitio degli spari
il suolo si fa vischioso.
Sotto i chepì dei sicari
si cela l’occhio furioso.
III
A Père-Lachaise già fioriscono i castagni,
profuma l’erba schiacciata da coloro
che in essa giacciono – i compagni
morti “in nome del diritto e del lavoro”.
Generale Galliffet, doma la rivolta,
che ai tuoi soldati si fiacchino le mani!
Oggi quaranta! Duecento alla volta!
Cinquemila! Diecimila domani!
Generale Galliffet, per l’esecuzioni
la Francia una medaglia ti darà!
Galliffet, hai il sangue sui calzoni!
Galliffet, assassino, puzzi di viltà!
Nel cimitero Pére-Lachaise il giorno langue,
biancheggia il muro nel buio serale.
No, non è l’erba che profuma – è il sangue!
Non è un cimitero – è un covo spettrale!
IV
Notte, notte d’incendi,
greve, nefasta.
La Comune come nembi
il pericolo sovrasta.
Capisaldi distrutti,
speranze allo stremo.
“Cittadini, presto tutti
a turno periremo”.
Dąbrowski a terra giace,
Raoul Rigault soccombe,
ai crocevia – una strage,
si scavano le tombe.
Tu, branco di sparvieri,
che il popolo disarmi:
generali, banchieri,
preti e gendarmi!
A Parigi! Vendetta!
I boia han decretato:
croce e baionetta
sul proletariato.
Ma Parigi sa morire,
Comune, alla riscossa!
Libertà! A te fluire,
la tua acqua è rossa…
V
“Cittadino Delescluze, giù la testa, incosciente!
La barricata cadrà, lì la morte è sicura!”
Ma il vecchio con la fascia rossa non sente,
sta ritto, poggiandosi al bastone, non ha paura.
Place Château d’Eau conquistata. Altrove,
a destra, si resiste, s’è arresa la riva manca.
“Cittadini, avanti!” Ma nessuno si muove.
Il vecchio è solo. Il vento arruffa la chioma bianca.
Passo passo, a fatica, giunse alla barricata,
e là, tra i cadaveri di cento comunardi,
come il capitano d’una nave abbandonata,
il delegato della Comune cadde.
Strepito e spari. I versagliesi fanno una barriera.
La strada è vuota. A terra solo quel corpo nell’ombra,
inerte, come dall’asta una lacera bandiera,
il selciato è il suo stendardo, e Parigi – la tomba.
VI
Incendi, incendi, incendi
E nel fumo ancora si spara.
Parigi, no, non ti arrendi!
Sanguinante, incantevole, amara!
Anche se dovrai cadere,
ché non c’è scampo oramai,
per vendicar Delescluze e Millière
gli ostaggi al muro metterai:
gesuiti, spie, un prete grasso,
un banchiere, un poliziotto…
Ma il numero è basso:
soltanto quarantotto.
VII
La morte s’affretta,
contate le ore:
la baionetta
sul lavoratore.
Inondazione
di sangue umano.
A lungo un rione
rintrona lontano.
Ancora non basta,
ancora si spara!
La pioggia nefasta
il cielo rischiara.
Carica! Fuoco!
Alla baionetta!
S’ode un grido roco:
“Non cedere, aspetta!”
VIII
Lotta, o barricata!
Muori, o barricata!
Canto di Parigi,
trasformati in rombo!
Come un rossoalato
stormo di uccelli
vola oltre i corpi
sull’ali del piombo!
Lotta, o barricata!
Perisci, o indomita!
Verrà la vittoria,
verrà il giusto premio.
O lavoratori,
tenetelo a mente!
O proletariato
di Francia e del mondo!
Muori, o barricata!
La bandiera in alto!
Invitta e libera,
cadi impassibile,
severa, l’ultima
nella morta città,
indistruttibile,
indistruttibile!
IX
Oltre trentamila i fucilati,
centomila gettati in catene.
Dissanguata, senza più boati,
Parigi intorpidita geme.
Un proclama è stato emesso:
“Parigini – c’è scritto –
nella città tornano adesso
lavoro, ordine e diritto…”
Il selciato divelto
mostra i denti di pietra,
stridìo di catene, a passo svelto,
marcia la soldataglia lieta.
Borghesia, ritorna da Versailles!
Ringrazia pure il tuo dio!…
Gli ultimi fuochi ardon qua e là,
le strade son vuote. Comune, addio!…
1928
(C) by Paolo Statuti