Ho finito le scuole superiori da qualche anno. Quando conosco persone nuove, capita talvolta che, parlando del più e del meno, si passi a rievocare qualche aspetto del nostro passato da adolescenti. Ammetto di disporre di racconti collaudati, sintetici ma efficaci, che credo rendano bene l'atmosfera che percepivo nella mia vecchia scuola.
E' passato talmente tanto tempo - o almeno io lo percepisco come tale - che mi viene spontaneo rivolgere ringraziamenti sbilenchi alle persone che si impegnarono per farmi sentire irreparabilmente diversa e fallata. Se ora la scrittura è il mio esercizio salvifico, lo devo a loro.
Continuo a trovare ironico il fatto che la mia rabbia quotidiana venisse letta come prosa umoristica. Ricordo che un giorno scrissi un post surreale in cui parlavo di rinchiudere alcune mie compagne in un bagno della scuola e dar loro fuoco. Immagino che loro non lo ricordino, ma quel giorno ero stata ripetutamente presa in giro perché indossavo una bella gonna dismessa da mia madre, che evidentemente non incontrava i loro raffinatissimi gusti. Alla penultima ora avevamo latino. Quando mi alzai dal mio banco per andare alla cattedra a consegnare un compito per casa, una ragazza che all'epoca conoscevo poco mi alzò la gonna mostrando all'intera classe le mie tristi mutande bianche e il mio imbarazzato didietro. Tutti risero e io tornai al mio posto senza dire nulla. L'ultima volta che mi era successa una cosa simile ero all'asilo. Non dissi nulla ai miei genitori perché mi vergognavo troppo, ma riuscii a passare oltre e a mostrarmi inscalfibile scrivendo di quelle risate crudeli e rileggendo poi le mie parole.
Durante quegli anni trovavo conforto nel dirmi che ero diversa dalla maggior parte delle persone della mia scuola. Faticavo ad intavolare discorsi che interessassero agli altri. Ad un certo punto cominciai a costruirmi addosso una narrativa epica, onde arrivare alla fine della quinta con il minor numero possibile di ferite ed ematomi. Le parole erano il mio scudo e il mio specchio riflettente. Le mie parole e quelle di altri.
Sono passati molti anni dal giorno in cui immaginai di dare fuoco alle mie compagne di scuola, o da quello in cui, al termine della preghiera mattutina, qualcuno chiese la parola, per poi cominciare a leggere a voce alta uno dei miei post più riusciti davanti a tutta la classe e, infine, chiamarmi pazza. Non penso più molto spesso a quegli episodi, anche perché restano dolorosi da rievocare, soprattutto perché essi mi portarono, per un breve periodo, a vedere la parola scritta come scaturigine di sofferenza, invece che come cura.
Ciò che occupa i miei pensieri ora è l'urgenza di comprendere l'origine contestuale del mio disagio e del senso di alienazione che provavo a scuola. So di non essere nata così come mi sentivo allora. Ho conosciuto tante altre persone che, raccontandomi la loro storia, mi hanno rivelato di aver vissuto qualcosa di simile a ciò che vissi io. In questo, so di non potermi dire "speciale" o "particolare". Non so come arrivai a sentirmi così diversa dagli altri, anche se capisco di aver avuto la fortuna di scoprire presto la via della scrittura. So di essere privilegiata, in tal senso, e l'ho già detto altre volte. Avevo libri in casa e persone che mi incoraggiarono a diventare un'avida lettrice e che, da un certo momento in poi, presero seriamente quello che scrivevo. In più disposi di un collegamento a internet in casa già dalle medie, a differenza di molte altre persone della mia età. Ebbi l'occasione di scoprire mondi interi nel momento in cui mi sentivo più oppressa dagli obblighi scolastici e dall'apparente mancanza di persone con cui parlare di ciò che mi interessava.
A volte capitano cose che mi spingono a desiderare la rimozione di tutto ciò che costruisce vestigia di quegli anni. Finiscono sempre per tornare a mettere in dubbio la mia natura di essere umano degno, la complessità che cerco di articolare con le mie povere parole, il rispetto che so di meritare.
Scrivo articoli su questioni che mi stanno a cuore (il peso delle parole, la violenza sessuale) e, a distanza di quella che mi pare una vita intera, raccolgo ancora questo:
Vorrei poter rispondere una volta per tutte. Vorrei essere abbastanza brava da parlare la lingua di queste persone, affinché mi comprendano. Ma so di non essere abbastanza brava, così come so di essere stata forse fin troppo tagliente, nei giorni in cui la mia rabbia era tale costringermi a scrivere con gli occhi inondati di lacrime. Mi dispiace di aver fatto stare male le persone che facevano stare me, ma non lo feci mai gratuitamente.
Questi messaggi sono missive dal passato. Fanno male, perché aprono scatole impolverate e, come in un sogno, mi riportano indietro alla mia vita precedente, quella in cui era fin troppo facile prendermi in giro e farmi sentire orribile. Li accetto, prendo atto di ciò che viene scritto e detto su di me da persone che tutt'ora mi considerano patetica.
Il fatto è che so di non essere patetica. Non lo sono mai stata. So di essere una persona degna. So anche di essere una scrittrice degna, se non altro perché negli anni ci sono stati diversi ragazzi e ragazze che mi hanno ringraziata per il modo in cui ho parlato online e sulla carta stampata delle mie esperienze. Mi hanno detto di essersi sentiti meno soli, di aver trovato un appiglio nelle mie povere parole. Questo è ciò che conta per me. Non la gara a chi è più figo, a chi ha più soldi, a chi sa essere più crudele.
Le offese e gli sputtanamenti a scoppio ritardato non fanno altro che ricordarmi quali sono i motivi per cui ho cominciato a scrivere.