Lo Xinjiang, fino al 1949 Repubblica del Turkestan orientale, dal 1955 è una regione autonoma della Repubblica Popolare Cinese nord-occidentale. Con i suoi 1.660.000 kmq di estensione è la provincia più grande della Cina, ma detiene anche un altro primato nella nazione: dal 1949 ad oggi ha subito il più clamoroso cambio di bilanciamento etnico all’interno della sua popolazione. All’inizio degli anni ‘50 del secolo scorso i 4.333.000 abitanti dello Xinjiang erano ripartiti tra il 76% di uiguri – etnia turcofona di religione islamica – , il 10% di kazaki, il 7% di cinesi han – il gruppo etnico maggioritario della Cina – e il restante 7% di gruppi etnici minoritari. In seguito a decenni di politiche di migrazioni coatte, l’odierna popolazione dello Xinjiang ammonta a circa 21 milioni di abitanti (i dati sono del 2010) e si compone per il 41% di han, per il 45% di uiguri, per il 7% di kazaki e per il 7% di altre 13 minoranze etniche.
Era quasi ovvio che lo sconvolgimento operato sugli equilibri della popolazione avrebbe portato a scontri e tensioni all’interno della regione: se da un lato gli uiguri rivendicano da anni l’indipendenza dalla Cina e dallo sfruttamento imperialista che Pechino opera sulle abbondanti risorse minerarie – uranio in particolare – e petrolifere dello Xinjiang, dall’altro gli han si sentono discriminati dalla parziale autonomia politica concessa dalla Cina alla regione per ragioni etniche.
Queste tensioni sono nate in seguito alla fine dell’esperienza della Repubblica del Turkestan orientale e all’annessione alla Repubblica Popolare Cinese: la Cina ha ovviamente definito l’episodio come “pacifica liberazione dello Xinjiang”, mentre gli uiguri sostenitori dell’indipendenza hanno percepito l’intervento dell’Esercito di Liberazione Popolare nel 1949 come un’invasione e l’annessione come assolutamente forzata.
Nel corso di più di 60 anni di convivenza tra etnie in conflitto, le tensioni sono sfociate in più di un’occasione in eventi traumatici e violenti. L’esodo kazako del 1962, che vide 60.000 rifugiati entrare nel territorio dell’Unione Sovietica. Le rivolte a Ghulja – poi ricordate come massacro di Ghulja – a inizio febbraio 1997: portarono al crollo del governo locale e all’esecuzione di 30 attivisti uiguri. L’attentato terroristico ad Urumchi, capitale dello Xinjiang, del 25 febbraio 1997: l’esplosione di diverse bombe sugli autobus della città provocò 9 morti e 68 feriti. Proprio nel 1997 la pasionaria e scrittrice uigura Rebiya Kadeer, deputata dell’Assemblea Popolare, pronunciò un duro discorso sulla questione uigura di fronte alla dirigenza cinese: sposata ad un attivista per i diritti degli Uiguri espatriato negli Stati Uniti, Sidik Rouzi, nel 1999 fu processata e imprigionata con l’accusa di essere affiliata al movimento separatista uiguro. Fu poi scarcerata ed esiliata negli Stati Uniti, in seguito a pressioni degli Usa stessi sul governo cinese.
Nel 2014, la situazione non accenna a migliorare: l’APM, Associazione per i Popoli Minacciati, stima che tra aprile e maggio siano stati arrestati indiscriminatamente 480 Uiguri, senza distinzioni tra gli attivisti che protestano pacificamente e i responsabili di attacchi terroristici – si ricorda quello dello scorso 23 maggio in un mercato ortofrutticolo di Urumchi, con un bilancio di 43 morti – e di violtenti scontri con gli Han. Più di 200 dei detenuti sarebbero semplicemente imparentati con indiziati per atti terroristici, ma ancor più drammatico e insensato è stato l’arresto di decine di bambini al fine di prevenire eventuali attacchi terroristici futuri. Il rifiuto del governo cinese di distinguere tra proteste pacifiche ed estremismi violenti non fa che esasperare i conflitti nello Xinjiang, che solo nei primi 5 mesi del 2014 hanno provocato la morte di 125 persone.
Oggi, 8 dicembre 2014, da Pechino arriva la notizia di altre sentenze di morte – che fanno seguito alle numerose pene capitali inflitte nei mesi scorsi – inflitte a 8 detenuti uiguri ritenuti responsabili degli “atti terroristici compiuti la scorsa primavera nello Xinjiang”. Sebbene il numero di condanne capitali sia un segreto di Stato in Cina, le ong stimano che negli ultimi mesi, in relazione alle rivolte uiguri, ne siano state comminate circa 40, metà delle quali sarebbero già state eseguite.