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Per parlare di “XY” ultimo romanzo di Sandro Veronesi, chiariamo subito un malinteso: questo romanzo non è un giallo bensì un’avventura della mente con una denuncia implicita e ben circostanziata: l’assillo della morte nei paesi occidentali. Nella complessa trama che compone il romanzo vengono disattese tutte le prassi del giallo e abbondano invece le teorie psicoanalitiche che sembrano voler condurre ad un interrogativo ben preciso: che cosa accade alla mente umana al cospetto di una strage inconcepibile? Difficile dare una risposta ad un simile interrogativo e forse non c’è nemmeno spiegazione possibile ed ecco quindi l’autore che si limita a raccontare trattando la materia umana dei moti interiori con una prosa avvolgente, strutturando il romanzo sulle voci alterne dei due protagonisti. Figure centrali del racconto che si confrontano in solitarie riflessioni e dialoghi vivacissimi: il parroco don Ermete che parla sempre al passato con un discorrere indiretto e la psichiatra Giovanna Gassion che al contrario del parroco parla sempre in presa diretta. I due ci raccontano in modo alterno quanto accade da due punti di vista diversi sia nella prima che nella seconda parte del romanzo preparandoci a quella che sarà la riflessione finale (terza parte): una riflessione sulla morte e sul lutto. Già perché questo è un romanzo completamente intriso di simboli riguardanti la morte (e se lo analizziamo in questa direzione direi che Veronesi fa riferimento alla produzione kafkiana) a cominciare da quello che sembra essere l’elemento propulsivo di tutta la storia: undici cadaveri trovati sotto un albero (vero e proprio archetipo per tutte le culture del pianeta; l’albero è ciò che connetteva l’umano al divino) che sembrano la somma degli incubi sulla morte dei Paesi sviluppati; un repertorio delle morti orribili che ogni sera il telegiornale ci racconta: cancro, terrorismo, pedofilia, traffico di organi, droga, incidenti funesti. E’ sicuramente un romanzo “spiazzante” ma con la capacità di far riflettere il lettore da un punto di vista etico.
La storia comincia con un massacro e l’atroce rinvenimento dei cadaveri in un bosco del Trentino nei pressi di Borgo San Giuda, frazione isolata completamente dal mondo, dimenticato da Dio, dalla TV, da internet, dai telefonini che conta 42 abitanti in 74 case e 300 tombe al cimitero; un borgo in cui gli abitanti si sono sempre assistiti a vicenda guidati dall’amato parroco. Undici persone uccise ognuna in modo diverso: esalazione di ossido di carbonio, decapitazione da sciabola, soffocamento da crosta di pane rimasta in gola e la più stupefacente riguarda una donna che risulterà vittima delle zanne di uno squalo. A vigilare sull’orrore perpetrato un albero ghiacciato intriso di sangue. E c’è poi una bambina misteriosamente scomparsa. Un accadimento sconcertante e completamente inspiegabile per le autorità al punto che si decide di negare la verità “impossibile” uniformando con segrete manipolazioni (tutti i corpi vengono decapitati) i cadaveri in modo che si possa attribuire l’accaduto ad un attentato terroristico frutto di una cellula islamica. C’è un testimone però che arrivando per primo sul luogo della strage ha visto e non può dimenticare, è don Ermete parroco di San Giuda. Da questo momento in poi tutti gli abitanti del borgo accorsi in un secondo tempo sul luogo della strage e avendo visto la carneficina, precipitano nella follia e perdono la fede fino a ribellarsi al Santo Patrono, quel Giuda Taddeo cugino di Gesù, il Santo dei casi senza rimedio (una cassazione della disperazione) che erroneamente viene accostato al Giuda Iscariota traditore del divino. Le famiglie del luogo cominciano ad odiarsi e attraverso quest’odio riemergono vecchi dolori e si riaprono vecchie ferite: tradimenti, incesti, sordidi segreti. Al prete che ha ormai perso completamente la collettività dalle mani non rimane altro da fare che affidarsi ad una giovane psichiatra, Giovanna Gassion, che si butta anima e corpo nell’impresa di recuperare la collettività in modo da poter dimenticare e guarire dalle ferite di un amore ormai finito. Inutile attendersi una soluzione razionale a questo disastro poiché in quel borgo flagellato ininterrottamente da una bufera di neve sembrano essersi addensate tutte le paure del mondo dovute al manifestarsi del male assoluto. E contro questo male non possono esserci spiegazioni razionali che la psichiatria può addurre tant’è che don Ermete dal suo canto non ha dubbi sulla natura sovraumana dell’evento e attribuisce l’accaduto al castigo crudele, inevitabile per come viviamo la nostra esistenza, di Dio. Ma un uomo di fede come don Ermete cerca di aggrapparsi in tutti i modi al suo Dio muovendo dall’assioma che “si deve capire tutto, altrimenti si deve credere tutto” persuadendosi evangelicamente che il male sia opera di Satana e della sua astuzia in modo da “screditare Dio presso la Creatura e la Creatura presso Dio”. In definitiva di uccidere la speranza.
Come si evince dalla breve descrizione della trama è un romanzo dalla forte tensione filosofica e religiosa; vien da dire un romanzo di disperazione, disperato da meritare esso stesso l’intercessione di San Giuda tanto è avvolto nella tenebra, pregno di malignità e follia. Forse risulta ingombrante e capzioso quando si inerpica sulle alte vette della psichiatria, è stato detto che può benissimo rappresentare la versione narrativa del DSM, il manuale psichiatrico americano, vaso di Pandora dei disturbi mentali. Comunque è pur sempre un romanzo godibilissimo, se vogliamo non all’altezza, di “Caos Calmo” ma pur sempre un romanzo ambizioso con un linguaggio che mescola psicanalisi e fede per esprimere la condizione umana. E interrogandosi sul nostro rapporto con tutto ciò che nella vita è mistero, arriva a toccare la questione ultima e lo fa da due posizioni ben distinte, quella di don Ermete e quella di Giovanna Gassion e allora eccoci alla ben più nota e rilevante diatriba: quella tra Naphta e Settembrini ne “La montagna incantata” di Thomas Mann.
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