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Poi arriva la moglie del cugino, caliente spagnola, e un viaggio con lei sugli asfalti del Messico fino alla stradina sterrata che porta alla Boca del Cielo.
Ritratto di un’adolescenza raccontata troppe volte per stereotipi dal cinema, in cui si amalgamano i soliti elementi portanti: l’alcool, il fumo, il sesso. Ingredienti presi e calati dalla realtà, senza dubbio alcuno, ma sterili – se resi così – ai fini del contenuto. Il presentimento di aver già veduto un Julio e un Tenoch in un film di Harmony Korine o chi per esso è forte, già dalle prime immagini già dalle prime battute. E il contorno di amici strafatti e genitori assenti anche se presenti non erige Cuarón ad innovatore di un genere sondato in lungo e in largo.
Però, il fatto che questa pellicola non sia un esempio di originalità da tramandare ai posteri non significa che sia da bocciare in toto. Anzi no, Y tu mamá también è, se visto a cuor leggero, anche un’opera gradevole per la vitalità che riesce a sprigionare, merito dell’ambientazione, del Messico formicolante e del Messico azzurro del mare (o del cielo), e merito dei due giovinetti che recitano naturali, da strada, con il loro slang preciso e l’immancabile Corona ghiacciata tra le mani.
Certo certo, ci sono brutture degne di nota nella sceneggiatura, veri piegamenti innaturali per favorire il realizzarsi di eventi – che “caso” il tradimento confessato ad Ana poco dopo la proposta del viaggio – o un paio di scenette messe lì per puro esibizionismo attira-babbei. E certo c’è tutto ciò, inevitabile forse trattando queste storie d’adolescenza trasgressiva, e pur vero però che l’interpretazione data da Cuarón è nel complesso una delle meno peggio, apprezzabile per la forza cinestesica che trasmette attraverso il viaggio, da sempre e per sempre luogo di cambiamento formazione e trasformazione, appaiata ad una percezione di stallo, di sosta, d’autunno. Andare avanti per fermarsi e poi ricominciare per fermarsi un’altra volta mentre i protagonisti alla ricerca di un luogo che non conoscono troveranno la strada sulla cartina dell’anima, in un viaggio interiore, sempre scanzonato e scurrile, ma che in un film così, con delle premesse così, non è affatto male.
In più il linguaggio del racconto è ricco. Cuarón ci va pesante con la camera a spalla ma non come ne I figli degli uomini (2006), è un passo quasi felpato, incerto, che si avvicina e allontana agli e dagli attori con un confortante e azzeccato timore. Giusto come le divertenti divagazioni della voce off preceduta da un risucchiamento del sonoro per sottolinearne il momento e cristallizzarlo, che ricordano più di un po’ le mirabolanti digressioni, ricche di colore, fantasia e inventiva, dei romanzieri latini. Teoricamente inutili ai fini della storia, ma piacevolissime da sentire.
Nella sua spontaneità il film è persino (a tratti) bello, soprattutto da vedere per la malinconia di un estate che finisce insieme ad un’amicizia; le cadute di stile ci sono, comunque.
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