Piangere la morte di una figlia, senza nemmeno sapere come è morta. Se davvero è morta.I giornali cristallizzano di staticità le ore passate a setacciare i campi, i boschi, le fondamenta ferruginose di un cantiere maledetto. I cani annusano pezzi d'erba, la pioggia si alterna alla neve di una stagione fredda e umida.Le indagini ruotano attorno ad un marocchino poco più che ventenne, intercettato prima e arrestato poi. L'accusa è la più grave: omicidio e occultamento di cadavere.La giovane ginnasta dal fisico asciutto e il sorriso sincero, ora è solo un cadavere da cercare nell'andro oscuro di un bosco, o sotto la gettata fresca di un cemento pesante.La ragazzina che ha lasciato alle sue spalle il vuoto, un'assenza che pesa come il macigno più spigoloso sul cuore dei suoi genitori, è svanita nei pixel di una foto.La cercano e non la trovano, la cercano anche troppo - troppo rispetto alla ragazzina bionda che si è spenta nel calore gelido di una famiglia sconosciuta. Avevano nomi assonanti, scrive qualcuno, erano simili per età, ora le accomuna la stessa, triste, sorte avversa.Non erano la stessa persona, eppure bisogna trovarci per forza delle cose in comune, per aumentare il pathos e trascinare la linea dell'audience verso vette alte e lusinghiere.Quale lusinga può esserci nel tritare il dolore di una famiglia e risputarlo infarcito di supposizioni e inutili dietrologie? Quale spirito anima commentatori, giornalisti, avvocati, criminologi e periti, seduti comodamente su poltroncine di finta pelle, pronti a prendere difese e lanciare accuse?Due ragazzine sono morte. Una per certo, l'altra si suppone ma non se ha certezza.Due madri e due padri piangono sull'infanzia appena archiviata e l'adolescenza in fiore di due figlie troppo giovani per essere violate, troppo fragili per essere distrutte.Di loro non si parla mai. Sulle loro giovani vite si costruiscono programmi televisivi, colonne di giornali, fiaccolate e raccolte fondi. Si sfregia l'intimità dei loro pensieri, si pubblicano i contenuti dei loro diari, si riempiono le strade dei loro volti sorridenti.Se la prima fosse stata trovata subito, avrebbe potuto godere dell'ultima carezza di sua madre. Se la seconda si trovasse ora, forse sarebbe ancora viva, o forse no. Certo, avrebbe anche lei quell'ultimo abbraccio che le consentirebbe di slegarsi dall'angheria dell'oltraggio compiuto su di lei, forse tornerebbe ad essere una bambina che piange, che cerca la mamma, che ha paura e non vuole più dormire nel fondo buio di qualche terra brulla, da sola, al freddo.Si fa presto a scrivere di questo o quello, a schierarsi dalla parte di un assissino che forse assassino non è, o di un'innocente che forse ha ucciso. Perché nessuno più si schiera dalla parte delle vittime? Perché non si tace e si sente invece il bisogno di urlare le proprie ragioni, che ragioni non sono?Si fanno le classifiche sulle ricerche, sul dispiego dei volontari, sulla morbosità dei mezzi di comunicazione.No, loro non sono la stessa persona. Non hanno nomi assonanti. Non sono intercambiabili.Sono due ragazze strappate alla vita. Altro non si può aggiungere.La prima ha fatto in modo che la seconda ricevesse maggiore attenzione, che l'ignavia che spesso circonda l'esistenza umana si sciogliesse nel desiderio di non veder più nessuna vita oltraggiata e calpestata. Piangere ora, però, che la certezza ancora non c'è, che si fanno i conti con un indagato che non confessa, con un corpo che non si trova, è irrispettoso. Perché nessuno di noi conosceva quella ragazza, nessuno di quelli che ora condividono foto e parole su angeli e cieli amava quella ragazza, nessuno di chi scrive - me compresa - ha il diritto di piangerla. Il dolore della sua famiglia non può essere condiviso su una piazza virtuale, o sulla tela di un lenzuolo imbrattato dallo spray di una bomboletta.Per una volta, almeno, potremmo provare a stare in silenzio. Barbara Greggio.
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