Minnesota: fra i campi di granturco coperti di neve e il vento che fischia fra gli alberi Billy Lafitte cerca un nuovo inizio sulle pianure ghiacciate. È stato nominato vicesceriffo nella contea di Yellow Medicine, ma per uno come lui quel posto è solo un purgatorio. Perché Billy viene dal Golfo del Mississippi, è un uomo del Sud, tutto temperamento e testosterone, e fatica a capire le leggi rurali che regolano i rapporti fra gli abitanti delle terre del Nord e i Sioux dei casinò. In un universo popolato da perdenti e ubriaconi, medici alcolizzati e guardie del corpo corrotte, Lafitte è una mina vagante. E quando Drew, la ragazzina che gli ha acceso il sangue, gli chiede di rintracciare il suo fidanzato, non se lo fa ripetere due volte. Troverà Ian quasi subito in un dormitorio studentesco ma il ragazzo, che è a letto con un’altra, è già finito in un mare di guai: marchiato con un ferro da mandriani, è ora sul libro nero di una gang che sta progettando di fare del Minnesota la nuova raffineria di metanfetamine degli States. Ma se è vero che ogni indagine ha un prezzo, ficcare il naso in questa costerà a Billy molto caro, perché Ian e la sua nuova fiamma scompaiono e quando lui torna al college trova ad aspettarlo una testa mozzata e un manipolo di scalcagnati terroristi che ha l’obiettivo di ucciderlo. Narrato in prima persona, intriso di humour nero e cinismo, Yellow Medicine è un formidabile pastiche di genere in cui la visione manichea e retrograda di un antieroe americano si fonde con le atmosfere dark della provincia più rurale e retriva. Ne emerge una storia che ha l’aroma ferroso del Thompson più crudele e l’onirica violenza di Fargo dei fratelli Coen.
“(oggi) - Quando l’agente Rome si decise a entrare nella stanza, erano due settimane che mi palleggiavano da una cella all’altra, tutte anonime e tutte uguali, da una saletta per interrogatori all’altra, tutte anonime e tutte uguali, da un federale all’altro, tutti anonimi e tutti uguali e tutti pronti a farmi banalissime domande sui miei “contatti all’interno del sottobosco criminale”. E io non avevo fatto che chiedermi quando sarebbe successo. Ero preoccupato per Drew e speravo fosse riuscita a mettersi in salvo. Pensavo a come l’avrebbero presa, dalle parti di casa (a Yellow Medicine, ma anche la sua famiglia giù al Sud), la notizia dell’assassinio di Graham, il mio ex cognato nonché capo. Chissà in quanti avrebbero dato la colpa a me. Magari Rome aveva le risposte. Mi avevano fornito un’ampia tuta blu e delle ciabatte di gomma. Tipico vestiario da detenuto. Nessuno si era degnato di dirmi cos’avessi fatto di male. Avevano continuato a farmi domande su domande, alle quali ero in grado di dare ben poche risposte. E di quelle risposte non si erano mai mostrati soddisfatti, continuando peraltro a ripropormi le stesse domande. Per come mi avevano mandato a puttane il sonno, mi ero reso conto di che giorno fosse solo quando un indolente federale si era portato dietro una copia ancora piegata di USA Today ed ero riuscito a coglierne il titolo, l’unica cosa alla mia portata: IL CONGRESSO PRENDE TEMPO. Be’, forse della nostra piccola avventura col terrorismo l’opinione pubblica non sapeva ancora niente. Tanto meglio. L’obiettivo dell’intera faccenda, tanto per cominciare, era stato proprio quello. Far sparire quei mentecatti. Poi, Rome. Federale al cento per cento: giacca e cravatta, tesserino d’identificazione che gli pendeva dal collo, computer portatile, grosso blocco per appunti e qualche penna. Era solo, anche se sulla soglia aveva perso qualche secondo per chiedere a uno dei suoi scagnozzi di portargli da mangiare. L’ora di pranzo, quindi. Mi aveva quasi fregato: ero convinto che fossero, che so, le due del mattino. Richiuse la porta e, da lì, mi sorrise. — Vice Lafitte, non mi sembra che se la passi un gran che bene, eh? Era il primo volto familiare che vedevo da chissà quanto. Alto, magro, nero, capello militaresco. — Mi dica che è venuto a farmi uscire. È solo un gigantesco equivoco, giusto? Ha saputo solo adesso che mi stanno trattenendo qui a forza, giusto? Si concesse un piccolo grugnito di compatimento e solo allora si accostò al tavolo, spostando la sedia con estrema lentezza e massimo rumore. Poi si sedette e aprì il portatile con le sue dita ossute. Passai in rassegna il resto del suo armamentario. Il blocco per appunti era intonso. Magari pensava di riuscire a convincermi a sottoscrivere una qualche dichiarazione. Non una confessione, no, non l’avrebbe mai definita così. Piuttosto la ‘dichiarazione’ di un testimone oculare, utile forse ad agganciare i pesci più grossi. Lanciai un’occhiata furtiva al suo orologio da polso. Le undici e trenta. Questo, più il pranzo in arrivo, bastavano a farmi tornare sulla terra.”
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