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Yes Global!

Da Fishcanfly @marcodecave

Una cosa che non sopporto è: quando le persone con le quali esco parlano in dialetto con persone di altre città. Qui ti ricordi che fatta l’Italia, bisogna ancora fare gli Italiani. A primo impatto può apparire simpatico questo uso del dialetto. Poi in un secondo momento ti accorgi che c’è qualcosa che stona, come una smagliatura, un qualcosa che non torna.

Sì perché come diceva un giurista austriaco, “il linguaggio è servo infedele e segreto padrone del pensiero”. Parlare in dialetto al di fuori dei confini nei quali quel dialetto viene usato (anche se non è una questione di confini geografici, quanto di confini comunicativi, di registri, di contesti, di interlocutori) vuol dire portarsi dietro un guscio in nome di cosa poi? In nome della difesa dei valori locali? Ma non ci credo proprio. Anzi, semmai l’esatto opposto.

Ho capito che produci tartufi, non sbandierarmi i tuoi tartufi locali sotto il naso. Una volta esclusa la tutela della lingua locale, resta l’altra opzione, l’altra tesi, quasi altrettanto comica: la rusticità. Quasi che essere rustici, villosi e villani renderebbe più preziosi gli ormoni di turno.

Yes Global!

C’è un filo sottile di imbarazzo quando il dialetto viene fuori in modo spesso inappropriato, è come creare un muro, argilloso, di sabbia, ma pur sempre un muro, e se non lo si scavalca con ironia, tende a stabilizzarsi.

Nell’epoca in cui si è tornati a demonizzare la globalizzazione, il rischio opposto è quello di un’esaltazione del locale che ci riporti indietro a un feudalesimo delle menti e dei luoghi (comuni). Certo, dà altrettanto fastidio un “italiano” non sciolto, ostentato, non scorrevole.

Passo e chiudo.

Post Scriptum: Salutame a soreta.



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