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Ora, a parte gli evidenti insuccessi collezionati a Tripoli, laddove la scomparsa di Gheddafi è coincisa con una devastante moltiplicazione esponenziale della violenza e con la cessione strutturale dello Stato, se ammettiamo che il dominus siriano deve essere defenestrato ad ogni costo, anche con un intervento armato privo dell'egida delle Nazioni Unite, senza il supporto della Nato e contro il parere dello storico alleato britannico, ebbene allora dobbiamo contestualmente rivalutare sotto il profilo concettuale gli anni e le teorie politiche messe in atto dall'amministrazione Bush.La formula neoconservatrice del regime change era imperniata su questo. Ovunque vi sia un tiranno che opprime il proprio popolo, il presidente degli Stati Uniti, capo dell'unica superpotenza e quindi garante ultimo dell'ordine mondiale, deve intervenire, trovando le forze e le formule adatte per formare una coalizione di democrazie volenterose in grado di incidere tempestivamente. Perché solo il modello democratico, se diffuso ed esportato nel mondo, può garantire una pacifica convivenza fra popoli.La teoria del first strike, colpire prima di essere colpiti, ha portato all'invasione dell'Iraq. E' stato scritto più volte come la presenza a Baghdad di armi di distruzione di massa fosse uno specchietto per le allodole, destinato a nascondere gli interessi petroliferi statunitensi nella regione. Ovviamente una componente economica nella ratio repubblicana c'era, ed era anzi assai consistente (basta guardare la cartina), però non si può avere una visione unilaterale e marxista della storia. Non si può ricondurre banalmente tutto al profitto e al capitale, senza tenere in considerazione il risiko regionale, le alleanze ed il controllo di certi avamposti, anche perché comprare finanziariamente una dittatura costa, in nome del dio denaro, infinitamente meno che imbastire un conflitto. Possono cambiare i presidenti, ma la Casa Bianca mantiene tale granitica certezza come dote per i successori. No, gli Usa intervennero per liquidare una stagione politica, quella baathista di Saddam, che non offriva più sufficienti garanzie. Un leader che pure avevano armato e sostenuto. Che ci fossero o meno le pistole fumanti incriminate, poco cambia: il raìs di Baghdad aveva sperimentato il gas anni prima, sui curdi nel nord del paese, esattamente come oggi Assad utilizza con spregiudicatezza analoghi trattamenti verso i suoi connazionali. Tanto bastò. E tanto basta oggi ad Obama per spiegare all'America le ragioni di un imminente intervento.
Ma perché soltanto ora? Se la visione di Washington è sempre stata questa, era necessario aspettare la deflagrazione civile di un paese prima di istituire una missione di peace-enforcement? E perché in un sistema presidenziale si avverte l'esigenza di rimettere la decisione finalenelle mani del Congresso? Obama è un tattico, non uno stratega. Sa come muoversi sulla base di valori e ideologie, ma è puntualmente costretto a riadattare la linea dello Studio Ovale sull'onda lunga degli eventi, con un occhio fisso sulle percentuali relative alla popolarità delle sue scelte. I politici guardano alle prossime elezioni, gli statisti alle successive generazioni. Adesso gli Stati Uniti hanno un problema: si svegliano con lo spettro di un nuovo conflitto, il cui obiettivo appare poco chiaro, e con il timore assai fondato di essere guidati da un comandante in capo inadatto all'esercizio delle responsabilità.G.L.
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