C’era un ragazzo che non amava i RollingStones né i Beatles, ma semplicemente perché ancora non c’erano, anzi loro non erano ancora nati.
Sì, perché il racconto parte dagli anni Quaranta, anzi dalla guerra e dall’immediato dopo guerra.
LA QUARTA STRADA
Così era chiamata questa via di un quartiere di Bari (città dove la mia famiglia, composta dai miei genitori e da un fratello maggiore si era trasferita, dopo una breve permanenza a Genova, profuga da Tripoli “bel suol d’amor”) in quanto, pur avendo naturalmente un nome (via Piave) era più conosciuta come la quarta traversa del corso principale. Avevamo preso alloggio in un piccolo ma dignitoso appartamento sito al piano terreno, con una finestra che si affacciava direttamente sul marciapiede di questa strada. C’era un’unica grande stanza da letto, un bagno e una cucina che si affacciava su un cortile che però era di pertinenza dell’appartamento attiguo, dove abitava la famiglia della “signora delle Poste” (così da noi chiamata perché era impiegata nell’unico ufficio postale del quartiere). Ci faceva compagnia un passerotto che avevamo adottato quando, appena nato, cadde da un albero ed al quale, io e mio fratello, demmo il nome di Tommaso. Svolazzava per casa e ricordo che ci rubava le casette del Monopoli mentre giocavamo. Naturalmente si stava attenti a non lasciare la finestra aperta, ma non fece a tempo a fuggire perché fu vittima di un incidente (rimase schiacciato inavvertitamente dal piede di mio fratello).
La strada era il naturale luogo di ritrovo e di aggregazione dei ragazzi essendo il traffico automobilistico pressoché inesistente. All’epoca avevo poco più di sei anni, ma ricordo benissimo che, almeno nel periodo estivo, i ragazzi si dividevano in due categorie: i cosiddetti “scalzati” (cioè quelli scalzi, senza scarpe perché le scarpe dovevano essere risparmiate per la stagione fredda) e (è un eufemismo) i figli dei “signori”, quelli cioè che avevano sempre le scarpe. Comunque le scarpe erano considerate beni preziosi e perciò veniva spesso proibito dai genitori di giocare a palla. Ma avere una vera palla di gomma (non parliamo di un pallone…) era molto difficile, tanto che il più delle volte si usava la “palla di pezza” fatta in genere con una serie di vecchi calzettoni di lana ripiegati più volte intorno a della gomma piuma in modo che potesse rimbalzare almeno un po’. Le porte erano realizzate con due grosse pietre al posto dei pali e, naturalmente, c’erano molte discussioni sul gol-non gol. Ma tanto ci bastava. Evidentemente erano tempi difficili per tante famiglie.
L’OMBRA
Così, con questo per noi sinistro nome, chiamavamo una palazzina diroccata che si trovava anch’essa sulla quarta strada: forse si trattava di un edificio non finito di costruire e poi abbandonato ed era liberamente accessibile e meta di noi ragazzi quando si giocava a nascondersi, ignari dei pericoli insiti in un luogo privo di ogni protezione. Anzi fu proprio all’interno dell’”ombra”, al piano terra che uno di noi, avendo trovato chissà dove un grosso proiettile di mitragliatrice ancora munito di bossolo, preparò un fornello dove collocò il proiettile. Noi ci appostammo di sopra e aspettammo l’esplosione (che puntualmente si verificò) senza sospettare che il proiettile avrebbe potuto prendere qualsiasi direzione.
IL PANE BIANCO
I beni di prima necessità erano acquistabili e razionati tramite la “tessera”, che dava diritto in base alla consistenza del nucleo familiare, a ricevere pane, pasta, a volte carne in scatola (quella che si chiamava brevemente “carne bif”, dall’inglese beef), latte in polvere, zucchero e altro che non ricordo. Ricordo bene invece che la domenica distribuivano il pane “americano”, un filone bianchissimo e soffice di cui eravamo ghiottissimi. Già, gli americani… Sì, perché a Bari, dopo l’otto settembre del ’43 c’erano i soldati americani, bianchi e negri, con le loro divise “caki” che scorrazzavano con le jeep scoperte per le vie della città e spesso qualcuno di loro con le gambe fuori dal veicolo. A noi ragazzi distribuivano caramelle e soprattutto quelle strisce da masticare che chiamavamo “cingomme”.
LA BORSA NERA
Altri beni che la tessera non distribuiva o che distribuiva in misura non sufficiente erano procacciabili soltanto con la cosiddetta “borsa nera”, cioè di nascosto e pagando ad alto prezzo beni come uova, galline, farina, olio, ecc. Naturalmente gli unici che non avevano problemi di alimentazione erano i contadini, ai quali appunto spesso si ricorreva per acquistare quei beni. All’epoca, quasi quasi, il bambino preferiva essere ammalato perché in quel caso “spettava” da parte dei genitori il panino all’olio e perfino la banana. Le casalinghe provvedevano a fare in casa il pane che serviva in più e lo si portava dal fornaio per la cottura.
L’OLIO DI FEGATO DI MERLUZZO
Naturalmente c’era carenza di proteine e di vitamine per noi bambini, ed allora ci toccava l’unico ricostituente che all’epoca si usava e cioè l’olio di fegato di merluzzo, che aveva un odore nauseabondo ed un sapore assolutamente disgustoso: tanto che, ricordo, lo bevevo allungato con spremuta di arancia e con il naso stretto fra le dita.
9 APRILE 1945
Ero seduto davanti alla finestra che dava sulla strada, forse stavo studiando (frequentavo la terza elementare). Era circa mezzogiorno quando ad un primo improvviso piccolo botto che mi fece sobbalzare, ne seguì quasi immediatamente un altro di terrificante intensità che fece tremare paurosamente i vetri della finestra. Sulla strada cominciò a cadere una pioggerella di nafta e ci si interrogava su che cosa fosse successo. Si venne presto a sapere che c’era stata una tremenda esplosione al porto di Bari dove c’era ormeggiata una flotta di navi americane. La nave che esplose – quasi sicuramente per un sabotaggio – si chiamava Henderson e conteneva la pericolosissima pirite (un bisolfuro del ferro che brucia a contatto con l’aria); vi furono parecchie centinaia di morti sia per effetto diretto dell’esplosione che per effetto della pirite. Questo fu l’evento bellico più sanguinoso che colpì Bari.
IL PRIMO AMICO
Si chiamava Benito ed anche la sua famiglia era profuga dell’Africa italiana provenendo da Bengasi. Ci trovammo assieme per qualche settimana ospiti dell’albergo Moro, nel centro di Bari, che era stato temporaneamente requisito per accogliere i profughi. Avevamo entrambi cinque anni e insieme frequentammo l’asilo e, successivamente, nell’estate seguente la colonia marina in una struttura all’uopo destinata in località “Fesca”, appena fuori Bari. Avevamo tutti un cappellino bianco ed eravamo inquadrati in due squadre: quella dei “piccoli” (fino a cinque-sei anni) e quella dei “grandi”. Noi due, nonostante l’età, fummo assegnati alla squadra dei grandi e di ciò eravamo orgogliosi; ma, in verità, il motivo era semplicemente dovuto al fatto che fra i grandi c’erano i nostri due fratelli maggiori e non ci vollero separare da loro. Ogni attività era scandita dai fischietti dei sorveglianti: entrare e uscire dall’acqua, fare colazione, fare il riposino, etc… Fu da un balcone dell’albergo che ci venne l’idea di gettare giù sulla strada dei pomodori ben maturi che avevamo trovato chissà dove. Colpimmo un ufficiale sporcandogli la divisa e ricordo che quando questi si rivolse al direttore dell’albergo per lamentarsi dell’accaduto noi ci nascondemmo sotto un letto e lì rimanemmo assai impauriti per molto tempo. Quando eravamo all’asilo a lui fu data la divisa completa di “Figlio della Lupa”, mentre io ricevetti soltanto una mantellina grigio-verde: l’importanza di chiamarsi Benito! Una sua caratteristica (se così si può chiamare) era che aveva perennemente il muco che gli scendeva dal naso e pertanto non faceva altro che cercare di risucchiarlo nel naso aspirando ritmicamente. Subito dopo, come prima detto, ci trasferimmo nell’abitazione della “quarta strada”, ma non per questo smettemmo di frequentarci (naturalmente con le rispettive famiglie), anzi l’amicizia durò molto a lungo anche se con inevitabili periodi in cui ci si perdeva di vista, se non altro perché avevamo intrapreso percorsi scolastici diversi dopo le scuole elementari e medie (durante i quali periodi frequentavamo edifici scolastici diversi) e quelle superiori (io al liceo scientifico e lui all’istituto per ragionieri). Verso la fine degli anni Sessanta ci ritrovammo e l’amicizia si rinsaldò definitivamente. Eravamo già sposati ed entrambi con figli. Noi all’epoca abitavamo per motivi di lavoro a Bolzano e con altri amici facevamo campeggio libero presso un maso dell’altipiano del Renon con la nostra roulotte. Loro ci raggiunsero e presero alloggio in un albergo vicino e naturalmente passavano tutto il tempo con noi apprezzando moltissimo la vita all’aperto. Avevano due bambine e la piccola aveva il vezzo di chiedere di fare la pipì nel servizio igienico della nostra roulotte. Ricordo che la cosa si ripeteva ogni giorno nonostante ogni volta Benito si preoccupasse di farle fare la pipì prima di lasciare l’albergo. Naturalmente tutto questo era motivo di sano divertimento. L’anno successivo anche loro comprarono una roulotte e seguitammo per qualche anno a fare assieme le vacanze, sia in montagna che a mare. Purtroppo nel 1989 una brutta malattia lo ha portato via prematuramente, ma il ricordo di un ragazzo buono, leale e spiritosissimo sarà sempre indelebile.
LA VILLA
Al civico n° 46 della “seconda strada”(alias via Isonzo) era stata requisita una grande villa stile “liberty” per ospitare i profughi provenienti come noi dalla Libia e quelli dalla Grecia. Noi, come detto, però preferimmo andare ad abitare per conto nostro. Era una palazzina con un piano rialzato ed un primo piano, alla quale si accedeva con due scalinate dopo aver percorso un viale di una trentina di metri affiancato da siepi e giardino con due alte palme da datteri oltre a qualche albero da frutto. Mi trovavo proprio sotto un albicocco quando sentii, proveniente dall’alto, un fortissimo rumore di motore e alzando gli occhi al cielo vidi un aereo che ondeggiava paurosamente nell’aria ed un’ala che, ondeggiando anch’essa, si era staccata dalla fusoliera. Si seppe più tardi che l’aereo proveniva dalle Filippine e che precipitò in mare dopo che il pilota era riuscito ad evitare di cadere in città. Naturalmente non vi furono superstiti. A questa villa facevamo capo anche noi quasi giornalmente anche perché avevano trovato ospitalità alcuni nostri parenti. La villa fu un luogo di aggregazione per noi profughi nostalgici della vita passata nella colonia italiana e si allacciarono parecchie e durature amicizie nonché vari intrecci amorosi. La frequentazione della villa durò almeno quattro anni fino a quando cioè ognuno degli occupanti non trovò altre soluzioni meno precarie. È stato comunque un periodo importante e indimenticabile della mia infanzia.
LE PALAZZINE
Anche noi lasciammo la casa della quarta strada quando, nel dicembre del 1947, ci fu assegnata la casa popolare in una zona non distante dalla quarta strada. Era un gruppo di quattordici palazzine a due piani, ognuna con due scale e sei appartamenti, contrassegnate dalle lettere dalla A alla P. L’appartamento assegnatoci era più che decente (in relazione all’epoca), aveva infatti tre vani oltre la cucina e il bagno e gli assegnatari appartenevano in gran parte alla media borghesia: anzi non mancavano professionisti, ufficiali e magistrati. Le case però non erano fornite di riscaldamento (ma la circostanza era comune probabilmente a quasi tutto il sud d’Italia) e pertanto si ricorreva al cosiddetto “braciere”, una specie di ciambella, spesso rivestita di ottone, dove si accendeva la carbonella, aggiungendovi spesso una buccia di arancia per far sì che sprigionasse il suo aroma. Naturalmente spesso si era colpiti dai geloni. Il telefono era un lusso che pochi si potevano permettere, almeno in quei primi anni. Non esistevano inoltre neanche i citofoni e il postino, portone per portone, gridava il nome del destinatario della posta. Anzi lo sentivo da lontano quando, davanti al portone della palazzina adiacente alla mia, gridava giornalmente: “Còcolaaa…” (il nome di un giudice che evidentemente riceveva posta ogni giorno). Analogamente si comportava il netturbino che a squarciagola gridava: “Mondiz!” per raccogliere i sacchetti della spazzatura. Indimenticabile il venditore ambulante di gelati che, col tipico carretto spinto a pedali e con le scintillanti coppe coniche cromate, passava lungo le strade sotto le abitazioni gridando: “Bambini piangete…”. Esilarante infine il ricordo del pastore che con una capra al seguito ed un misurino vendeva direttamente il latte… alla spina. Ovvero dal produttore al consumatore. L’anno seguente, quando cominciai la prima media, mi ritrovai come compagni di classe alcuni dei ragazzi che abitavano nelle palazzine. A scuola si andava in gruppo e, naturalmente, a piedi, e si percorreva un buon tratto di strada perché la scuola stessa si trovava in centro città. Spesso si approfittava dei carri trainati da uno o più cavalli e si saltava sul pianale sfidando il carrettiere che con la frusta ci voleva far scendere perché, a suo dire, i cavalli si sarebbero affaticati troppo.
IL POVERO CIECO
Per arrivare a scuola si doveva percorrere un cavalcavia che superava la stazione centrale ferroviaria di Bari. Su questo cavalcavia sostava “da sempre” un mendicante, seduto per terra e vestito in tutte le stagioni con un vecchio sudicio impermeabile chiaro e che, con gli occhi chiusi, ripeteva continuamente: “povero cieco”. Era quasi un’istituzione per i baresi, ma quando non lo si vide più si venne a sapere che era stato trovato morto e che nel suo tugurio, con grande sorpresa, vennero rinvenuti parecchi milioni di lire.
IL GIOCO DELLE TRE CARTE
Appena giù dal cavalcavia vedevamo spesso un capannello di persone attorno ad un tizio (ricordo il suo naso molto pronunciato) che sopra ad un tavolino (smontabile perché all’occorrenza doveva farlo sparire) faceva il gioco delle tre carte invogliando gli avventori a puntare somme anche importanti sulla carta vincente che sembrava facilmente individuabile a seguito dei suoi abili e rapidi movimenti di spostamento delle carte stesse. Per questo si serviva di un “compare” che, furbescamente, faceva vincere. Ma la circostanza che a noi ragazzi faceva divertire era che il compare somigliava straordinariamente al giocatore (era evidentemente suo fratello) ed in particolare i nasi erano identici. Ma gli ingenui scommettitori non se ne accorgevano e perdevano regolarmente i loro soldi.
COME ERAVAMO VESTITI
Come anche si nota nei vecchi filmati in bianco e nero, tutti gli uomini portavano un cappello tipo “Borsalino” mentre tra i ragazzi era molto comune, nella stagione fredda, il “basco”, un tipico berretto di panno con un peduncolo centrale sulla sommità, obiettivo di molti coetanei che lo strappavano con i denti e lo esibivano come un trofeo. Fino circa ai vent’anni non si usavano i pantaloni lunghi, simbolo di non essere più ragazzi, ma i caratteristici pantaloni alla “zuava”, portati appena sotto il ginocchio sopra calzettoni spesso a quadroni di tipo scozzese. D’estate erano d’obbligo i pantaloncini corti, ben sopra il ginocchio. Per le ragazze rigorosamente la gonna (mai i pantaloni!) anche piuttosto larga, mentre le calze di nylon erano una conquista della “signorina”. A scuola le ragazze avevano rigorosamente il grembiule nero.
LA SCUOLA
Le classi, dalle elementari alle medie inferiori, erano esclusivamente maschili o femminili. Solo nelle scuole superiori c’erano le cosiddette classi miste, dove le ragazze erano sempre in netta minoranza (fatta eccezione per le scuole magistrali). Una circostanza particolare consisteva nel fatto che le classi non erano molto omogenee per quanto riguarda l’età degli alunni e ciò per una serie di motivi: in origine perché molti ragazzi avevano perduto uno o più anni a causa della guerra, poi perché, a differenza di oggi, la selezione, già a partire dalle medie inferiori, era piuttosto severa (non pochi erano i bocciati che dovevano ripetere l’anno) e, di contro, non era raro il cosiddetto “salto” che non pochi ragazzi facevano dalla quarta elementare direttamente alla prima media previo superamento di un esame. Pertanto non era raro che in una stessa classe ci fossero alunni con differenze di età anche di due-tre anni.
VETTOR PISANI
Tra i miei compagni di classe (e fino alla terza media) c’era Vettor Pisani, che abitava nella palazzina adiacente alla mia, con suo fratello minore Antonio anch’egli nella stessa classe: era magrolino, un po’ piccolo di statura, gli occhi chiari ed i capelli castani. Provenivano da Ischia e specialmente Vettor aveva uno spiccato accento napoletano. In verità Vettor aveva un secondo nome, Ferdinando, e con questo nome lo chiamavano in famiglia e naturalmente anche noi. Ma giustamente, ad un certo punto, decise di farsi chiamare col suo vero nome. È indelebile il ricordo del primo compito di matematica in classe, compito che fu un disastro per quasi tutti. Uno degli alunni voleva conoscere il voto ottenuto ed allora il professore chiamò Vettor Pisani e chiese: “Che voto è questo?” “Zero spaccato!” fu la risposta di Vettor pronunciando la “S” con un accento tipicamente napoletano che fece ridere rumorosamente tutta la classe. Con Vettor ed un altro compagno di classe di nome Italo che abitava nella sua stessa palazzina diventammo amici inseparabili ed anche complici nei primi approcci con le prime ragazze che conoscemmo (le ragazze “dei villini”, così le chiamavamo perché abitavano in un quartiere vicino dove appunto si trovavano questi tipi di abitazioni). L’amicizia durò a lungo anche negli anni seguenti, quando ognuno di noi prese strade scolastiche diverse. Vettor, infatti, si iscrisse all’istituto tecnico per geometri, precisando subito che non avrebbe mai fatto il geometra e che lo aveva fatto esclusivamente per accontentare la madre (una donna minuta, piccola di statura) che voleva per lui almeno “un pezzo di carta”. Il padre, un omone grande e grosso, raramente si vedeva perché era un navigante (credo che fosse un marconista) e per questo aveva messo agli altri due figli il nome di famose corazzate (Diana e Duilio). Vettor già manifestava le sue ambizioni di diventare un artista, un pittore in particolare. Noi un po’ lo prendevamo in giro perché non avevamo mai visto un suo disegno, ma lui ribadiva che prima di disegnare e dipingere aveva bisogno di approfondire gli studi sull’arte e sugli artisti per trovare la sua strada. Era un sognatore Vettor, un ragazzo intelligente e un amico leale, dotato di profonda sensibilità e non disdegnava di confidarsi. A volte si faceva prendere da momenti di profondo pessimismo, ma senza mai mettere in discussione la determinazione per il sogno che inseguiva. Il tempo gli ha dato ragione. Negli anni Sessanta cominciai a vedere i suoi primi quadri, originali e inquietanti. Intanto aveva conosciuto Mimma, che sarebbe diventata sua moglie, e dopo qualche anno si trasferì a Roma, dove la sua arte ebbe altra evoluzione acquisendo fama internazionale. A Roma ho avuto occasione di incontrarlo solo un paio di volte, ma non ho mai smesso di seguire la sua attività. La sua storia è nota ed anche la tragica conclusione della sua vita.
LA RADIO
Prima dell’avvento e della diffusione della televisione era la radio la principale fonte di informazioni e di svago. Sono di quegli anni (fine anni Quaranta e primissimi anni Cinquanta) le trasmissioni ed i personaggi che hanno fatto la storia della radio ed hanno emozionato la vecchia e le nuove generazioni. Basta citare gli storici personaggi di quel periodo: “Mario Pio” e “La signorina snob” di due giovanissimi Alberto Sordi e Franca Valeri, le mitiche radiocronache sportive di Nicolò Carosio (“gol!…anzi quasi gol”) e di Mario Ferretti (“un uomo solo al comando…”), le orchestre di Angelini, Fragna e Ferrari, il jazz di Benny Goodman e Louis Armstrong, il blues di Ella Fitzgerald, Frank Sinatra, Natalino Otto, il Quartetto Cetra, e le straordinarie interpretazioni dei mitici Platters, nonché l’indimenticabile appuntamento pomeridiano e giornaliero con la trasmissione “Ballate con noi” preceduta da una altrettanto indimenticabile sigla musicale. Non dimentichiamo, inoltre, che le imprese al Tour de France di Gino Bartali raccontate alla radio scongiurarono probabilmente una guerra civile in Italia allorquando si verificò l’attentato a Palmiro Togliatti. Cominciarono inoltre le trasmissioni dei primi Festival di Sanremo. Impareggiabile narratore di quei tempi è Renzo Arbore.
LA BIONDINA
A metà degli anni Cinquanta (avevo appena conseguito il diploma di maturità), passeggiavamo noi soliti tre sul marciapiedi davanti ad una delle palazzine prospicienti alla via principale del quartiere. Passammo davanti ad una ragazzina bionda, vestita alla marinara e con una lunga coda di cavallo, che giocava con una palla facendola rimbalzare sul muro della palazzina. La guardai, non so perché, con un certo interesse (aveva, come seppi qualche anno dopo, poco più di tredici anni)… ma non potevo immaginare che sarebbe diventata la madre dei miei figli.
Piero Sardina
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Questo articolo è stato pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 22 – Marzo 2015.
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