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Yoani Sánchez e il teatrino

Creato il 06 ottobre 2012 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali

Yoani Sánchez e il teatrinodi Alejandro Torreguitart  Ruiz. Il teatrino è finito, pare. García  Ginarte può stare tranquillo, anche Fernando Rojas e Bloguero Cubano possono  tornare a cullare sogni rivoluzionari, possono continuare a scrivere che la rivoluzione è sempre più solida e  forte, che gli imperialisti nonpasseranno e che questa strada è di Raúl. Insomma, le  cazzate di sempre. Il teatrino è finito. Non quello che voleva montare Yoani, lo  show mediatico temuto dal regime, la rappresentazione della follia, per un paese  come il nostro, il giornalismo indipendente che vuole raccontare un processo con  sguardo obiettivo. Il loro teatrino è finito. Non si sono neppure resi conto di  aver scatenato un putiferio incredibile, una cosa epocale di cui ha parlato il  mondo intero. Mancava che si scandalizzasse la Birmania, guarda. Intelligenza e  valutazioni di opportunità sono fattori trascurabili per un regime sempre più  stordito dalla piega che prendono gli eventi. Gli inquieti ragazzi della  Sicurezza non fanno in tempo a inventare una balla che subito ne devono  imbastire una nuova. Sembrano marinai a bordo d’una nave che cola a picco,  tirano fuori acqua a più non posso, ma la falla è grande, irreparabile.

Yohandry Fontana è un altro giornalista del governo, uno che gli  passano le veline e lui scrive, una sorta di Randy Alonso del web. Redige con  cura la cronaca dell’arresto di due pericolosi criminali, Yoani e Reinaldo,  catturati davanti all’ingresso di un tribunale dove – secondo il Granma – avrebbe dovuto svolgersi un  pubblico processo. Cosa vuol dire pubblico in questo paese? Interpretazione  autentica desunta dal blog della Sicurezza di Stato: si può seguire il processo  da una stanza attigua, tramite schermo, non è possibile registrare, né fare  riprese con telefonini o telecamere, sono ammessi solo giornalisti di provata  fede rivoluzionaria. Mica lo sapevo. Mi sa che anche Yoani e Reinaldo non se  l’aspettavano, altrimenti si sarebbero organizzati. Insomma, adesso li hanno  rimandati a casa, senza la loro auto, sequestrata perché dicono non fosse in  regola, dopo un lungo viaggio in compagnia di poliziotti, tra buche nel selciato  e preoccupazione, in attesa di rivedere gli amici.

Angel Carromero sarà condannato,  il pubblico ministero ha chiesto sette anni, ma lo rimanderanno in Spagna, la  morte di Payá sarà dichiarata un omicidio colposo da incidente stradale. Magari  è pure vero, magari Carromero viaggiava troppo veloce, non si è accorto delle  deformazioni della carreggiata e ha perso il controllo dell’auto. Magari è stata  soltanto una maledetta disgrazia quella che ha privato Cuba di uno dei suoi  uomini migliori. Magari. Ma allora perché tutto questo segreto? Perché la  famiglia di Payá non può assistere al processo? Perché arrestano Yoani e  Reinaldo e li rispediscono all’Avana? Domande senza risposta, cadute sulle  lacrime della figlia Rosa, che – caso strano – non si è costituita parte civile  contro Angel Carromero, ma da tempo chiede con forza un’inchiesta internazionale  per far luce sulla morte del padre.

Il teatrino è finito, compagni  Ginarte, Rojas e Fontana. Resta il dramma, purtroppo. Niente a che vedere con  Piñera ed Electra Garrigó. Questo è il dramma della nostra  vita, dal 1959 a oggi, passando per Fuori dal gioco, Prima che sia notte e il Confesso di avere paura, molta paura  d’un povero poeta solitario. Siete voi gli sceneggiatori del dramma, ma il  soggetto è ripetitivo, pieno di luoghi comuni, scritto dagli stessi autori di  sempre, interpretato da attori alla frutta. Come dice Varela, tutti vogliono vivere nel telegiornale,  perché lì non manca niente, perché lì non serve denaro. E allora capita che questa maledetta circostanza delle acque  che ci circondano da ogni parte mi faccia sedere a tavola, bere un caffè,  tentare di scrivere un articolo per raccontare una vita di cui non comprendo più  il senso. Ma devo viverla. Perché è la mia vita. E il mio posto non è fuori da  Cuba ma in un’altra Cuba. Compagni poliziotti, dovete ancora vederne delle  belle. Credetemi.

L’Avana, 6 ottobre  2012

Traduzione Gordiano Lupi

Featured image Fidel Castro nel 1959, fonte Wikipedia.

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