Speciale: La memoria dell'orrore: fumetto, guerra e olocausto
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Il 27 gennaio del 1945 le truppe dell’Armata Rossa entrarono nel campo di concentramento di Auschwitz, trovandosi di fronte a quello che sarebbe diventato il simbolo del nazismo e dell’Olocausto. Nel 2000 il Parlamento Italiano scelse il 27 gennaio per celebrare il Giorno della Memoria nel ricordo delle vittime di quella tragedia. Cinema, letteratura, e non ultimo il fumetto, hanno affrontato in molte forme la tragedia della Seconda Guerra Mondiale e i terribili effetti della follia umana. Questo articolo fa parte di una serie di articoli che LoSpazioBianco in oltre dieci anni di attività ha dedicato al tema.
19 Aprile 1943 / 8 Maggio 1943
La storia del libro prende le mosse il giorno 8 Maggio 1943, a Varsavia, nel Ghetto ebraico. Il giovanissimo Yossel è rintanato, insieme a decine di polacchi ebrei, nelle gallerie sotto la città in attesa di una probabile rappresaglia da parte dei soldati tedeschi.
Nel silenzio dell’attesa, il ragazzino inizia a fare quello che ha sempre amato fare: disegnare. Attraverso i suoi disegni ed i disegni evocativi di Joe Kubert ci viene raccontato come la sua allegra vita (Yossel ride solo nelle prime pagine del libro) a Yzeran, piccolissima città della Polonia, si trasformi in un incubo a seguito della deportazione imposta dai tedeschi dopo l’invasione. Rivediamo attraverso gli schizzi e rileggiamo nelle didascalie una storia che dovremmo già conoscere a memoria; una storia di progressiva cancellazione dei diritti personali degli ebrei rinchiusi nello stretto Ghetto di Varsavia; la deportazione della famiglia di Yossel nei campi di lavoro (anche se noi sappiamo che sarebbe stato un campo di morte sicura e non di lavoro). Attraverso i visi decisamente più dimessi che sconvolti tracciati da Kubert leggiamo la disperazione e la rassegnazione per una fine così certa quanto imminente e immotivata.
Il tutto, in flashback, condito dai fogli che Yossel si procura e che gli servono a dare vita, in condizioni decisamente precarie, ai disegni che tanto è abile a realizzare; i primi fumetti letti da Yossel sono, incidentalmente, gli stessi letti da Kubert contemporaneamente dall’altra parte dell’Oceano: Flash Gordon e Tarzan (di quest’ultimo Kubert negli anni settanta diventerà anche disegnatore e curatore della serie per la DC Comics). Nel Ghetto di Varsavia Yossel usufruisce dei piccoli privilegi che gli vengono concessi dai gerarchi nazisti che apprezzano i suoi disegni e che lo chiamano a realizzare per loro quegli uomini muscolosi che tanto spopolano in America nelle strisce a fumetti. Come ne Il pianista (2002), come ne Il servo ungherese, gli ebrei, normalmente trattati come esseri senza diritti e dignità (meno che animali), godono di qualche privilegio solo se hanno una capacità artistica che serve a compiacere il tedesco prima invasore e ora addirittura padrone.
Il giovane Yossel presto però si avvicina ad un gruppo di “teste calde” che ritiene sia giusto combattere contro i tedeschi, o almeno provare a farlo, per evitare una fine certa; il tono tende decisamente al drammatico quando, grazie alle parole di un ebreo fuggito da un campo di concentramento, Kubert ci disegna una storia tristemente nota a tutti. Deportazioni in carri ferroviari e morti. Condizioni igieniche nulle e morti. Accampamento in baracche stracolme e morti. Lavori forzati e morti. Qualsiasi cosa avvenisse nel campo di “lavoro” portava alla morte. Chi vi si trovava all’interno cercava solo di capire se esistesse un modo per allontanarla, la morte, pur senza avere la speranza di evitarla. L’ebreo, il Rabbi di Yossel che proviene dalla stessa cittadina di Yzeran, piange descrivendo l’orrore della cremazione e del fumo denso che verso il cielo porta le ceneri dei suoi amici e parenti. Yossel sa che i suoi genitori e la sorella sono morti, dunque, e la sua matita corre a raggiungere il foglio per disegnarli senza però riuscirci. E’ un momento molto toccante; da qui in avanti la storia scorre velocissima, dopo aver rallentato il ritmo durante il racconto straziato del Rabbi.
La resistenza polacca cattura l’attenzione dei tedeschi e viene decisa una rappresaglia per mettere a tacere questa, che è l’unica voce di ribellione da parte degli ebrei. L’attacco prende le mosse il 18 aprile 1943, un sabato, alla vigilia della Pasqua ebraica; il Ghetto viene invaso da militari e carri armati in assetto di guerra per spazzare via quella stupida resistenza; gli ebrei si rifugiano nelle cantine e sui tetti, racimolando le poche armi e qualche effetto personale. I tedeschi, in numero spropositato rispetto ai ribelli, entrano con la spavalderia di chi sa di avere già vinto. Il grido “Juden haben waffen!” (“Gli ebrei sono armati“), lanciato da un soldato tedesco risuona nel Ghetto all’arrivo della prima bomba lanciata dalle squadre della ZOB (il movimento di resistenza all’interno del ghetto, ndr) ; il primo attacco venne facilmente respinto ma, chiaramente, la battaglia non sarebbe finita lì.
I disegni di Kubert si fanno più grandi, i tratti più neri e grossi, il finale incombe come una mannaia a tagliare ogni speranza di sopravvivenza. Dopo giorni terribili di attacchi e rappresaglie violentissime il nucleo combattente della ZOB si ritrova in un bunker, alla luce di una candela che illumina i disegni di supereroi di Yossel (neanche tanto casualmente sono proprio i personaggi che Joe Kubert disegnerà nella sua lunghissima carriera: Tor, Hawkman, etc…): dall’ultimo assalto la ZOB si difende quasi all’arma bianca, gli spazi sono ristretti e alla fine è un massacro. Yossel muore, come quasi tutti i ribelli, lasciando per terra quei fogli disegnati. Nell’orrore del cumulo di morti della battaglia un ufficiale tedesco prende uno di questi fogli da terra, per scoprire che è, imprevedibilmente, bianco.
Un ponte fra realtà e fantasia
Il mio nome è Mordechai Anielewicz; a ventitré anni sono a capo di un esercito, se così lo possiamo definire, di straccioni disperati, affamati, sporchi, male e poco armati. Adesso capirete facilmente perché a ventitré anni sono già un “generale”. Come se non bastasse combatto contro un esercito enorme ed armato fino ai denti, privo di remore e non disposto ad alcuna pietà nei confronti del nemico, anche se vinto e in ginocchio; il loro fine è semplicemente il nostro sterminio. Oggi, Sabato 18 Aprile 1943, è la vigilia della Pesach, la Pasqua ebraica, la nostra Pasqua. Quella che celebra il ricordo di come il nostro popolo si sia liberato dalla schiavitù in Egitto. Un disegno del Signore, sicuramente, mi porta a festeggiarla armi in pugno, per affrontare qui, nel Ghetto di Varsavia distrutto e fumante, una battaglia per far riconquistare la libertà al mio popolo ebraico. (1)
Mordechai è, come si direbbe nell’epoca della multimedialità, un link. Se, come chi scrive, preferite usare un termine italiano, possiamo dire ponte. Mordechai è un ponte fra la vita e la morte o meglio ancora fra la fantasia (la vita) e la realtà (la morte).
Joe Kubert è anch’egli nato in Polonia nel 1926 ma vissuto nello stato di New York dalla tenera età di due mesi; Kubert non realizza un’autobiografia, non narra di vicende accadute a se stesso in prima persona e non racconta la storia della sua famiglia. Il settantanovenne autore narra una storia sì di fantasia, ma basata su fatti realmente accaduti e ambientata con rigorosa attenzione in un preciso contesto storico. Fiction, direbbero gli anglofoni, usando un termine ormai abusato che vuol dire sia fantasia sia narrativa.
Anielewicz è stato davvero il giovanissimo capo di un esercito, quello che nel 1943, il 19 aprile del titolo, si è scagliato coraggiosamente (e solo apparentemente inutilmente) contro le truppe dei tedeschi invasori che avevano già preso stabile possesso della Polonia. Gli ebrei avevano accettato con inverosimile rassegnazione quanto avveniva; sembrava che tutto dovesse semplicemente andare cosi’, nessuno pensava neanche lontanamente a ribellarsi. L’unica cosa possibile cosa da fare sembrava assecondare il male che si stava abbattendo su di loro. L’assurdità di quello che stava accadendo era così enorme da sembrare impossibile. La reazione dell’esercito di disperati di Mordechai a nulla servì da un punto di vista bellico; le battaglie e le perdite affrontate dai tedeschi per annullare la brigata di ebrei polacchi del giovane di Varsavia furono paragonabili allo scacciare le mosche con la mano. Il vero significato riconoscibile anche oggi è quello morale e risiede tutto nello spirito che era nelle persone che hanno trovato la morte in quelle piccole battaglie urbane contro i tedeschi nelle strade della propria città.
Uno, nessuno centomila: פסו׳, Yosseph, Yossel, Joseph, Joe…
Un altro ponte nel racconto è costituito dal personaggio principale, quel Yossel riportato nel titolo del volume. Facile capire chi è in realtà Yossel; Joe Kubert è nato a Yzeran, in Polonia, il 18 settembre del 1926: alla sua nascita la sua famiglia era composta dai suoi genitori e dalla sorella Ida di soli due anni. I Kubert, ebrei, emigrarono dalla Polonia nel novembre del 1926 e si trasferirono in America, terra delle opportunità, dove iniziarono una vita simile a quella che avevano lasciato in patria, nonostante le difficoltà economiche e di ambientamento. Il padre Jacob continuò a fare il macellaio, i figli iniziarono la scuola. La situazione che avevano lasciato dall’altra parte dell’oceano, intanto, era destinata a cambiare da lì a poco.
Yossel (il personaggio del romanzo) ha la stessa età di Joe, gli stessi genitori, la stessa famiglia, lo stesso nome e la stessa incredibile voglia di disegnare e capacità di farlo con ottimi risultati; solo che non vive negli Stati Uniti, ma ancora in Polonia. Come se la nave che ha portato la famiglia Kubert oltreoceano non fosse mai partita. Cosa sarebbe successo se, con la sua famiglia, il piccolo Kubert (oppure vogliamo iniziare a chiamarlo Yossef, in ebraico, dando inizio a questa sovrapposizione fra realtà e fantasia?) fosse rimasto in Polonia? What if (2), direbbero in America.
Conclusione
Il libraio che mi ha venduto il volume di Kubert si chiedeva, rivolgendosi ad un suo amico, se fosse proprio necessario che ogni autore di origine ebraica raccontasse la sua versione dell’Olocausto. Sorvolo sulla scarsa intelligenza del mercante e rispondo, riferendomi al caso di Joe Kubert. La risposta è evidentemente sì. Questo per una serie di motivi distanti fra loro ma ugualmente validi.
Il primo motivo è quello artistico: Yossel può tranquillamente essere considerato come un manuale del fumetto. Alla pari di Will Eisner e contemporaneamente al compianto autore di Spirit, Joe Kubert ha costruito negli anni la sua profonda conoscenza del fumetto arrivando, con questa e con le opere della cosiddetta maturità, ad una sintesi eccezionale fra disegno, tratto, scansione, sceneggiatura.
Le immagini non sono perfette, i disegni non sono fotografie, gli sfondi sono abbozzati o non ci sono del tutto, non c’è colore ed anzi una patina di sporco si posa su tutte le pagine. Il tratto non dipinge le immagini, le evoca; il disegno accennato a matita è compendio di spazio e tempo, alleggerisce la lettura e la fa scorrere rapida quando serve o la rallenta nei pesanti tratti di grana grossa a riempire spazi scuri e consumare mine di matita. Kubert non ha paura di lasciare una mezza pagina bianca, così come non ne ha di rappresentare una fila di ebrei con dei cerchietti senza alcun dettaglio. In Yossel le chine sono state rese inutili dal tentativo di far sembrare il volume come un blocco di disegni schizzati ed il colore, anche per questo, non c’è.
La narrazione è scandita con semplicità e seguendo una scansione temporale molto lineare. Dalla prima pagina fino a circa metà libro viviamo, in flashback, il crescendo di incredulità e paura che ha attanagliato gli ebrei perseguitati ed uccisi. Dalla tragica pagina (violenta nella sua spiccia essenzialità) in cui il lettore vede un forno crematorio dall’interno, come se fosse uno dei corpi infilati nello stesso forno, in avanti, assistiamo ad una inversione di tendenza: il Rabbi prova e riesce a scappare dal campo di concentramento, il Ghetto di Varsavia si mobilita con grande sforzo per opporre una resistenza all’invasore, lo stesso Yossel partecipa a questa presa di coscienza lasciando una bomba a mano esplodere nel palazzo dove veniva invitato dai gerarchi nazisti a disegnare.
Infine, in questo crescendo di ribellione contro l’assurdità di un evento che era stato più grande della capacità di comprenderlo all’inizio, Kubert ci porta, nelle ultime pagine del libro, ad una resa dei conti amara e tragica. Questo non è un film di Hollywood né un fumetto Marvel e non ha il lieto fine; Yossel, come tanti resistenti della ZOB, muore a fianco di Mordechai sotto il fuoco tedesco, che nella realtà si ammazzò durante l’attacco delle SS dopo aver dato la morte alla sua fidanzata; dei combattenti si salvarono solo una quindicina circa, gli altri furono uccisi o si uccisero.
Va sottolineato che Joe Kubert, anche se spesso accostato al fumetto superoistico, in realtà con i supereroi ha avuto sporadiche e non lunghissime frequentazioni; buona parte della sua esperienza l’ha acquisita realizzando storie di esseri umani in carne e ossa che, come Yossel nelle ultime pagine, possono anche morire e non risorgere più. A dimostrazione che, e non è questo l’unico caso, associare il fumetto statunitense ai peggiori supereroi senza spessore è equazione sbagliata e semplicistica.
Il secondo motivo è quello didattico. Se c’è qualcuno nel campo fumettistico che ha sempre provato ad insegnare agli altri “come” si fanno le cose e che sforzi si devono fare per essere in grado di definirsi narratori questo è Joe Kubert. E se la realizzazione di questo volume è in primis un debito verso la sorte da estinguere; è indubbio però che il racconto della storia del giovane ingenuo Yossel, stravolto (da metà libro in poi ha quasi sempre gli occhi sbarrati piuttosto che il capo chino che ha assunto come atteggiamento preferito dall’invasione tedesca in poi) da eventi più grandi di lui è una testimonianza che non lascia indifferenti. Serve, all’autore, uccidere il sé stesso di questa micro-realtà alternativa (deviata da quella in cui viviamo solo dal mancato imbarco dei suoi genitori su una nave) per documentare un qualcosa che non ha visto in prima persona ma che ha coinvolto un quantitativo enorme di suoi parenti e di amici e compatrioti di sua madre e suo padre.
Kubert, diversamente da Spiegelman in Maus, non raccoglie il racconto del genitore che ha vissuto la follia dei campi di concentramento; non narra la storia di chi si è salvato dagli stessi campi raccolta attraverso le testimonianze di terzi (come fa Pascal Croci in Auschwitz).
In maniera catartica, sacrifica all’altare del ricordo e della memoria la (sua) vita di innocente ragazzino dotato di un dono speciale, quello di sapere disegnare. Ed è questo il dono che, coltivato dall’ormai anziano Maestro Joe Kubert, ci consegna un forte, evocativo e artisticamente notevole promemoria da conservare e passare alle generazioni che verranno. Perché, caro il mio venditore di fumetti, triste sarà il giorno in cui dell’Olocausto si sarà perso il ricordo e non si sentirà più la voglia di raccontare. Magari a fumetti.
Abbiamo parlato di
Yossel: 19 Aprile 1943
Joe Kubert
Free Books, Febbraio 2005
132 pagine, bianco e nero, cartonato – 11,40
Riferimenti:
La storia oltre Yossel
Una scheda su Mordechai: www.olokaustos.org/opposizione/biografie/resbio/anielewicz
Free Books, sito dell’editore italiano: www.free-books.it
Note
- Nell’Antico Testamento Dio spiega al suo popolo di segnare le porte delle loro abitazioni con il sangue di pecora; durante la notte Egli stesso attraverserà l’Egitto e farà strage di tutti i primogeniti, salvando solo quelli che abitano nelle case segnate con il sangue di pecora.
“Io vedrò il sangue e passerò oltre” [Esodo 12,12]. “Pesach” significa appunto “passerò oltre”. [↩] - What if? - Marvel Comics 1a serie 1977-1988 e 2a serie 1989-1998 – era il titolo di una serie di fumetti nata dalla necessità di creare storie nuove ed interessanti dove la realtà prende strade diverse da quelle che ha già preso, seppur nel continuum temporale di una realtà fumettistica. Questo tipo di storie erano già state realizzate per decenni nelle serie regolari dei fumetti più importanti, Superman su tutti, ed in esse si leggeva una versione “alternativa della realtà”, che permetteva agli autori di sbizzarrirsi e non sentirsi vincolati al passato, già ingombrante, di storie precedentemente accumulate [↩]
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