3 maggio 2013 Lascia un commento
LA LEGGE DELLA CARNE.
Il lupacchiotto si sviluppava rapidamente. Egli riposò per due giorni e poi si avventurò di nuovo fuori dalla caverna. In questa seconda scorribanda si imbatté nella piccola donnola e le fece seguire la sorte della madre. Quando si sentì stanco, ritornò alla caverna e si addormentò. E da allora in poi, ogni giorno partì in esplorazione, allargando sempre il suo campo d’azione.
Cominciò a rendersi conto con esattezza della sua forza e della sua debolezza e quindi a capire quando era il caso di essere audace e quando invece bisognava agire con cautela. Trovò però più opportuno essere sempre cauto, tranne nei rari momenti in cui, sicuro di sé, si abbandonava a piccoli scatti di furore e obbediva ai suoi desideri.
Quando si imbatteva in qualche pernice sperduta, diventava un piccolo demonio infuriato. E non mancò mai di rispondere ferocemente al grido dello scoiattolo che aveva incontrato sul tronco di pino abbattuto. La vista di un "uccello degli alcidi" lo faceva poi montare su tutte le furie, perché non dimenticava le beccate ricevute da uno di questi.
Ma vi erano dei momenti in cui neppure uno di questi uccelli riusciva ad interessarlo: questo avveniva quando si sentiva in pericolo, minacciato da qualche altro animale a caccia di cibo. Non dimenticò mai il falco e quando ne scorgeva l’ombra saettante si rannicchiava nel cespuglio più vicino. Non camminava più dimenandosi, con le zampe larghe, ma già andava assumendo l’andatura della madre, scivolando rapido e furtivo come un’ombra.
Soltanto in principio aveva avuto fortuna: i sette pulcini di pernice e la piccola donnola rappresentavano tutta la sua preda. Il suo desiderio di uccidere cresceva di giorno in giorno ed egli nutriva cupide ambizioni nei riguardi del loquace scoiattolo che, col suo squittio, avvertiva sempre gli altri animali dell’avvicinarsi del lupetto. Ma gli scoiattoli si arrampicavano sugli alberi, e il lupacchiotto non poteva far altro che tentare di strisciare inosservato sullo scoiattolo, quando era ai piedi di un albero.
Egli provava un grande rispetto per sua madre. Essa riusciva sempre a trovare del cibo e non mancava mai di portargli la sua parte. E poi, essa non aveva paura di nulla. Egli non pensava che l’intrepidezza della madre dipendeva dalla sua esperienza. La madre rappresentava per lui la potenza: e man mano che il lupetto cresceva, questo potere si manifestava su di lui sotto forma di zampate sempre più forti, mentre i rimproveri che una volta la madre gli rivolgeva con leggeri colpetti di naso, ora erano espressi dalle sue zanne aguzze. Ma anche per questo egli rispettava sua madre. Essa esigeva obbedienza da lui e, man mano che il lupacchiotto cresceva, il carattere della madre diventava più violento.
Sopraggiunse ancora la carestia e il lupetto sentì ora, con più chiara consapevolezza, il morso della fame. La lupa, sempre in giro alla ricerca di cibo, dimagriva di giorno in giorno: dormiva pochissimo e passava quasi tutto il suo tempo in vagabondaggi infruttuosi. Non fu lunga la carestia, ma fu dura. Il lupetto non trovò più una goccia di latte nel petto di sua madre e non riuscì a procurarsi un solo boccone.
Prima, aveva cacciato per gioco, per puro divertimento: ora andava a caccia con serietà, con implacabile accanimento, ma non trovava nulla.
La mancanza di cibo accrebbe più rapidamente la sua esperienza.
Studiava le abitudini degli animali per poterli attaccare di sorpresa.
E venne il giorno in cui l’ombra del falco non lo fece più accovacciare, spaventato, tra i cespugli. Era diventato più forte, più saggio e più sicuro di sé. E poi, la fame gli aveva dato la forza della disperazione. Così si sedeva bene in vista, in una radura, cercando di attirare il falco dal cielo. Poiché sapeva che là, nel cielo, sopra di lui volava qualcosa che era carne, la carne cui anelava il suo stomaco. Ma il falco si rifiutava di scendere e dar battaglia e il lupetto strisciava tra i cespugli, sfogando il suo disappunto e la sua fame in mugolii lamentosi.
Ma la carestia finì. La lupa portò della carne. Era una piccola lince, dell’età del lupetto, ma non così grossa. Ed egli se la mangiò tutta, poiché la lupa aveva soddisfatto altrove la sua fame. Egli non sapeva che la madre aveva divorato l’intera cucciolata della lince e neppure poteva capire la disperata audacia di quell’azione. Sapeva soltanto che quella bestiola dal pelo vellutato era carne e la divorò, sentendosi più felice ad ogni boccone.
Quando lo stomaco è pieno, si diventa pigri e il lupetto si addormentò nella caverna, vicino alla madre. Fu svegliato da un suo ringhio. Mai aveva sentito sua madre ringhiare in un modo così feroce. Doveva esserci una ragione… E la ragione era questa: non si può devastare impunemente la tana di una lince. Nel pieno splendore della luce pomeridiana, accovacciata all’ingresso della caverna, stava la lince madre. Il lupetto si sentì rizzare il pelo. E il suo terrore aumentò ancora quando la lince lanciò un ringhio selvaggio e acutissimo.
Il lupacchiotto si alzò e, ringhiando coraggiosamente, si mise al fianco della madre. Ma questa lo ricacciò indietro. L’ingresso aveva il soffitto molto basso e la lince non poteva spiccare un salto per entrare: cercò di insinuarsi strisciando nella caverna, ma la lupa la ricacciò indietro. Il lupetto poté vedere ben poco della lotta. Si sentivano dei ringhi, dei mugolii, degli urli. La lince si batteva con gli artigli e coi denti, squarciando e lacerando, mentre la lupa l’affrontava soltanto con le zanne.
Una volta il lupetto si avventò e affondò i denti nella zampa posteriore della lince, ringhiando ferocemente. Benché non lo sapesse, il suo attacco fu d’aiuto alla madre. Ma improvvisamente, per un cambiamento nella battaglia, il lupetto si trovò sotto i corpi delle due avversarie e abbandonò la presa. Un attimo dopo, le due femmine si separarono e, prima di avventarsi contro l’altra, la lince colpì il lupetto con una violenta zampata che gli lacerò la spalla fino all’osso, scaraventandolo di fianco, contro una parete della caverna.
Allora al frastuono si aggiunsero i guaiti acuti di dolore e di paura del lupetto. Ma la lotta durò così a lungo che egli ebbe il tempo di sfogare la sua pena e di riprendere coraggio; e la fine della battaglia lo trovò di nuovo aggrappato alla zampa posteriore della lince, ringhiando furiosamente.
La lince era morta. Ma la lupa era molto debole e malconcia. Dapprima accarezzò il lupetto e gli leccò la spalla ferita; ma il sangue che aveva perduto le aveva tolto ogni forza e per un giorno e una notte giacque accanto al cadavere dell’avversaria, senza muoversi, respirando appena. Per una settimana non lasciò la caverna, se non per andare a bere e allora si muoveva adagio, a fatica. Alla fine di quella settimana, la lince era divorata completamente e le ferite della lupa si erano rimarginate tanto da permetterle di ricominciare la caccia.
La spalla del lupetto era infiammata e irrigidita e per qualche tempo egli camminò zoppicando. Ma ora il mondo gli sembrava cambiato. Egli vi si aggirava con maggior sicurezza, sentendosi fiero del suo valore.
Aveva combattuto; aveva affondato i denti nella carne del nemico; ed era sopravvissuto. Per questo, il suo portamento si fece più audace, più temerario. Non aveva più paura delle cose più piccole e la sua timidezza era in gran parte svanita, benché l’"ignoto" lo opprimesse sempre coi suoi misteriosi terrori.
Incominciò ad accompagnare la madre a caccia di cibo ed imparò molte cose sull’arte di uccidere la preda, prendendo presto una parte diretta nella caccia. E imparò la legge della carne. Vi erano due categorie di esseri viventi: la sua e quella degli altri. La sua comprendeva la madre e lui stesso. L’altra comprendeva tutti gli altri esseri viventi; ma era divisa in due parti. Una parte comprendeva gli esseri che egli e sua madre uccidevano e divoravano, ed era composta di animali non carnivori o di piccoli carnivori. L’altra parte di questa seconda categoria uccideva e divorava gli esseri della prima categoria o era uccisa e divorata dagli stessi. E da questa classificazione sorgeva la legge. Lo scopo della vita era rappresentato dalla carne. La vita stessa era carne. La vita viveva della vita. Vi erano quelli che divoravano e quelli che erano divorati. La legge era: "Divorare o essere divorati". Il lupetto non formulava questa legge in termini chiari e precisi e non vi rifletteva sopra. Non pensava neppure alla legge: viveva secondo quella legge senza pensarvi affatto.
Aveva visto quella legge all’opera intorno a sé. Egli aveva divorato i sette pulcini di pernice. Il falco aveva divorato la pernice madre. Il falco avrebbe divorato anche lui stesso. Più tardi, quando si era sentito più forte, egli aveva desiderato di divorare il falco. Aveva divorato una piccola lince. La lince madre lo avrebbe divorato se non fosse stata uccisa e divorata essa stessa. E così via… Tutti gli esseri viventi vivevano secondo questa legge ed egli stesso era parte di questa legge.
Se il lupacchiotto avesse ragionato come una creatura umana, avrebbe definito la vita un appetito voracissimo e il mondo un luogo in cui si aggiravano delle moltitudini di appetiti, che inseguivano ed erano inseguiti, che divoravano ed erano divorati: e tutto questo nella più assoluta, cieca confusione, con violenza e disordine, un caos di ingordigia e di strage, governato dal caso, un caos senza pietà, senza un piano prestabilito, senza fine.
Ma il lupacchiotto non ragionava come una creatura umana. Non vedeva le cose sotto un punto di vista molto ampio. Non poteva formulare più di un pensiero e di un desiderio per volta. Oltre alla legge della carne, vi erano moltissime altre leggi minori che egli doveva imparare e a cui doveva obbedire. Il mondo era pieno di sorprese. La vita che palpitava intensa nelle sue vene, il giuoco dei suoi muscoli, erano una inesauribile fonte di felicità per il lupetto. Inseguire e abbattere la preda gli dava sempre un brivido di esaltazione. Le sue collere e le sue battaglie erano delle gioie per lui. E il terrore stesso, il mistero dell’"ignoto" aggiungevano nuove attrattive alla sua vita.
E poi vi erano dei compensi e delle soddisfazioni. Aver lo stomaco pieno, sonnecchiare pigramente al sole, tutte queste cose lo ripagavano abbondantemente delle sue fatiche e dei suoi ardori: anzi le fatiche stesse, gli ardori erano già in sé delle ricompense. Erano espressioni di vita, e la vita è sempre felice quando può esprimersi.
Così il lupacchiotto si sentiva felice, vivo e orgoglioso di se stesso.