Venditore di zeppole e di altra frittura. Già in un manoscritto del ‘500 Giovan Battista Del Tufo descrive un ambulante che offriva “zeppole co lo mele”. La zeppola, propriamente, è una ciambella di farina addolcita, spolverata di zucchero. Ancor oggi a Napoli è rituale consumarla nel giorno di San Giuseppe in due versioni, fritta e al forno, magari arricchita da crema e da un tocco di amarene. I primi zeppolari ne offrivano una versione ben più spartana. Impilavano le zeppole in ramoscelli conficcati sul bordo di una rozza tavola tenuta con una cinghia ad armacollo. Sulla tavola esponevano altri prodotti in vendita, fritti in oscuri bugigattoli fumosi: panzarotti, crocché, scagliozzi di farina rossi, tittoli, paste cresciute, palle di riso, fiori di zucchini, fette di melanzane. Tutto quanto viene offerto ora in una friggitoria. Gridavano: «Zeppola, zè!», «Io tengo ‘a patanella e ‘o sciore», «’o panzarotto e ‘o sciore»; o, più prosaicamente, «è liggiero ‘o panzarotto, t’o magne ‘e sette e ‘o cache all’otto»; o, poeticamente, «fa’ marenna, fa’ meranna, te ne magne ciento dint’ a nu sciuscio ‘e viento». Si conosce anche un’antica filastrocca: «Annascuso d’ ‘o patrone / faccio ‘e rrote d’ ‘a carrozza / ‘O patrone m’ammenaccia / ‘a patrona me ne caccia / ca troppe belle è faccio / ‘sti zeppole c’ ‘a vurraccia» (la vurraccia è la borragine). Particolare la voce destinata ai bambini: «Chiagne, chiagne, accussì mammeta t’accatta ‘a zeppulella». A metà ‘800 Gaetano Torelli narra di due giochi popolari legati allo zeppularo. Il primo: con una piccola accetta bisognava tagliare quattro frittelle esattamente a metà; chi vi riusciva mangiava gratis, altrimenti doveva lasciare le frittelle all’altro scommettitore e pagarle. Il secondo gioco consisteva nel portare ad una certa distanza, senza farlo cadere, il crocché o lo scagliozzo infilati su un torsolo di spiga di granturco detto “sigaro”. Arbitro unico, il venditore. Salvatore Di Giacomo, quando ormai da tempo tanti zeppulari avevano conquistato la comodità di un negozio, indirizzò complimentosi versi a una bella esercente: «Donn’Amalia ‘a Speranzella / quanno frie paste cresciute / mena ll’oro ‘int’ ‘a tiella / donn’Amalia ‘a Speranzella». Negli anni ’30 gli ultimi ambulanti vissero una rovinosa crisi poiché le autorità fasciste – con il pretesto di garantire l’igiene, con lo scopo reale di debellare “il folclore deteriore” – sfrattarono molti rifornitori di roba fritta. I girovaghi della zeppola e del panzarotto sopravvissero vendendo merce fredda, naturalmente a prezzi ribassati.
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