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C'è quella lista dei prezzi, fatta con caratteri bianchi e gialli in stampatello appiccicati su una tavoletta nera, come nei bar di una volta. Il prezzo del taglio aumenta di 1 euro ogni 5 anni, ben al di sotto del prezzo dell'inflazione.
Ci sono i diplomi da parrucchiere appesi al muro, come lauree nello studio di un medico, garanti di professionalità e competenza. Forse nessuno si è mai soffermato a leggerle davvero.
C'è, appeso al muro, un calendario personalizzato fatto di listarelle di legno su cui è stata stampata un'immagine stile giardino giapponese, con fiore e uccelli esotici e colorati. E' il regalo che, di solito, si fa ai clienti sotto Natale. Già penso a quando, uscendo di qui, sfodererò contro ogni mio principio un precoce "buone feste", nella speranza di ottenere l'ambito premio.
Ci sono le trecce di capelli appese al muro, all'ombra della mensola su cui è appoggiato lo stereo, feticci di tagli memorabili ed entrati nel mito. Ognuna ha un'etichetta appiccicata sull'estremo prossimale, con scritto il nome di battesimo e la data.
Ci sono, appoggiate sul tavolino, le riviste scandalose di gossip appoggiate che fingo di sfogliare mentre origlio con nonchalance quello che racconta il tizio che si sta facendo rasare appena prima di me. Si sta lamentando dei suoi capelli che, a quanto pare, cadono più di quanto lui vorrebbe. Maledetti!
E, mentre nel profumo di gel si perdono i più classici dei "al limite fai come Berlusconi", seguito dal pronto "però poi si vede e costa un sacco di soldi", io, nel mio angolino della sala, spalmato sulla poltroncina in finta pelle nera, mi preparo psicologicamente al mio turno.
Marco (così si chiama il mio giovane parrucchiere "di fiducia"), tra qualche minuto mi farà accomodare davanti allo speccio con il solito "prego", a metà tra lo strascicato e il servile. Io mi siederò davanti all'impassibile e impietoso specchio delle mie brame che rimanderà l'immagine confusa dei miei ricci anarchici.
Lui sarà intorno a me, a scopare tutt'intorno i (pochi) capelli del signore di prima e li farà sparire in un angolo dietro la porta, misterioso e privato. Alla radio le solite canzoni rock di Virgin, finchè scoccherà, implacabile e puntuale il solito, temuto interrogativo: "Come li facciamo?".
Lo pronuncerà come sempre, monotono, apparentemente senza il minimo imbarazzo per lo sparuto cespuglio di rovi che si estende dal punto più alto della mia fronte fino alla nuca, posteriormente.
Sarò preparato e, come al solito, risponderò "il solito", con il volto risoluto del pensionato che ordina il bianchino al bar. Sembrerà sensato e pertinente, come se non fosse semplicemente il patetico tentativo di celare la mia ignoranza in fatto di aggettivi e descrizioni adatti a una pettinatura. Campo in cui sono, a dir poco, profano.
Dopo qualche secondo di riflessione attaccherà a parlare. Della sua gamba e della riabilitazione dopo l'incidente, prima; di motori, modelli e cilindrate di motociclette che non conosco, poi. Ovviamente, passando attraverso motoGP, gran premi di formula uno che non ho visto, circuiti e piloti dalle gesta eroiche che, ovviamente, non conosco se non per sentito dire.
Questa volta sono preparato. So che l'amata Ferrari ha perso il mondiale di formula 1 qualche giorno fa e che alcuni vogliono che Montezemolo si dimetta. L'ho letto in un pop-up che si è aperto stamattina, quando ho aperto la mail di Virgilio.
Non basta: dopo un breve excursus dialettico sul fronte meteo (un evergreen!), tra poco mi troverò a ripetere per l'ennesima volta che, purtroppo, non studio più. Lavoro, o almeno ci provo. Ah si? E in quale ospedale? No, non lo conosco. Ma è a Milano.
E via discorrendo. Il dialogo, a partire dalla sua impalcatura più ampia, fino ai più minuziosi dettagli, è già scritto, come un copione che comincio a recitare nella mia mente.
Gli racconterò anche che no, non vivo più a Milano. Chissà che lui, mono-barbiere di Canonica d'Adda, non si faccia prendere da una punta d'orgoglio nel pensare che, tra tutti i parrucchieri chic del capoluogo lombardo, io torni ancora da lui a farmi accorciare i ricci in maniera che, più corti, sembrino un poco di più!
Se mi piace andare dal barbiere, dicevo, non l'ho ancora capito. Per me, a pensarci bene, è un po' come perdere un arto. Vedere i miei capelli lì, morti, sul pavimento, caduti sotto i sapienti colpi di una lama fugace lo trovo paragonabile a vedere una delle mie dita mozzate, irreparabilmente. Certo, non c'è il dolore fisico e, soprattutto, una mano non ricresce, obiettano tutti. Ma siamo sicuri che, questa volta, non lo faranno anche i capelli?
Ammetto: in tutto questo si potrebbe essere portati a leggere una punta di narcisismo e, meglio, di psicosi. Del resto mando avanti questo blog, il che, mi sembra, rappresenta un chiaro sintomo di entrambe le cose. Concordo anche sul fatto che questo problema sia difficilmente risolvibile dato che, come mi potreste suggerire, lo scopo principale di andare dal parrucchiere è, in una percentuale del tutto rispettabile di casi, quello di farsi tagliare i capelli.
Nelle orecchie ho il suono monotono del rasoio, che quasi copre la canzone dei REM sulle FM. Lo spazio di questo foglio, sul quale sto scrivendo a penna sta per finire proprio quando il solito, rassicurante, "prego" mi richiama dalle mie elucubrazioni mentali.
E' il mio turno.
PS. Per la cronaca: alla fine, nonostante il più ruffiano dei "mi allineo alla precocità dei nostri centri commerciali nell'augurarti buone feste!" non ho avuto il calendario.
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