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Tra gli anni '60 e '70 il Killer dello Zodiaco terrorizzò San Francisco con una serie di efferati omicidi. Nonostante le indagini di polizia locale, FBI e CIA, la sua identità rimane tutt'ora un mistero.
Un ventennio e forse più. Tanto tempo, tanto materiale, tante storie. Difficile sviluppare un film su tutto questo. Eppure Fincher si affida ai libri di Robert Graysmith incentrati sul famoso serial killer e alla sceneggiatura di James Vanderbilt, uno che non ha mai brillato per i film che ha scritto, né prima né dopo. E gira il suo capolavoro. Un opera di grande respiro fatta dei personaggi che la vivono, che si nutre di loro senza per questo trattarli come carne da macello. I fatti, solo su quelli tutto ruota. Indizi, telefonate anonime, sospettati e testimoni, soffiate, vittime, lettere e congiunzioni astrali. Persino codici cifrati e citazioni cinematografiche. Nulla è lasciato al caso in una ricostruzione certosina portata avanti da un coro di voci animate dall'ossessione. Perché è l'ossessione che guida il poliziotto Dave Toschi (Mark Ruffalo), il giornalista Paul Avery (Robert Downey Jr.) e il vignettista Robert Graysmith (Jake Gyllenhaal), in modi diversi e con risultati diversi ma l'effetto di renderli tutti quanti parte di un meccanismo che ruota attorno alla figura dell'assassino, non più persona ma simbolo. Ed è l'ossessione alla fine la vera protagonista della pellicola, nelle sue diverse forme.
Ipoteticamente diviso in due parti, il film (più o meno due ore e mezza) rinuncia a qualsiasi aspirazione romanzesca e diventa una vera e propria indagine condotta attraverso i mezzi più disparati. Se nella prima fanno da protagoniste le indagini della polizia e l'inchiesta giornalistica, nella seconda ci si concentra di più sulle ricerche di Graysmith che tenta, ad anni di distanza, di trovare un filo conduttore che porti alla risoluzione del caso. Un caso di cui non interessa più a nessuno, dai molti punti oscuri, un puzzler a cui sembra mancare sempre qualche pezzo. Questo perché gli strumenti umani sono sempre relativi, perché la fallibilità del metodo deduttivo e di quello pratico incarnano la fallibilità dell'uomo stesso. E in questa visione disperata si riversa tutto il pessimismo fincheriano, solco già tracciato in Se7en (l'individuo visto come peccatore), Fight Club (la doppiezza dell'essere umano) e Panic Room (il lato oscuro in cui tutti noi ci rifugiamo) ma anche in Alien 3, volendo. Anzi, a dirla tutta Zodiac è il film più autoriale del regista poiché - a differenza degli altri - si prende tutto il tempo di cui necessita per poter approfondire questo labirintico senso di impotenza condotto con soffocante oggettività degli intenti. Con lentezza, scivolando in una rete complessa proprio perché vastissima. Un film dove l'azione viene relegata alle indagini ed è ideale se non addirittura verbale, come sarà poi in The Social Network e in The Girl with the Dragon Tatoo.
Girato in digitale ma per nulla patinato, claustrofobico grazie anche alla fotografia di Harris Savides, Zodiac è un film lungo ma non pesante, che si avvale di uno stile di regia fresco che permette allo spettatore di penetrare la storia pur senza mai divenirne parte integrante. Appunto "spettatore", nel senso più classico del termine ma reso in modi che classici non sono. Se poi ci aggiungiamo tre attori che da soli valgono il prezzo del biglietto, il gioco è fatto: Jake Gyllenhaal, Mark Ruffalo, Robert Downey Jr. Senza per questo dimenticarsi di un'inedita Chloë Sevigny. Un film che ha segnato la carriera di Fincher e il modo di affrontare (e concepire) il tema del serial killer: inedito, finalmente privo di quella parte voyerista e spettacolare a cui il cinema americano ci aveva abituato per troppo tempo.
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