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Ripercorse con la memoria le tappe del suo viaggio e tornò a Micene. Questa potente roccaforte sorgeva su una rocciosa altura, protetta alla spalle dalla nuda roccia e, di fronte, dal dominio incontrastato che essa aveva su tutta quanta la pianura circostante fino al mare.
Per entrare nell'acropoli si doveva attraversare l'imponente e minacciosa porta dei leoni che si stagliava maestosa sulle mura ciclopiche che circondavano la cittadella: quale meraviglia architettonica, quale gioiello di precisione potevano ammirare i suoi occhi!
Nello stesso istante in cui aveva varcato la soglia di quella porta, per Zoe il tempo aveva cessato di trascorrere. Gli unici suoni che riusciva a percepire erano le urla di Clitemnestra e di Egisto e gli spasimi di Agamennone, il coro delle Coefore e la vendetta di Oreste. Ad ogni passo Zoe aveva la netta sensazione che qualcuno la osservasse o la seguisse passo passo. Osservava le rovine che la circondavano e ne intuiva la fierezza, l'importanza; dal cimitero interno alla città fino al megaron e là, nella parte più alta si mise a sedere sotto un piccolo olivo che faceva una timida ombra; sentì che quello era il suo posto, che non sarebbe mai voluta andar via di lì, e volse lo sguardo attorno: le colline brulle, le rocce puntute, le mura, le stanze del megaron, si sentiva a casa.
Non riusciva più neanche a pensare, era lì e basta, e una linfa vitale le riempiva le vene. Era sicura che non fosse una suggestione psicologica, era l'intimo del suo io, non si sentiva più di questo mondo, no! Non era più Zoe e non respirava più la sua contemporaneità, non c'era. Intorno a lei non v'erano i turisti, ma Greci, Attici, Tessali che frequentavano Micene. E chi era lei? Questo la tormentava, non aveva coscienza di se stessa e quella condizione nuova la disarmava: era indifesa.
Però stava bene, non pensava più a niente, solo la sua persona lì, quel giorno, a quell'ora: era Venere, era Atena, chissà, Zoe era scomparsa.
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