Temo di aver perso qualche passaggio sul dibattito sulla zona franca in Sardegna. Poco più di un anno fa la zona franca integrale era considerata da tanti sardi la ricetta per risolvere i problemi economici della nostra isola. Oltre millecinquecento cittadini riuniti alla Fiera di Cagliari nel giugno 2013 avevano concordato con l’allora presidente della Regione Ugo Cappellacci l’offensiva da lanciare contro il Governo nazionale e L’Unione Europea per rendere tutto il territorio sardo una free zone. Poi c’è stato l’ok di Berlusconi, allora premier, l’ok di Tajani e della Commissione Europea. I Consigli Comunali di mezza isola avevano deliberato che il loro territorio era zona franca epoi lo aveva deliberato anche la Giunta Cappellacci. Dal 2014 la Sardegna sarebbe dovuta diventare una specie di paradiso fiscale come Livigno e Campione d’Italia: niente Iva sui prodotti, niente accise, benzina e gasolio come piovesse. Quello sterminato duty free a cielo aperto, con la sua macchia mediterranea e il suo mare smeraldino, sarebbe dovuta diventare la meta prediletta per i turisti di tutto il mondo. La zona franca avrebbe dovuto portare risparmio, ricchezza e posti di lavoro. E poi?
La prima bastonata è arrivata lo scorso gennaio, quando i sardi hanno appurato che fare il pieno al distributore costava sempre la stessa cifra (con le accise) e che i commercianti continuavano imperterriti a far pagare l’Iva sui prodotti in vendita. Qualcosa non andava.
Il movimento Sardegna Zona franca – che comunque ha sempre sostenuto che il problema della zona franca stava non tanto nel chiedere privilegi alle istituzioni nazionali e sovranazionali quanto nell’applicazione delle leggi già esistenti – si è poi incrinato per la poco opportuna scelta di alcuni esponenti di spicco di schierarsi con il governatore uscente Cappellacci alle elezioni di febbraio.
La batosta elettorale alle regionali ha fatto il resto. La Sardegna, messa in ginocchio dalla crisi economica e stanca di promesse non mantenute, ha optato per la linea del centrosinistra che non ha mai creduto nella fattibilità (soprattutto economica) della zona franca integrale.
Ma adesso, a un anno di distanza e ad elezioni passate, che cosa è rimasto del dibattito sulla zona franca in Sardegna? Era solo propaganda elettorale? Chi aveva ragione? Chi aveva torto?
Zona franca e punti franchi
A quanto pare la nuova Giunta di centrosinistra, per la verità in coerenza con quanto dichiarato in campagna elettorale, sta ripartendo dalla discussione sull’istituzione dei punti franchi doganali nei porti della Sardegna. Lo ha assicurato qualche settimana fa l’assessore regionale alla Programmazione Raffaele Paci durante la presentazione di un libro sulle zone franche scritto da Tore Cherchi e da Aldo Berlinguer.
Forse, a sedici anni di distanza, i famosi punti franchi istituiti nel 1998 in ottemperanza allo Statuto del ’48 grazie all’accordo istituzionale tra la giunta regionale allora presieduta da Federico Palomba e il governo D’Alema, saranno ripresi in considerazione: quello di Cagliari è pronto a partire perché nel frattempo è anche arrivata la delimitazione. Per gli altri (Oristano, Olbia, Porto Torres e Arbatax), la Regione deve ancora formulare la proposta al Governo.
Ma mentre la Sardegna discute con calma le altre regioni vanno avanti. Qualche giorno fa il Direttore interregionale dell’Agenzia delle dogane e dei monopoli, Andrea Zucchini, ha accolto la richiesta presentata nel giugno 2013 (mica nel 98) dall’Autorità portuale di Taranto per rilanciare i traffici e attrarre nuovi investimenti: l’area portuale di Taranto, una superficie di un milione e 45mila metri quadrati, è stata riconosciuta zona franca doganale non interclusa. Il che comporterà un taglio di tasse e costi per gli operatori che vì si insedieranno.
Ma la vera novità arriva dalla Sicilia, regione in cui si è iniziato a parlare di zona franca integrale soltanto a seguito dei movimenti popolari della Sardegna.
Il gruppo Grandi Autonomie e Libertà (Gal) ha infatti presentato attraverso il senatore siciliano di Forza Italia Giovanni Mauro una serie di emendamenti al disegno di legge costituzionale “Disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del Cnel e la revisione del titolo V della parte seconda della Costituzione” alla Commissione Affari Costituzionali di Palazzo Madama.
In questi emendamenti si chiede che “vengano riconosciute (con emendamenti agli articoli 28 e 33 che modificano l’art.119 della Costituzione) le peculiarità delle regioni insulari, come avviene in tutta Europa, attraverso prioritari interventi di perequazione fiscale ed infrastrutturale annualmente indicati nei documenti di finanza pubblica e che la Sicilia e la Sardegna vengano riconosciute zona franca insulare interclusa dal mare territoriale circostante“.
Secondo il senatore siciliano si tratta di “interventi fondamentali per la Sicilia che deve veder riconosciuta la sua peculiarità di Regione a Statuto Speciale attraverso misure come il regime della zona franca che possano affrontare in maniera decisiva il divario economico e sociale con il resto del Paese“.
Insomma la proposta di zona franca integrale in Sardegna, accantonata dopo la dura campagna elettorale che ha portato alla vittoria del centrosinistra alle regionali dello scorso febbraio, sembra possa ritornare da una finestra. Per giunta da una finestra siciliana.
Cosa faranno allora i parlamentari sardi?
Continueranno a non trovare un dialogo per portare avanti le istanze della nostra regione né in Sardegna, né a Roma e né a Bruxelles o a Strasburgo? Oppure proveranno a ragionare insieme dello sviluppo della nostra isola accantonando i pregiudizi e dando voce alla popolazione?
Poco più di un anno fa, il 24 giugno 2013 per la prima volta – al culmine di quella importante battaglia popolare – una delegazione del Movimento Sardegna Zona Franca trattò insieme alla Regione Sardegna con il Governo italiano la modifica dell’articolo 10 dello Statuto sardo che nella versione aggiornata ora recita:
La Regione, al fine di favorire lo sviluppo economico dell’Isola e nel rispetto della normativa comunitaria, con riferimento ai tributi erariali per i quali lo Stato ne prevede la possibilità, può, ferma restando la copertura del fabbisogno standard per il finanziamento dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali di cui all’articolo 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione:
a) prevedere agevolazioni fiscali, esenzioni, detrazioni d’imposta, deduzioni dalla base imponibile e concedere, con oneri a carico del bilancio regionale, contributi da utilizzare in compensazione ai sensi della legislazione statale;
b) modificare le aliquote in aumento entro i valori di imposizione stabiliti dalla normativa statale o in diminuzione fino ad azzerarle.
Volenti o nolenti quello raggiunto nella scorsa legislatura è stato un risultato politico importante: eppure quella modifica statutaria non è stata neppure segnalata nella versione dello Statuto Sardo pubblicata nel sito internet della Regione Sardegna.
Non è certo un bel messaggio.
Voglio concludere con le parole di Francesco Scifo, amico e avvocato che si è speso molto per la causa della zona franca integrale. Scifo risponde al giornalista Beppe Severgnini che, nel suo blog, ipotizza che i problemi della Sardegna si possano risolvere con un indennizzo statale e con progetti calati dall’alto dal Governo (esperienza come ben sappiamo già vissuta con esiti fallimentari nel periodo dei Piani di Rinascita).
Sono parole amare, ma possono essere un ulteriore spunto di riflessione per una politica seria che cerchi, senza pregiudizi, soluzioni per lo sviluppo della nostra regione e non solo modi per mantenere intatto il proprio potere.
“Esistono ben cinque leggi che hanno istituito la zona franca della Sardegna, con contorni giuridici precisi: L. Costituzionale 3/1948, d.lgs.75/98, L.R.10/2008 e L.R.20/2013. Tuttavia, esse non vengono applicate dalla magistratura, dall’amministrazione, dalla politica, dalla confindustria e ignorate dai sindacati e dai partiti.
Purtroppo, la mafia non è solo quella che vediamo in Sicilia, ma anche quel coacervo d’interessi economici, locali, nazionali ed internazionali, che uccide l’economia di una regione violando deliberatamente le leggi esistenti. Lasciare le popolazioni nell’ignoranza delle leggi e del diritto di esigerne l’applicazione attenta alla democrazia. Mantenere le persone in una sacca di povertà è una situazione manovrabile con le sovvenzioni e gli indennizzi. Questo è ciò che, da molto tempo, fornisce un ottimo bacino elettorale sfruttato senza pietà. Le leggi esistono già e potrebbero rendere autonoma l’Isola: esse sono risolutamente nascoste e violate da chi dovrebbe applicarle e insegnarle.
Gli indennizzi sono aiuti di Stato, mentre la zona franca non lo è: questa è solo la corretta espressione dell’autonomia speciale, riconosciuta anche dall’Unione Europea per garantire la coesione (174TFUE). La zona franca non è un privilegio, ma il rimedio per compensare la difficoltà di un’Isola dove i costi di produzione sono il 30% in più che nel resto d’Italia per l’assenza d’infrastrutture ed elevati costi di trasporto: l’Europa è distante 240 miglia marine. L’annessione alla Svizzera è forse l’unica alternativa che si pone ad un Isola che vuole legalità. La Confederazione le leggi le applica, al contrario dell’Italia”.