Qualche mese fa avevo sollevato la questione dell’oblio ingiustamente caduto su Nino Zucco (Nessuno è profeta in patria: Nino Zucco), proprio mentre nella vicina Palmi l’artista eufemiese veniva celebrato con i dovuti onori. Non ho difficoltà ad ammettere che fino a non molti anni fa ignoravo l’esistenza di questo artista poliedrico: pittore, scultore e scrittore, come recita il titolo del convegno. Nessuno me ne aveva parlato e reperire i suoi libri è un’impresa non da poco. Nella biblioteca comunale di Sant’Eufemia se ne trova soltanto uno; per gli altri, occorre rivolgersi altrove: Palmi, Polistena, Reggio Calabria.
Il mio primo “incontro” con Nino Zucco è avvenuto sulle colonne di un quotidiano locale, grazie alla lettura di un articolo che segnalava l’organizzazione del convegno “Nel centenario della nascita: Nino Zucco, una vita per l’arte” (2010), a cura dell’associazione culturale “Le Muse” di Reggio Calabria, presieduta dal professore e critico d’arte Giuseppe Livoti. Risale invece a qualche mese fa la notizia che il figlio, Antonello, aveva consegnato all’amministrazione comunale di Palmi una ventina di opere del padre (taccuini, oggetti personali, acquarelli, grafiche, sculture).
A Sant’Eufemia, prima di oggi, il silenzio più assoluto. Riflettendo su questo, consideravo quanto fosse triste constatare come il paese d’origine di una personalità così significativa nel panorama culturale nazionale non avesse mai pensato di perpetuarne in qualche modo il ricordo. Anche soltanto procurando i libri scritti da Zucco, per custodirli presso la biblioteca comunale e metterli a disposizione della collettività. L’articolo registrò le immediate repliche di Antonello Zucco e di monsignore Giorgio Costantino (nipote dell’artista eufemiese), alle quali fece seguito l’azione dell’amministrazione comunale, che ha tempestivamente accettato la donazione di sette opere d’arte proposta da Antonello Zucco e che, in breve tempo, ha organizzato il convegno odierno.
Molto è stato detto sul valore artistico di Zucco pittore e scultore. Meno note, invece, sono le sue qualità letterarie, anch’esse di livello e apprezzate da fior di critici.
I suoi racconti, in genere ispirati dai luoghi della memoria (Diambra, Mistra, Muraglio), possono essere accostati ad alcuni bozzetti di Giovanni Verga o di Luigi Capuana, i maestri del verismo italiano. Già a una prima lettura appare evidente un tratto inconfondibile, che svela l’influenza esercitata dall’arte pittorica sullo stile narrativo. La parola si fa pennello; così come la tela diventa un foglio bianco sul quale scrivere storie vissute o ascoltate. Nino Zucco è questo: uno scrittore che dipinge e un pittore che racconta.
Il suo primo libro è Fuoco a Diambra (1956), raccolta di racconti con protagonisti alcuni “personaggi” del paese natio. Il titolo rievoca uno dei tanti incendi verificatisi nella storia di Sant’Eufemia e fornisce all’autore lo spunto per soffermarsi sulla storica rivalità tra gli abitanti del “Vecchio Abitato” e quelli della “Pezzagrande”. Una vicenda che rimanda a quanto accaduto dopo il terremoto del 1908, quando – al termine di una polemica molto aspra – fu deciso di ricostruire il paese nel nuovo rione della “Pezzagrande”, mantenendo però anche il precedente sito (da allora, “Paese Vecchio” o “Vecchio Abitato”), che la fazione più “tradizionalista” si rifiutava di abbandonare.
Il volume è impreziosito dall’autorevole recensione di Arrigo Benedetti, noto giornalista che si era formato alla scuola di Leo Longanesi, sulle pagine della rivista “Omnibus”. Proprio insieme a Longanesi e a Mario Pannunzio, altro nome di primo piano del giornalismo italiano, Benedetti aveva firmato, su “Il Messaggero” del 26-27 luglio 1943, l’editoriale che annunciava la fine del Ventennio fascista, dopo l’approvazione dell’ordine del giorno “Grandi” e l’incarico per la formazione del nuovo governo affidato da Vittorio Emanuele III al generale Pietro Badoglio. Fondatore e direttore di alcune tra le riviste italiane di maggiore successo (“Oggi”, “L’Europeo”, “L’Espresso”), Benedetti diresse inoltre “Il Mondo” e “Paese Sera”.
A proposito di Fuoco a Diambra, Benedetti scrive:
In questi racconti, tutti pervasi da una calda umanità, l’Autore, da acuto osservatore, delinea aspetti della vita del nostro tempo. Sia che rappresenti con crudo realismo personaggi della sua Calabria, sia che, portato a scrutare in profondità gli aspetti deteriori della società, ne scopra il volto più ignorato, egli raggiunge, attraverso una felice creazione di caratteri, un’efficacia descrittiva che fa dei suoi racconti un tipico e genuino esempio di narrativa moderna. Lo stile dei RACCONTI DI DIAMBRA, scarno e privo di inutili orpelli, non sconfina mai – come forse gli argomenti trattati potrebbero suggerire – nella facile retorica, ma si mantiene costantemente su un tono elevato che contribuisce a mantenere desto l’interesse del lettore.
Nel 1977 Zucco dà alle stampe I racconti di Mistra, volume che ebbe una vicenda editoriale singolare. Nello stesso anno vede infatti la luce Viaggio all’alba (sottotitolo: I racconti di Mistra), che contiene gli stessi racconti, con identiche impaginazione e numerazione delle pagine. Di fatto, lo stesso libro, pubblicato nel medesimo anno, con una copertina diversa (il dipinto dell’autore dal titolo “Tramonto”). Altra differenza, la presenza, nel risvolto di copertina, di un precedente giudizio critico dello scultore Michele Guerrisi (deceduto nel 1963), la cui bottega romana Zucco frequentò e con il quale ebbe un rapporto di profonda amicizia. Proprio al 1977 risale il lungo articolo scritto da Zucco per la rivista reggina “La Procellaria”: Michele Guerrisi: scrittore, scultore, filosofo.
Il suggestivo toponimo “Mistra” trae origine dall’omonima città del Peloponneso, dalla quale provenivano i fondatori di Sant’Eufemia, greci al seguito dei monaci basiliani che intorno al IX secolo emigrarono per sfuggire alle persecuzioni degli imperatori iconoclasti. Una delle strade più antiche di Sant’Eufemia è appunto “via Mistra”; pertanto, si legge “Mistra” (come, altrove, “Diambra” o “Muraglio”), ma deve intendersi “Sant’Eufemia”. L’autore, introducendo i racconti, osserva:
Mistra pare abbia mille anni di vita: lo si desume da alcuni atti custoditi nell’Archivio di Stato di Napoli. Mistra è un nome greco. Si vuole che i primi ad arrivare lassù e a fondare il borgo siano stati i basiliani, gli stessi monaci che pare abbiano piantato i grandi boschi di uliveti che dalle falde dell’Aspromonte degradano per colline e piani fino al mare di Medma e Locri. Mistra è situata in una di queste colline, ai piedi del monte. A nord e a sud è delimitata da orti rigogliosi e fertili che producono frutta succosa e ortaggi saporiti e teneri. L’acqua scende dalle gole dell’Aspromonte limpida e fresca. Verso l’alto, i viottoli degli orti sono coperti da fitti pergolati di uva “olivella” e “ruggia”, così chiamata perché i chicchi, grossi come noci, hanno il colore della ruggine.
Nel 1983 esce il romanzo Il Muraglio. Cronaca di ieri. Prefatore del libro è Mario De Gaudio, giornalista originario di Cosenza che fu capo del servizio esteri e redattore capo del quotidiano romano “Il Messaggero”. Esperto di questioni sudamericane, seguì le vicende del colpo di Stato di Augusto Pinochet in Cile (1973) e fu il primo giornalista occidentale a raccogliere la testimonianza della moglie di Salvador Allende, fuoruscita dal Cile subito dopo la morte del marito. Poeta e scrittore, per diversi anni presidente del Centro studi “Corrado Alvaro” di Roma, nel presentare Il Muraglio, De Gaudio annota:
Nelle sue narrazioni, Nino Zucco, con l’una e con l’altra qualità di scrittore e di pittore, ha reinterpretato i protagonisti di una umanità meridionale cruda e pertinace. Figure d’altri tempi, ma moderne per il male di vivere che li circonda, per le angosce inespresse, ma presenti nella filosofia segnata da bibliche dannazioni. Figure che sembrano uscite da una tela, dove il nero incornicia volti di donne straziate da logoranti attese di morte [e qui la mente corre, necessariamente, al quadro “Donne di Mistra”, riprodotto nella copertina dei “Racconti di Mistra” e che fa da sfondo alla locandina della manifestazione odierna]. Ma innanzi questa morte c’è lo splendore di una natura percepita in lontananza e ferma davanti ad un destino ostinatamente chiuso alla gioia.
La sintesi del profilo biografico dei critici che hanno recensito i libri di Zucco avvalora la tesi di una collocazione tutt’altro che marginale dell’artista eufemiese negli ambienti intellettuali della Capitale. Per averne maggiore consapevolezza occorre però leggere il libro Incontri, pubblicato nel 1978.
Gli incontri in questione non si riferiscono ai rapporti di amicizia più significativi e intimi che Zucco coltivò con “la meglio gioventù” calabrese trasferitasi a Roma nella prima metà del Novecento: il compositore palmese Francesco Cilea, il pittore e scultore Michele Guerrisi (nato a Cittanova), lo scultore Alessandro Monteleone (originario di Taurianova), gli scrittori Corrado Alvaro (San Luca) e Leonida Repaci (Palmi).
Incontri presenta tutta una serie di protagonisti di rilevo del circuito artistico regionale, nazionale, ma anche internazionale (si pensi agli “incontri” con il direttore d’orchestra Leonard Bernstein e con il pittore Salvador Dalì) con i quali Zucco si relazionava, restituendo così al lettore l’atmosfera culturale che Zucco respirò.
Tra i corregionali, Raoul Maria De Angelis apprezzò molto Fuoco a Diambra. Giornalista, pittore e scultore, il romanzo più famoso dello scrittore nato a Terranova da Sibari è La peste a Urana (1943), che fu al centro di una querelle per le accuse di plagio rivolte ad Albert Camus, autore qualche anno dopo del capolavoro La peste. Significativo anche l’incontro con Antonio Piromalli (originario di Maropati), uno dei maggiori storici della letteratura italiana, autore dell’opera in due volumi La letteratura calabrese.
Zucco frequentò inoltre assiduamente lo scrittore, saggista e critico letterario Italo Borzi, uno dei massimi studiosi di Dante e Pirandello (presiedette l’Istituto di studi Pirandelliani), dei quali curò l’opera omnia per la casa editrice Newton Compton. L’artista eufemiese si recava a trovarlo presso la Fondazione Besso, dove Borzi leggeva e commentava magistralmente i canti della Divina Commedia.
Altra frequentazione capitolina, il critico letterario Giovanni Orioli, profondo conoscitore del poeta Giuseppe Gioacchino Belli, del quale curò la pubblicazione dello “Zibaldone”. Orioli presentò Fuoco a Diambra all’interno dello storico “Caffè Greco” di via Condotti e nella recensione redatta per la rivista “Nuova Antologia” inserì Nino Zucco tra gli eredi della scuola verista dell’Ottocento.
E poi Mario Dell’Arco (pseudonimo di Mario Fagiolo), architetto e poeta romano, con Pier Paolo Pasolini curatore per la casa editrice Guanda dell’antologia Poesia dialettale del Novecento (1952). In Incontri Zucco ricorda che Dell’Arco si affidava spesso alla sua “consulenza” per tradurre in lingua italiani i vocaboli più ostici del dialetto calabrese.
Infine, l’attore reggino Leopoldo Trieste, che collaborò con i più grandi registi cinematografici (Federico Fellini, Roberto Rossellini, Steno, Mario Monicelli, Dino Risi, Pietro Germi); il popolarissimo Mino Maccari, giornalista e scrittore, oltre che pittore e scultore; e tanti altri personaggi del mondo della cultura e dello spettacolo.
L’incontro più importante fu però quello con Francesco Cilea, nelle cui vene scorreva un po’ di sangue eufemiese, dato che la nonna materna Rachele Parisi era nata a Sant’Eufemia, dove aveva contratto matrimonio, nel 1822, con il nonno del compositore (suo omonimo), un medico originario di Pentidattilo.
Zucco fu ospite assiduo della casa del compositore palmese, sia a Roma che a Varazze, in provincia di Savona, dove Cilea trascorse gli ultimi anni di vita. Un suo celebre quadro raffigura l’insigne musicista seduto al pianoforte della propria abitazione; un disegno a carboncino ne ritrae invece il volto sofferente, a pochi giorni dalla morte. Fu grazie alla sua opera di convincimento che la moglie di Cilea, inizialmente contraria, acconsentì di rilevare il calco del viso del marito, per realizzarne la maschera.
Nel 1981, a trent’anni dalla morte del maestro, Zucco diede alle stampe un devoto e affettuoso ricordo: Francesco Cilea. Ricordi e confidenze.
Queste brevi note bio-bibliografiche evidenziano lo spessore culturale di Nino Zucco. Con la realizzazione del convegno e con la collocazione di alcune sue opere nella pinacoteca comunale, Sant’Eufemia oggi rimedia agli errori del passato, anche se – purtroppo – è andata persa la possibilità di ricevere, a costo zero, una parte consistente del patrimonio pittorico di Zucco, che è finito a Palmi e che invece avrebbe potuto dare prestigio e bellezza a questo Palazzo municipale. Per una comunità, è colpa grave non valorizzare i talenti dei propri figli. Spesso si discute su cosa fare per rendere migliore l’ambiente in cui si vive e ci si perde in discussioni sterili sui massimi sistemi. In realtà, non ci vuole molto. È sufficiente, ad esempio, una manifestazione come quella di oggi. Un’iniziativa che io considero il modo in cui Sant’Eufemia si riconcilia con la propria storia e una forma di risarcimento nei confronti di Nino Zucco.
Pertanto, mi auguro che in futuro si possano realizzare altre iniziative analoghe. Occorre incoraggiare tutti i tentativi di fare memoria, per soddisfare quel bisogno naturale di identificarsi in una storia collettiva e di sentirsi parte di un destino comune.
Sono convinto che sarà la bellezza della cultura a salvarci. Perché la capacità di fare, divulgare e apprezzare la cultura rende gli individui migliori e più vivibile la società nella quale essi operano.
Ringrazio quindi il sindaco Creazzo e l’amministrazione comunale e li esorto a continuare su questa strada: la strada della cultura; la strada della riscoperta delle nostre radici; la strada delle nostre piccole e grandi storie; la strada che ci è stata indicata da concittadini illustri come Nino Zucco.