Magazine Diario personale

Adios, Juanito

Da Iomemestessa

Massacrata da anni di ispanici sfottò su Silvio B. (quando uscì la lettera di Veronica su Repubblica, ero in Spagna, e fu subito martirio), ieri all’ora di pranzo, mentre il TG2 consegnava alla storia il lungo regno di Juan Carlos I, una stordita, nel basso Piemonte, artigliava il cellulare e mandava a 10 vittime accuratamente selezionate il seguente testo.

¡El Rey no ha muerto! ¡Que viva el Rey! ¡Larga vida al muy preparado!

I messaggi di ritorno erano affranti, quasi quanto la mia espressione quando venne alla luce il caso Ruby con contorno di cene eleganti. Ciò premesso, non sono del tutto certa che il regno di Felipe VI vedrà la luce. Che gli Spagnoli son sempre stati Juancarlisti, mica monarchici, e, soprattutto dopo gli ultimi scandali, pure poco Juancarlisti.

Juan Carlos I, al secolo Juan Carlos de Borbon y Borbon (che Borboni erano sia il padre, don Juan, Conde de Barcelona, figura tragica della storia di Spagna che meriterebbe un post a sé, che la madre, Maria de la Mercedes de Borbon-Dos Sicilias), nato in esilio a Roma, colpevole (per quanto inconsapevole, eran bambini e stavan giocando) della morte del fratello Alfonso (un gioco sciocco, un’arma carica, la tragedia che si consuma nella casa dell’esilio in Portogallo), separato (ma non per quel tragico evento) praticamente bambino dalla famiglia per avere una possibilità di riprendersi un giorno il trono, e fagocitato da quel buco nero che fu la Spagna del franchismo, è una grande figura (a volte tragica) del ’900 e sarebbe bene non liquidarlo con poche righe.

Non sono una sua ammiratrice a priori, ma ammetto che ebbe le giuste qualità per transitare il paese dal franchismo alla democrazia. Pur avendo dubbi sul fatto che fosse del tutto ignaro del colpo di stato del 23-f (23 febbraio 1981, in Spagna per tutti, el 23f). Ma su quel fatto gli aspetti oscuri sono tanti e tali, che se ne potrebbe discutere per giorni senza addivenire a nulla. E allora lasciamo che il giovane (allora) Re di Spagna passi alla storia come salvatore della patria.

Il suo più grande pregio fu di essere talmente profondamente spagnolo da piacere, d’istinto, agli pagnoli stessi. ‘Muy campechano’ (molto alla mano, diremmo noi, ma il concetto non esaurisce il senso del termine spagnolo), parecchio machista (e lo spagnolo medio é, ancora oggi, molto machista, più degli italiani, per dire), amante del buon cibo, delle belle donne, del tabacco, del buon vino.

Juanito, per l’appunto. Uno di loro.

Poi, inesorabile, il declino. Ché Juanito, ha seguitato ad essere Juanito, mentre il suo popolo è scivolato inesorabilmente in una crisi economica pesantissima che ha trasformato quel che fu della movida in club di indignados, e gli spagnoli, che di lui si fidavano, hanno cominciato a vedere el Rey desnudo.

E a trovarlo ridicolo con le sue 1500 amanti, e fuori luogo la sua ultima favorita, una principessa tedesca dalla dubbia reputazione, a considerare offensive le spedizioni in Botswana a cacciare elefanti (che per uno presidente del WWF in effetti…) addebitando costi (esorbitanti) allo stato, per tacer della sicurezza, e, vieppiù, spaccandosi un’anca, come un nonnetto qualsiasi.

E poi le manovre finanziarie di genero e figlia (l’infanta Cristina, quella sveglia delle due) di cui forse era al corrente e forse no, quelle stesse manovre che hanno portato la figlia a testimoniare davanti ai giudici, prima volta nella storia dell’ispanica monarchia.

Tutto questo, unito alle difficoltà sempre più marcate di dissimulare la separazione in atto con la Regina (non tanto per le 1500 amanti, ma, soprattutto, per la mancanza di discrezione nell’avercele, e per le difficoltà di un matrimonio combinato e partito male fin dall’inizio, con lei innamorata e lui no, che son sempre tragedie quelle).

Regina che, in questo momento, incarna senz’altro il personaggio più rispettato dell’intero consesso, non foss’altro che per l’abnegazione con cui adempie al ruolo.

Molte buone ragioni per abdicare, insomma, anche se è una scelta che stupisce, visto che, per i Borboni, è sempre stata consuetudine morire sul trono (El Rey ha muerto, viva el Rey).

Sempre e quando ci riesca a sedere sul trono, Felipe de Borbon y Grecia, molto poco Borbon e parecchio Grecia, dal carattere scialbo, dal cursus honorum scolastico mediocre (qualcuno dovrebbe spiegare ai reali che quando i figli son mediocri, mandarli a scuole di prestigio frequentate da commoner è una pessima idea, perchè già la calunnia è un venticello, figuriamoci la realtà), che da vent’anni i genitori vanno incensando come il più preparato per i compiti che l’attendono (da lì lo sfottente nomingnolo del ‘muy preparado’).

Sposato con una reporter fors’anche bellina ma dal carattere spigoloso ed inadatto a morder l’aglio e a dir che è dolce, che risulta simpatica come una manciata di sabbia nelle mutande alla maggior parte degli spagnoli, e che, secondo me, non ha la più pallida idea di come si faccia la Regina, un ruolo per cui occorre una solida preparazione oltre ad una certa inclinazione personale. Una che si applica anche poco, comunque, visto che in dieci anni da Principessa delle Asturie non è riuscita a metter insieme un inglese decente (e visto che non le mancano i mezzi, direi che il problema è la volontà). Soprattutto, una che non è disposta a mollare i propri spazi, e magari ha pure ragione, però ecco, lo sapevi che non sposavi Monsù Travet, adesso fattene una ragione. E con buona grazia pure. Una che va in Parlamento vestita come se dovesse andare in spiaggia, che ama le gonne corte e i pantaloni che sembrano tanga, e qualcuno la informi che le Regine, ecco, non vestono così.

Son rigida? No, concreta. Per me puoi pure girare addobbata come Avril Lavigne o Lady gaga, però se hai un ruolo, devi recitarlo. Ti pagano un appannaggio reale anche per quello. Ognuno di noi ha il proprio copione sulla grande scena che è la vita, e il dovere di recitarlo al meglio delle proprie possibilità.

Per me, da come buttavano ieri sera le manifestazioni a Velancia, Madrid, Barcelona manco le chiappe sul trono appoggiano questi due, nel caso, o tirano fuori risorse al momento insospettabili, o li cacciano a pedate entro un paio d’anni.

Nel frattempo, Adios, Juanito. A me piace ricordarlo così, durante il discorso del 23 febbraio 1981, forse il suo momento più alto.

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