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Alcune ricorrenze nella poesia di Milo De Angelis

Da Narcyso

tratto da LA MOSCA N. 23

CI FRASTORNA QUESTA FURIA DI VOCI
Alcune ricorrenze nella poesia di Milo De Angelis

insegnatemi il cammino, voi che siete
stati morti, attingete la nostra
verità dal pozzo sigillato, staccatevi dal tempo
e portateci oltre le tragiche colonne
tra i fari dei camion e un piumino
getteremo le più alte
astrazioni in un sussulto di fiammiferi,
torneremo a casa, vi diremo.
 

Alcune ricorrenze nella poesia di Milo De Angelis
Si conclude, dunque, con un ritorno, questo nuovo libro di Milo De Angelis: Quell’andarsene nel buio del cortili, Mondadori 2010. E’ scritto in una stagione della vita che ha travalicato le porte dei sussulti e delle domande ma che, piuttosto, si rivolge alle ombre con uno sguardo riassuntivo, sostando ossessivamente nell’idea di una ripetizione destinale. Sono poesie che abitano ancora il cono d’ombra del libro precedente. Lì si invocava l’addio, la distanza necessaria, delle ombre, dal nostro non poterle più contenere; qui un pensiero portato avanti, come, invece, a volerle raggiungere col passo attardato e un po’ stanco del pellegrino; rendere le armi con onore: perchè «ognuno è solo il suo andarsene», disposti, ora, a imparare qualcosa,  «siamo i supplici/rimasti ad ascoltare».

Se dovessi riassumere tutta l’avventura poetica di Milo De Angelis, sceglierei la parola compito, quel gesto feroce e necessario del portare a termine a tutti i costi e che ereditiamo fin dalla nascita per statuto ontologico della specie: «sentirai ogni battito del tuo cuore/come un piccolo dovere»1, anche subendone l’irrazionalità; gesto che non ha niente a che fare con la concatenazione delle cause e degli effetti, debito e resa, perdita e ricavo, ma rilevante solo perché è la consegna.2

  «Adesso tu/devi tradurre». Che cosa tradurre? Non si tratta di responsi, vaticini, certezze da interpretare, ma sillabe per le quali trovare un ordine provvisorio. Pur ammettendo l’inconoscibilità del reale, e che ogni cosa è sottomessa a una legge oscura e precisa, a un vero ordine riconosciuto, il poeta non può sottrarsi alla ripetizione del gesto –   che è la sua stessa parola  – altrimenti, scrivendo, scriverebbe compiutamente una sola volta, e per sempre. Le voci si presentano, invece, sempre,  ossessive. Non sono mai acquietate. Il vero nome che si cela dietro ogni nome, è la necessità di dover ricominciare ogni volta, proclamando la grande luce oscura del segreto e ribadendo l’impronunciabilità di ogni verità. Ciò che splende allora, è la voce strozzata, la ferita, le parole offerte al grande Nulla, come se scrivere non fosse altro che questo gesto paradossale del ribadire, del rinascere tutte le volte alla necessità di una medesima dichiarazione.

L’opera di Milo De Angelis è tutta tesa al compito  –  attraverso la ricerca inaudita  di una pronuncia esattissima  –  di accorciare lo scarto di tempo che separa le parole dalle cose. Perché ciò che esiste veramente, in realtà è già accaduto e noi possiamo solo celebrarne il precario, doloroso splendore. La parola è sempre tesa, fino al rischio della rottura, «l’idea/e lo scisma nell’idea»3; cioè l’ammutinamento all’interno della stessa fortezza mentale.

Questo percorso verso una inaudita esattezza, è rappresentato, in questo ultimo libro, dall’immagine della freccia: la freccia negli anni, nei nostri anni, archetipo del percorso, del viaggio, del frangersi o della vittoria. Del ritornare, anche, del ripetere necessariamente l’obiettivo mancato4. Esattezza geometrica, soprattutto, concatenazione logica e ancella della necessità. «E’ qui, in un angolo della stanza, scocca/la sua freccia negli anni, nei nostri anni,/e vacilla»: voce che anela al racconto solo in quanto ripetizione. La poesia di Milo De Angelis, infatti, s/drammatizza la narrazione, nel senso che ne proclama l’impossibilità perché ammette la superiorità dell’attimo, irrappresentabile come dislocazione e svolgimento, ma solo in quanto momento conclusivo e definitivo del già accaduto. Niente può essere veramente raccontato perché il teatro della vita si riduce, alla fine, a quel fazzoletto di asfalto in cui per l’ultima volta, prima della separazione, due amanti si dicono addio5. Salutarsi è l’atto naturale e falso che si autoproclama, falso in quanto nasconde il vero accadere, la verità semplice e terribile che ognuno già sa: e cioè quella del ritornare al Nulla tutte le volte che non ci sentiamo all’altezza, che sbagliamo, condannati a perpetrare il dolore del mondo: «Siamo soli, in un silenzio precedente».  Testimoni di un tempo universale, non solo del  nostro, di questo mondo, «accordiamo le lancette del cronometro/a quelle del cielo, al sangue, al/sangue incustodito».6 La parola, allora, è interminabile in quanto sempre data nella sua ripetizione: «Poi/la parola che presenta se stessa,/l’interminabile parola data».

Noi siamo gemelli di qualcuno che è già esistito o che esisterà e il compito della parola è mostrare questa separazione, lo scisma dell’essere recitati e recitanti: «Ciò che vedo mi fu consegnato/da un respiro/simile al mio, gemello e nemico».

Così torniamo indietro – un altro tema ricorrente in tutta l’opera di questo poeta –  fin da quei versi celebri: «finchè il figlio ritorna nella fecondazione/e prima ancora, nel bacio e nel chiarore/di una camera, il grande specchio,/il desiderio che nasce, il gesto»7.

Tema ribadito, anche in questa occasione: «Indietreggia/ogni evento fino alla sua cellula»; ma con un chiarimento: «ma poi ritorna qui, alla radice/di una stanza e di una donna »; e cioè quel ritorno avviene ancora prima, prima del tempo del bacio e dell’abbraccio, prima che il seme si faccia seme.8

Assistiamo, in queste ultime poesie, a una accelerazione verso la conclusione: «bisogna consegnare,/tra qualche minuto, bisogna/consegnare anche la brutta». A un assedio dei corpi, delle presenze che chiamano: «è sempre più vicina/quest’armata dei corpi»; «Non rispondono all’appello, sono/dispersi ai bordi della terra»; «Chi parla nella sera? Chi preme/ancora questo citofono?»; «Giungono, stanno giungendo».

Cogliamo questa urgenza osservando la struttura parallela di una serie di immagini, come se non ci fosse più tempo di legarle, di consegnarle alle regole di uno stesso paesaggio: «scendo in un giorno remoto,/il polpaccio s’indurisce,/il bus termina alle dieci, di ombra/in ombra si abbrevia una vita,/l’erba cresce nei corridoi», fino all’urgenza del dovere di consegnare, fra qualche minuto. Si fa più pressante l’attesa del «l’unica data che mi osserva e mi aspetta»;  tutto quello che è stato deve ancora avvenire: «Avverrà,/dicevi, tutto quello che è stato,/avverrà». Non è descritto il tempo cronologico delle successioni ma un altro tempo, come in parallelo, o sottotesto, che scardina, appunto, le strutture del racconto lineare dimostrando che la retorica della sintassi è solo uno dei tanti modi per rappresentare il mondo. Ma anche nella previsione di un ultimo giudizio  –  di un ultimo grado di giudizio  –  in cui, davanti al tribunale dei giusti, la vita deve essere squadernata, analizzata nei suoi pieni e nei suoi vuoti. Ma, forse, senza alcuna colpa e senza alcuna ricompensa.

Questa sostanziale innocenza nichilista è spiegata col dramma di vivere discosti dal cerchio degli uomini, in un’altra mente, nella provvisorietà delle strutture; ma addirittura discosti dalla stessa idea di tempo condivisa: «Basta scendere dal letto/per sentirsi emigranti»9.

Si chiede, il poeta, ed è una delle poche volte che avviene, mi sembra, che rapporto di colpa presunta ci sia tra il proprio fare e il subire il fare del mondo; «se i baci sono freddi/nella mia poesia o nel primo sguardo/delle labbra sigillate». Insomma, tra situazione ontologica e responsabilità della libertà; tra amore come azione10 e stare in un ordine; che è far storia: nella storia11; tra destino e inganno della sottrazione.

«Non ho saputo capire». La resa si snoda nel paradosso dell’immanenza   dell’ignoranza, per cui la poesia è preghiera dovuta, atto necessario, non risarcitorio, del vivere –   la morte si sconta vivendo –.  Abitare il tempo, d’altronde, è il pegno necessario per parlare, per dire di essere perduti. Pronunciata questa sentenza della condanna a vivere – l’unica pronunciabile – ecco ancora il tempo che ci incalza con le sue necessità, le variazioni del discorso, verso una delle tante morti possibili. Così, stringendo al massimo tutte le possibilità di salvezza, rimane quella di scrivere in uno stato di perdita, nell’attesa che tutte le ore trascolorino. Rimane questa ossessione del parlarsi tenendo, tra voce e voce, quella distanza minima  che separa il noi dai corpi. Porgersi all’ascolto delle voci, dunque, ancora una volta, e tradurre, in qualche modo, quei brusii, quelle frasi da ricomporre facendole combaciare come pezzetti di un grande mosaico perduto; trovarne un senso per noi, per la specie, non per la ricostruzione di un’immagine primigenia che non esiste. Chi esce dal cerchio, chi non accetta di sottoporsi al velo delle apparenze, al grande sonno che fa dormire il mondo, è condannato al dormiveglia della parola, a quello stato come di dislocazione e di attesa in cui la parola, libera del suo dire per contratto, affonda oppure offende. Il resto è quel poco che rimane della vita, quelle scene che si fissano nello sguardo e si radicano nel ricordo come ossessioni ricorrenti, intorno alle quali proviamo a costruire possibili sensi.

Questi attimi inconclusi e brevi, custodiscono tuttavia il segreto di una sola melodia, tanto più intensa quanto siamo capaci di rinunciare alla felicità come progetto. E le pagine più nuove della poesia di Milo De Angelis descrivono, qui, attimi di gioia breve: «Quella/corsa, tra le colline del moscato,/chiamò dio con il suo nome: rimani/nella porpora dei capelli,/nei nostri suoni stupiti, cronaca/della terra, parola contro parola».

La poesia di Milo De Angelis è un esempio –  e questo è uno dei motivi del suo fascino e della grande influenza che ha esercitato in questi anni –  di come, in fondo, non ci sia vero scarto tra biografia personale e monografia della specie; non mutamento ma conferma nell’esserci tutti. Ancora somiglianze, insomma.12

Sebastiano Aglieco

NOTE:


1Milo De Angelis, parole per il figlio, in Somiglianze, p. 28, Guanda 1990.

2 Le parole del lanternaio, ne Il Piccolo Principe di Saint Exupéry.

3 Milo De Angelis, Biografia sommaria, p. 31, Mondadori 1999. 

4 «freccia,/portaci tu i piedi/verso la vittoria, e in questo spiazzo/fa’, unico dio, unica gioia del pomeriggio,/fa’ che tutto sia immenso, fa’ che non/piova », Terra del viso, p.110, ora in Poesie, Oscar Mondadori 2008.

5 «noi ci lasciamo/qui, in due metri di cemento, con un atto/di presenza, un battito/estivo, uno scambio di persona», Milo De Angelis, Tema dell’addio, p. 31, Mondadori 2005.

6 Milo De Angelis, Biografia sommaria, p. 34.

7 Milo De Angelis, Somiglianze, p. 61.

8 «Ora lo sai anche tu/lo sappiamo/mentre stiamo per rinascere», (Franco Fortini) citato in Biografia Sommaria, p.43; «Morire/è dunque perdere anche la morte, infinito/presente, nessun appello, nessuna musica/di una chiamata personale»; ibidem, p.63. Ma anche altre importanti occorrenze; per esempio: «…tu sei già stato/ciò che io, adesso, sono», (Nisargadatta), in Distante un padre, p. 83, Mondadori 1989.

9 Milo De Angelis, Somiglianze, p. 90.

10 «”perdonami questo amore che/è già un’azione”», Somiglianze, p. 68.

11 «Come si ode la pietra, come/te, gli inverni. Silenzio. Il drappello/sta passando, un uomo per volta. Tu che/compi l’esecuzione/tu, trucidato che/schivi», in Terra del viso, ora in Poesie, p.112; «”ecco il tempo”/ma il tempo è una storia, la storia ingiusta, la gioia/arrivata in ritardo», p. 105, Somiglianze.

12 «C’è un amore più grande/di te e di me, me e voi nella specie,/acqua su acqua», Distante un padre, p. 67.

 


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