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Andrzej Bobkowski – il “teppista della libertà”

Da Paolo Statuti

 

 

   Cento anni fa, il 27 ottobre 1913, nasceva a Wiener Neustadt in Austria Andrzej Bobkowski, scrittore, saggista, drammaturgo, imprenditore, divulgatore di aeromodellismo. Per l’occasione la Biblioteka Jagiellońska di Cracovia ha allestito una mostra dedicata alla figura e all’opera di questo scrittore, chiamato il «teppista della libertà», da quando un giorno disse: «Un uomo libero, un intellettuale, scrittore e poeta davvero libero, che vuole essere libero, avrà fino alla fine di questo mondo qualcosa del teppista».

   Dal 1933 al 1936 studiò all’Istituto superiore commerciale di Varsavia. Debuttò nel 1935 sulla rivista Tempo Dnia (Ritmo del Giorno) con un breve racconto umoristico. Nel 1938 sposò Barbara Birtusówna e nel marzo del 1939 si trasferirono a Châtillon presso Parigi. Dovevano restarci fino all’arrivo dei visti per l’Argentina, dove Bobkowski avrebbe lavorato presso la rappresentanza del PEŻ (Export Polacco del Ferro), ma lo scoppio della guerra mandò a monte i suoi piani. In Francia si manteneva con il commercio. Aprì in società una lavanderia polacca intitolata allo Spirito Santo, descritta in modo divertente nei suoi ricordi. A gennaio del 1940 chiuse la lavanderia e fu assunto come operaio in una fabbrica di munizioni francese. Sei mesi dopo, poco prima dell’entrata dei Tedeschi a Parigi, fu evacuato nel sud della Francia. Iniziò a scrivere l’opera-cardine della sua vita, cioè il diario del tempo di guerra Szkice piórkiem. Francja 1940-1944 (Schizzi a penna. Francia 1940-1944), contenente i pensieri e la descrizione dei viaggi, svolti per lo più in bicicletta. In esso troviamo scritte queste significative parole: «Non credo in nessun ordinamento, me ne infischio di tutte le ideologie…Sarei piuttosto propenso a dire di credere in ogni ordinamento, ideologia o sistema, in cui si parli davvero dell’uomo. Permettere all’uomo di VIVERE – ecco l’unico sistema e l’unica ideologia, e non ORDINARE di vivere, lasciargli la scelta dello scopo della sua vita e non imporgliela dall’alto. E finire poi con l’apoteosi della morte».

   Negli anni 1945-1946 lavorò presso la sezione polacca dell’Unione della Gioventù Cristiana (YMCA), arrotondando lo stipendio con altre occupazioni temporanee, come la conduzione di una libreria polacca e la riparazione delle biciclette. Collaborò fin dai primi numeri con la rivista Kultura, fondata a Parigi nel 1947 da Jerzy Giedroyć (1906-2000). Il 25 giugno 1948 i coniugi Bobkowski emigrarono nell’America Centrale e si stabilirono in Guatemala. La moglie insegnava disegno e creava modelli, mentre il marito cominciò a lavorare nell’ufficio di una fabbrica di scarpe. Nel 1949 egli aprì un negozio di aeromodellismo – il Guatemala Hobby Shop. Raccolse attorno a sé un gruppo di giovani appassionati di modellismo. Nel 1954 prese parte ai campionati mondiali di modelli volanti negli USA, e nel 1956 in Svezia.

   Nel 1957 l’Instytut Literacki di Parigi pubblicò il diario dell’occupazione Schizzi a penna. Nello stesso anno i medici gli riscontrarono un tumore al cervello. Tre settimane dopo la prima operazione scrisse: «So che dovrei cercare di non pensare, di tornare subito alla vita normale, quando il taglio si sarà rimarginato. Ma forse soltanto in superficie. Nel fondo ormai ci sarà sempre la preparazione». Subì altre due operazioni nel 1959 e 1960. Nella primavera del 1961 il suo stato di salute si aggravò, tanto da indurlo a partire per gli Stati Uniti per curarsi e per sciare. Tornato in Guatemala morì il 26 giugno 1961. Fu sepolto nella tomba di famiglia del dottor Quevedo, ai quattro figli del quale insegnava il modellismo. La moglie Barbara  morì il 22 settembre 1982 e fu sepolta accanto al marito.

   Tra le altre opere di Andrzej Bobkowski ricordiamo: il dramma Czarny piasek (La sabbia nera, Parigi, Kultura n. 154) e il volume di racconti Coco de Oro (Parigi, Instytut Literacki, 1970).

 

   Di questo scrittore propongo qui nella mia versione il racconto Lourdes, tratto dalla raccolta Coco de Oro, e già pubblicato nella mia Antologia dei racconti polacchi (Editori Riuniti, Roma, 1988).

 

Lourdes

 

   «Sì – è una strana città», asserisce sempre uno dei miei amici francesi più cari, ogni volta che gli racconto le mie impressioni su Lourdes. E’ un cattolico praticante e non soltanto militante: è addirittura battagliero; conosce Lourdes alla perfezione, perché nel 1940, dopo la fuga da Parigi, vi ha trascorso diversi mesi. So che, se si tratta delle mie convinzioni, il suo austero cattolicesimo mi annovera piuttosto nella categoria specificamente francese di quelli «un po’ cattolici». Ma quando, dopo ogni mio soggiorno a Lourdes, provo a conversare con lui su questo tema non nascondendo l’emozione, si rifugia nel luogo comune della «strana città» e preferisce ricordare le sue escursioni sui Pirenei. Non insisto, perché lo capisco. Lo capisco ancora meglio quando io stesso mi avvicino a Lourdes.

   Quest’anno vi stavo giungendo dalla parte di Pau. La strada sale dolcemente, correndo lungo uno dei fiumi più belli della Francia. Il Gave de Pau scorre in diversi alvei, qua e là si fonde in uno solo, per poi diramarsi di nuovo in una serie di bracci. A tratti profondo e poco elevato, a tratti non profondo e in altura, sguscia via tra verdi isolette ora silenzioso, ora sonoro; qui scuro come un vetro di bottiglia, là azzurro e bianco di schiuma che si infrange sulle pietre, rallenta e accelera, tace di colpo o scroscia. Quanto più ci si avvicina a Lourdes, tanto più l’aria diventa fresca e l’acqua del Gave è più fredda. Il cielo dei Pirenei, sfiorato da una nebbiolina nerastra, spicca nettamente sull’azzurro della base infocata dei monti e ricorda il cielo delle città piene di fabbriche. Tutti gli odori diventano umidi e le more non sono più così dolci come tra Bayonne e Pau. Nello stesso tempo qualcosa si azzittisce nell’anima, si avverte un peso e il colloquio con se stessi cessa di essere semplice. Il pensiero magnificamente pagano, seminato fino a quel momento al sole e annaffiato con il vino, di colpo si sente a disagio. Subentra l’urto di qualcosa contro qualcosa, e lo schianto di questa collisione viene coperto dalla «strana città».

   Già, quante cose si dicono, quante cose si fanno, pur di non ammettere certe emozioni! Anche qui domina la moda, le cui imposizioni nella psiche dell’uomo sono rispettate più rigorosamente di ogni altra. Nei colloqui con se stessi si cerca l’effetto, come nei colloqui con gli altri. Avvicinandomi a Lourdes sento chiaramente i canoni di questa moda, avverto il controllo critico dello sguardo di tutto il secolo dal quale sono spuntato, lo sguardo di serie del materialismo in cui vivo. Anch’io là mi vergogno in anticipo davanti a me stesso di certe supposizioni e ammissioni, e vorrei che alcuni pensieri non sapessero di altri; che quelli autentici, celati nel profondo, non si mostrassero a quelli «normali» e «accettati» e non mi compromettessero davanti ad essi. Cerco di cavarmela con qualche reticenza o con la «strana città», di essere credente come il mio amico francese e tanti altri, e nello stesso tempo di non rinunciare a quei limiti il cui rispetto mi permette di essere nel loro ambito un uomo «contemporaneo»; mi sforzo di passare abilmente tra il secolo intero e il sussurro del cuore, in modo da non urtare niente e nessuno, così come lungo la strada cerco di non urtare nessuno della folla di pellegrini. Accettare senza rinnegare, ammettere senza affermare, essere «illuminato» chinando furtivamente la testa di fronte alla «superstizione» degli ignoranti.

   Lo so e lo sa anche la persona amica che mi accompagna. Entrambi abbiamo già vissuto molte cose insieme, in estate vagabondiamo insieme. Di notte, dormicchiando sotto la piccola tenda, ci diciamo tutto, stringiamo ancora di più i vincoli che ci uniscono. Qui, prima di giungere a Lourdes, ci comportiamo fra di noi come ognuno di noi si comporta con i propri pensieri: ci scarichiamo a vicenda con gli scherzi, spesso perfino con lo scherno. «Non sta bene» manifestare la commozione. Entrambi ricordiamo tutte le recensioni apparse a Parigi dopo il film Bernadette, tratto dal romanzo di Werfel. Il «non sta bene», nei confronti di certe manifestazioni di sentimenti e pensieri, in quest’epoca è più forte che in qualsiasi altra. Il sostanzioso nutrirsi di una certa idea filosofica, il rimpinzarsi di verità, con le quali sempre più spesso si sopperisce alla mancanza del pane quotidiano, ci ostacolano il semplice respiro. E benché intorno l’aria sia sicuramente diversa, noi non vogliamo aspirarla a pieni polmoni.

   Nel crepuscolo che scende fruscia la rugiada nelle chiome degli alberi e dalle foglie più basse gocciola in terra. Sopra la valle della vicina Lourdes pende il bagliore delle luci e sulla strada si sente il battere di passi affrettati. Avremmo voglia di parlare di Bernadette, dire finalmente in modo serio «sai, eppure forse»…scorgerla attraverso il volto di Jennifer Jones nel film e meditare su questo sia pure un solo istante; così come ha meditato sicuramente ognuno, credente o no, uscendo dal cinema. Vorremmo scomporre e ridurre le resistenze che ci nascono dentro, quando involontariamente il film e il volto della geniale attrice si fondono dentro di noi con l’intera storia di questo luogo e – ciò che è peggio – con la sua santità. Come liberarsi dalla convinzione che quel film trasforma la sala cinematografica quasi in una chiesa, e provoca stranissime collisioni dentro tutti coloro che non credono oppure, credendo, appaiono più spesso non credenti? Che il film era valso più delle parole più ardenti e aveva toccato quelli che ascoltano soltanto i linguaggi di un’epoca non convincente? Acconsentire che uno schermo e un volto umano assumano un ruolo di rivelazione e mettano sulle labbra, oggi così assetate, qualcosa che si è soliti cercare altrove? E’ difficile rispondere, ma sentiamo che Werfel, ebreo ceco esiliato, ha compiuto una grande opera; egli avvicina Lourdes, impressiona milioni di coloro che non possono conoscerla davvero e fa ricordare. Senza voler aggiungere nulla, riaccende sia pure per un attimo, ciò che in così tante persone si è spento e impone loro di comportarsi come noi ci comportiamo in questa notte silenziosa. Costringe i riluttanti a schivare i colpi. Su questo terreno e nei confronti della stragrande maggioranza ciò significa già molto. E se soltanto inducesse quelli affatto insensibili a soffocare con ostinazione, e a calpestare ancora più scrupolosamente i resti di un falò che in realtà non si riesce mai a spegnere del tutto, anche in tal caso oggi egli svolgerebbe il suo ruolo. Ci sono tempi in cui tutto conta e per questo sono così difficili.

   Le strade possono essere strane. Werfel fuggì in Francia dopo il 1938. Come molti altri che allora cercavano rifugio in quel paese, incontrò sicuramente una serie di «ostacoli». La Francia non ama ricordare quei tempi. Uno di questi «ostacoli» era l’impossibilità di continuare a fuggire  dopo l’invasione tedesca. Egli finì a Lourdes con lo sguardo fisso alla frontiera-salvezza della Spagna, che non poteva oltrepassare. Allora, sembra, cominciò a credere e fermatosi al punto estremo del più grande sentimento di quei tempi – la paura primordiale – in questo luogo trovò un balsamo. A quanto pare fece il voto che, se fosse riuscito a sopravvivere, avrebbe consacrato il suo primo impegno a Bernadette e al suo miracolo. Come artista lo attirava anzitutto la piccola Lourdes, che oggi si può ritrovare soltanto nei dintorni, nell’umida sera dei prati e dei monti, nel vacillare della nebbia, nelle ragazzine celate sotto grandi scialli, che stringono in mano un lungo bastone e conducono qualche vacca al pascolo… Forse accostò per un istante la fronte alla statua nella grotta, in cui niente è «bello», e le grucce e le protesi sparse intorno sono ormai così simili a vecchie ossa; probabilmente poi percorse i tortuosi sentieri lungo il Gave, arrivando attraverso quelli a se stesso e alla bambina che L’aveva vista.  

   Werfel ha scritto un libro, tradotto già in molte lingue, ma non sarebbe il discendente di una razza che sente l’epoca sempre nel modo migliore, se ciò gli fosse bastato. Dopo molti vani tentativi a Hollywood, riuscì a spingere la sua visione al di là della ristretta portata del libro e a colpire in un raggio più ampio: a raggiungere le folle nei loro templi odierni: le sale cinematografiche. Ne parliamo in questa notte nei pressi di Lourdes; conversando su Werfel divaghiamo oltre quel punto in cui incessantemente si posano i nostri pensieri e si sollevano di nuovo timidamente, non avvezzi alle nicchie coperte di erba. Ma ciò che è ancora più interessante, Werfel pubblicamente non è «andato oltre», non ha ammesso ad alta voce ciò che è avvenuto in lui sette anni fa. Ha conservato fino alla fine la discrezione del suo libro e del suo film, e ha lasciato le conversioni clamorose, con pubblica confessione, a coloro che fino a quel momento le avevano più derise.

   La notte era fredda e si era spento il chiarore su Lourdes. Certe parole che si affacciavano in gola le ricacciavamo indietro, sorseggiando il tè bollente. Espellendo tra le risate il fumo delle sigarette non aspirato fino in fondo, parlavamo di Satana, che tanto ama i luoghi santi.

   Al sole, nella stessa Lourdes, le notturne beffe all’indirizzo del Male non sembrano così stolte. Qualcosa c’è in quel vecchio detto. L’aureola del primo miracolo, il visetto della piccola Bernadette, la sua storia successiva e gli assalti furiosi delle persone colte, ai quali rispondono le miracolose guarigioni: tutto questo aspetto romantico si disgrega adesso in un’atmosfera di luogo di cura religioso, di acque sante. Qualcosa spinge a mescolare gli attriti inevitabili all’eco costante di una pacata riflessione. Nel chiasso delle réclame, nel commercio da fiera del Grande Mistero, nelle esalazioni di vino delle persone che attingono l’acqua miracolosa da una fila di rubinetti, simili alle docce in un bagno modello, in tutto questo c’è lo spietato gioco con la puntata massima del cuore che si è inclini a scommettere a Lourdes. Chi si lascia ingannare da questo e la punta soltanto sul tavolo delle apparenze, quello ha perso e non può non perdere. Lungo la strada che scende verso la grotta i negozi a sinistra e a destra sono come due file di persone che impugnano dei randelli. Quasi fisicamente si avvertono le sorde mazzate inferte da ogni vetrina e insegna, da ogni elogio della merce. A metà strada si cade dritti sotto i colpi di alcune grandi insegne che affermano, lungo tutta la facciata, che lì si trova il negozio di ricordi appartenenti a certi successori di santa Bernadette Soubirous. Non so quali, perché voltai la testa, ma sono sicuro che pretese di piccolo commercio sono indirizzate ancora oggi da quella famiglia alla loro santa parente. Non riesco a liberarmi dall’impressione che da quel negozio mi raggiungano le grossolane parole:  Dis donc Bernadette – ça va pas dans la boutique. Qui all’angolo, presso un affollato bistrò, vendono speciali bottiglie per l’acqua di Lourdes, gridando a gran voce il loro pregio di essere di alluminio, e accanto è seduta una donna con un cesto pieno di fiaschette di cognac con il tappo a bicchierino. «Comprate per il viaggio». Le bottiglie con l’acqua miracolosa, legate tra loro con lo spago assieme a bottiglie di vino, pendono dalle braccia delle persone e tintinnano. Negozi, ricordi, medagliette, negozianti e pellegrini, tutto è come se ci si desse del «tu». Con chi? Manca addirittura il coraggio di rispondere. La preghiera acquista in ciò le caratteristiche di una richiesta urgente di sussidio rivolta alle autorità, elette con i voti della folla qui presente; ed è come se quest’ultima facesse discretamente capire che, poiché è così, allora… Qualcosa come una minaccia che, altrimenti, in caso estremo, la scheda elettorale della fede si potrebbe facilmente annullare.

   Passando di qua, fermandomi, penso alla notte, al libro e al film di Werfel.  A volte vorrei che esistessero senza questa Lourdes. Con insistenza vedo il dorso in pelle del Thaïs di Anatole France, scorro le pagine con la descrizione della città, sorta attorno al pilastro di Pafnuzio. Egli sedeva a gambe incrociate sul capitello e sotto di lui pendevano dalla colonna centinaia di stampelle; donne riconoscenti vi avevano appeso corone e immagini votive. Accanto, sui tappeti distesi, compagnie di acrobati facevano giochi di agilità e si muovevano con eleganza, gli incantatori di serpenti divertivano la folla raccolta intorno; una folla variopinta, vociante, ridente. Vedendo ciò si avrebbe voglia di chiedere all’improvviso, come il povero Pafnuzio tentato al salto mortale nel vuoto, dove una voce gli prometteva il volo dell’uccello: «Chi ride così?». I negozianti smerciano qui la santità, mentre dentro si svolge un’appassionata contrattazione per la più piccola particella di sentimento! una contrattazione vistosa, scorrevole, pagabile con il contante dei sorrisi di superiorità, di quei sorrisi che più tentano l’uomo. E’ così piacevole socchiudere gli occhi e posato su di essi il lorgnon enciclopedico, abbozzare un sorrisetto; ristorarsi con quella charmante impiété di una certa vecchia amica di France, la quale rimpiangendo gli antichi luoghi santi, abbandonati in favore dei nuovi, gli diceva: «E’ difficile negarlo; quella Vergine di Lourdes è compiacente, premurosa, comprensiva, zelante, direi perfino umile. Si moltiplica per essere utile. Guarisce gli ammalati, aiuta i giovani durante gli esami, congiunge in matrimonio e vende la cioccolata. Entre nous, je la trouve un peu intrigante». Che fascino e quanto garbo in queste parole! Ricordo ciò perché amo France, ma qui sento più l’odore della polvere, che dello stimolante tabacco da naso delle bisnonne, con il quale ancora oggi si cerca di preparare la polvere da sparo. Nel frequente gioco del «fingere» dei nostri giorni essa è buona tutt’al più per i fuochi artificiali. Scendo lentamente in direzione della grotta collocando sentimenti e pensieri come figure sulla scacchiera. Nell’intimo ci sono davvero soltanto caselle nere e bianche e in fin dei conti si sa sempre molto bene dove collocare qualcosa in modo tale che almeno questo gioco non diventi una commedia dialettica.

   Più in basso c’è un grande spiazzo, in alto a sinistra una brutta chiesa. A mezzogiorno qui non c’è affollamento. La grotta è piccola, davanti ad essa file di inginocchiatoi. L’odore del gran numero di candele accese e il silenzio. A poca distanza scorre il Gave e a tratti giunge all’orecchio un più sonoro gorgoglio dell’acqua. Il passo incerto delle persone che si avvicinano mute schiaccia con cautela e lievemente i granelli di sabbia sul cemento. Nella grotta c’è la statua su uno sfondo di stampelle, protesi, busti, reperti ortopedici. Qui finisce tutto il mondo escogitato, restano la semplicità e la modestia. Ardono centinaia di candele e dopo un po’ si vede soltanto la loro luce. Lo sguardo fisso delle persone è sconfinato. Occhi che guardano chissà dove una grande lontananza, che la percorrono con la velocità di un raggio, soltanto per raggiungere i piedi presso i quali depongono la loro preghiera. Occhi chiusi che guardano chissà dove una grande profondità alla ricerca di se stessi e che per il momento estraggono da essa soltanto lacrime. Brilla la luce delle candele, si moltiplica e sgorga in miliardi di raggi. Non è un miracolo; è semplicemente il loro bagliore che si disintegra in prismi davanti alla pupilla, nel caldi cristalli del bambino in cui ognuno qui può trasformarsi, sol che lo voglia… No, l’uomo non è solo, a meno che, volutamente, non chiuda egli stesso le porte. L’inquietudine dell’esistenza sorge nelle anime per le quali la morte è la cessazione di tutto, e la vita una cosa fine a se stessa, come un ninnolo sotto una campana di vetro. Dove sono mai in una simile vita le stelle, il sole, il fresco della pioggia e del vento, la semplicità delle lacrime di gioia? Dov’è la contentezza della lontananza e la sua speranza? «La vergogna di pregare», scriveva Nietzsche, perché considerava la preghiera un atto degno soltanto dei poveri di spirito, dei mendicanti, e dei codardi. Bere l’acqua delle sorgenti di montagna, aspirare l’arietta dei prati sul Gave, verdognola e fresca come menta, anche ciò è una vergogna? Eppure si ha bisogno di Dio, così come si ha bisogno dell’ossigeno, e lo spirito non è soltanto ragione, ma anche sentimento. Il senso della moralità, della libertà, della bellezza e della santità non è una funzione dell’intelletto. Libertà, moralità, bellezza, santità… Qui non c’è alcuna definizione, esse si sentono; si sentono, malgrado tutto, i confini dove esse finiscono o iniziano. E forse la cosa peggiore non è che scompaiano le loro manifestazioni esteriori, ma il fatto che si faccia di tutto per cancellare i loro confini nell’uomo. La tensione e il caos delle grandi scelte attraverso cui il mondo passa sono enormi, perché in esse, in fondo, è in gioco il voto dell’anima intera. E’ una votazione perfettamente segreta; si svolge così profondamente , che non di rado l’uomo stesso a lungo non sa su chi sia caduta in effetti la sua scelta. Cartesio affascina, Pascal è paziente come l’acqua che scava sotto la superficie il terreno roccioso. Dicono che masticare le preghiere adesso non si differenzi affatto dal masticare la gomma… Così non è e non sarà.

   Raggiungo la riva opposta del fiume, mi siedo sull’erba umida e mi accendo una sigaretta. Da qui non si vedono più le singole fiammelle delle candele, ma soltanto i contorni della figura nella nebbia luminosa. Accanto a me siedono altre persone, mangiano e bevono. Sul Pic du Jer s’inerpica lentamente un vagoncino della funivia, dalla città giunge il brusio, è più forte il rombo dei pullman che portano la folla in gita sui monti. Qui c’è di nuovo quel mondo onesto che dedica tanta attenzione alla ricerca delle grandi verità, e così poca al semplice sfuggire gli sbagli. Ma sento il suo calore e mi è caro per questo. Non è vecchio in nessuna delle sue cinque parti.

   Dopo mezzogiorno il traffico aumenta. Forse sulla riva si snoderà una processione implorando ad alta voce un miracolo, faranno uscire gli infermi dagli ospedali, dove un uomo, impotente di fronte alle sofferenze di un altro, tenta e ricerca con invidia, svolge una fredda cronaca dei fatti. Di fronte ad essi è difficile tergiversare. Penso a Zola, a questo scrittore-documento, alla sua «Lourdes» che finisce nel compromesso dei «fluidi curativi». Più di tutto l’uomo teme l’evidenza. Ciò che avviene invece davanti alla grotta è lontano dal silenzio del Vangelo, dalla calda intimità della descrizione di Cristo che entra nella casa di Simone. Ma forse anche allora la folla gridava altrettanto a gran voce: «Signore, compi il miracolo!»? Pretendeva e insisteva. Le guarigioni miracolose oggi sono più rare. Chissà se col passare degli anni non diverranno molto rare. La gloria di Lourdes si offuscherà, si trasferirà altrove, come da tanti altri luoghi è giunta qui; ma non per i motivi espressi così argutamente a France dalla sua vecchia amica. Carrel – in un breve studio relativo all’influenza della preghiera sugli ammalati – scrive che l’azione della preghiera dipende dalla sua intensità. Se adesso a Lourdes i miracoli non sono più così frequenti come quaranta o cinquanta anni fa, è perché qui adesso gli infermi non trovano quell’atmosfera di profondo raccoglimento che regnava un tempo. I pellegrini sono diventati turisti e le loro preghiere sono inefficaci. Ciò non è lontano da un’analisi chimica, non è lontano da quella teoria di fisica astronomica che forse un giorno si incrocerà con gli argomenti della Summa theologica di san Tommaso d’Aquino.

   Torno in città. Passo di nuovo tra i negozi, guardo e osservo. Mi fermo assieme agli altri davanti alle vetrine. Comprare forse alcune di quelle medagliette? Ma forse in quel negozio là sono più belle? Le compro così, semplicemente. Qualcuno al quale poi ne darò una, di sicuro l’accetterà con commozione. Non sorriderà con noncuranza al momento di prenderla in mano, perché sentirà in essa proprio la semplicità e la serenità con le quali è stata acquistata. Poi bisogna comprare qualche cartolina, farsi largo fino alla cassetta delle lettere stracolma di corrispondenza. Bisogna dare anche un’occhiata alle vetrine dei negozi di alimentari, che qui hanno più generi in scatola di tutti gli altri che s’incontrano strada facendo. La vita ferve, è semplice; in essa c’è interezza e armonia. Sui volti delle persone, nella massa delle mani affaticate che si allungano allo stesso modo verso il cibo e verso di Lei nella grotta, c’è la gioia e la concordia di una festa spontanea. Molti qui hanno preso una decisione importante e se ne rallegrano a modo loro. Spesso tentenneranno ancora, si burleranno dei comandamenti, ma la maggior parte di loro sarà attratta, al ritorno, dalla libertà di sbagliare e dalla forza del perdono. Percorreranno spesso un cerchio così grande che un suo segmento sembrerà loro la retta di un tracciato del tutto diverso; e inaspettatamente torneranno al punto di partenza, alla prima preghiera degli anni dell’infanzia, alle emozioni dei tempi della prima medaglietta.

   Verso sera ho accceso il fuoco, ai margini del bosco. La notte calava lentamente dai monti e i prati nella valle diventavano sempre più freddi. All’alba si copriranno di nebbia, stupendamente gelata e quasi friabile, come brina. Nel bosco fa ancora caldo. Gli aghi secchi e i  tronchi degli alberi si raffreddano più gradualmente. Ci si può scaldare poggiandoci contro le spalle. Il fumo rinfrescato sui prati scende rapido e si aggrappa all’erba. Lungo la strada in basso la gente cammina verso Lourdes. Guardo il fuoco e penso che don Peyramale, parroco di Lourdes al tempo di Bernadette, aveva ragione: «I credenti non hanno bisogno di alcuna spiegazione; spiegare ai non credenti è una cosa impossibile». Parole dure, ma quanto mai giuste proprio oggi, che tutto diventa una questione di fede. Di quella di don Peyramale, e di una diversa.

 

(C) by Paolo Statuti

 

 

Alcune fotografie di Andrzej Bobkowski

Andrzej Bobkowski con la moglie Barbara

Andrzej Bobkowski con la moglie Barbara

 

pobrane (16)student na rowerze

Manifesto della mostra di Cracovia

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Andrzej Bobkowski con la moglie Barbara
Andrzej Bobkowski con la moglie Barbara

 



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